Il viaggio di Manzoni alla volta della capitale Toscana, che era diventata per lui il mitico Eldorado dei suoi problemi linguistici, iniziò da Milano il 15 luglio 1827 e aveva per scopo la risciacquatura in acqua d’Arno delle sue carte. Lo accompagnavano la madre, la moglie, i figli Giulia, Pietro, Cristina, Sofia, Enrico, Vittoria e cinque domestici. A casa era rimasto solo il piccolo Filippo.
Per un mese e mezzo, con tappe più o meno lunghe, per Pavia, Genova, Sestri, La Spezia, Livorno, Pisa e Lucca, il viaggio si era prolungato in un alternarsi di cure marine e di visite ad amici e monumenti.
Finalmente verso il tramonto del 29 agosto 1827 sbarcavano tutti in via Larga de’ Legnaiuoli a Firenze, l’attuale via Tornabuoni, davanti all’albergo di Madame Fanny Hombert. Il posto era raccomandabile, la guida di Firenze lo decantava “très bien frequenté et parfaitement organisé et servi”, ma ai Manzoni non apparve tale e dopo due giorni decisero di trasferirsi all’Albergo delle Quattro Nazioni, poco discosto, sul Lungarno, vicino a Santa Trinita.
La topografia del soggiorno fiorentino del Manzoni non è ricchissima, ma abbastanza determinabile: il Palazzo Ferroni in via Tornabuoni, dove era l’albergo di M. Hombert; quello di Lungarno, dove la famiglia si trasferì dopo tre giorni all’Albergo delle Quattro Nazioni; il Gabinetto Vieusseux, poco distante, in Largo Santa Trinita, dove il Manzoni conobbe i maggiori esponenti del mondo letterario fiorentino, e non soltanto fiorentino; la casa dell’amico Cioni di via del Campuccio, attualmente situata al numero 64.
Il Manzoni era felice della meta raggiunta, ma agli altri questo soggiorno fu variamente gradito: la madre aveva perduto l’appetito e non sognava che tornare a Milano; la moglie docile, remissiva, per nulla avvantaggiata dalle cure, resisteva per amore del suo Alessandro; Sofia ammalatasi a Livorno di febbre gastrica, soffriva ancora e doveva sopportarsi la quotidiana applicazione di mignatte al pancino; Giulietta, la primogenita, si annoiava fino all’esasperazione e si sfogava scrivendo al cugino Beccaria di essere “così imbalordita, così stufa, da non saper più pensare, né parlare e meno scrivere”, ma grazie a lei abbiamo il resoconto di questo viaggio. Pietro era l’unico che, in funzione di accompagnatore del padre, condivise la sua felicità.
L’arrivo del Manzoni era attesissimo a Firenze, soprattutto nell’ambiente che si raccoglieva intorno a Gian Pietro Vieusseux nel suo Gabinetto letterario. “Je suis extrement curieux de le voir” aveva scritto Gian Pietro a Gino Capponi e molto contava sulla presenza del Tommaseo, il quale, già in confidenza con don Alessandro, prometteva di riuscire a vincerne la ritrosia, malgrado fosse “sujet à mille infirmitées nerveuses qui lui empechent d’aller dans le monde”. In effetti di tale intervento non vi fu alcun bisogno perché il Manzoni finì poi per andare da lui tutti i giorni, tanto alle riunioni, quanto “en petit comité”.
La sensazione che il Manzoni non fosse poi così poco socievole quanto pensava, il Vieusseux dovette averla subito perché, già il tre settembre, dopo tre incontri cordialissimi, lo invitava a una soirée priée, che doveva essere la beneficiata del poeta milanese.
In quattro passi, dal Lungarno a Palazzo Buondelmonte, il Manzoni era giunto al Gabinetto, esattamente alle sette del pomeriggio, accolto da Gian Pietro e da un eccezionale consesso di uomini illustri. Mancava soltanto Gino Capponi, assente da Firenze.
Il più espansivo fu il Niccolini, che aveva conosciuto il Manzoni qualche giorno prima e già s’era impegnato a leggere I Promessi Sposi, usciti un mese prima, con l’intenzione di sottoporli a un severo esame linguistico.
Tutti si affannavano a fare domande e a proporre questioni; soltanto il Leopardi, dopo il primo incontro, si era isolato in un angolo raccolto nei suoi pensieri e nel suo pallore. Terenzio Mamiani, gran signore, godeva delle manifestazioni di simpatia verso l’ospite e sollecitava il consenso un po’ riservato del Leopardi.
L’incontro più temuto dal Vieusseux era quello col Giordani che si faceva attendere e del quale conosceva le idee e il carattere; né i suoi timori erano ingiustificati, perché, quando si presentò all’ospite, invece di salutarlo, gli chiese a bruciapelo: “è vero che credete nei miracoli?”. Il Manzoni se la cavò rispondendo: “Eh, è una gran questione”, e per il resto della sera si ignorarono.
Alle nove in punto Manzoni si ritirò dopo aver “enchanté tout le mond”, con la sua modestia, la sua dolcezza e la sua affabilità, ma in fondo al Vieusseux aveva fatto una gran impressione “son bégayement”, quella balbuzie della quale Manzoni stesso si divertiva.
Dopo questa serata i piani linguistici erano sistemati e la risciacquatura dei “settantun lenzuoli”, che tanti erano i fogli che costituivano la prima edizione del romanzo, era ormai assicurata: “un’acqua come Arno e lavandaie come Cioni e Niccolini, fuor di qui non ne trovo in nessun luogo” scriveva al Grossi. E incominciarono i colloqui un po’ sul Lungarno, un po’ in via del Campuccio in casa Cioni, di cui sia ha la testimonianza dello stesso Manzoni.
Parla il Niccolini che ha già letto qualche capitolo dei I promessi Sposi e dice al Manzoni:
– A quel posto dove usate la frase “con un’aria di me ne rido”, potete levare quella girata: “come dicono i milanesi”, perché si direbbe benissimo anche qui.
– Mi fa tanto piacere, tanto più che il “me ne rido” non è tanto milanese. La nostra locuzione è la più strana del mondo: noi diciamo, e chi sa dove lo siamo andato a pigliare, diciamo “me ne impipo”.
– Eh? Me ne impipo lo diciamo anche noi.
– Voi?
– Noi!
– Voi! – ripete il Manzoni, sempre più meravigliato – io credeva che voi diceste piuttosto: “io me ne indormo”.
– Che! “Me ne indormo” non lo dice nessuno in Toscana.
– E “me n’impipo?”
– “Me n’impipo” lo dicono tutti.
Interviene il Cioni:
– Sicuro, sicuro, impiparsene è la parola più propria e più usata nel linguaggio famigliare.
– Noi poi – soggiunge il Manzoni – appicchiamo a questo verbo una giunta stranissima cavata non so donde …
– Ed è?
– Diciamo “impiparsi dell’Olanda”.
– Sicuro, sicuro, impiparsi dell’Olanda, così diciamo anche noi.
– Anche voi?
– Anche noi.
Così, a una a una, le piccole macchie che turbavano non soltanto il candore dei suoi panni, ma anche i sonni del Manzoni, andavano scomparendo.
Don Alessandro lasciò a Firenze un po’ di cuore e, appena giunto a casa, scriveva al suo amico Cioni, il più solerte fra i suoi risciacquatori in Arno: “Che le dirò ora che mi possa servire d’equivalente o di compenso a quei soavissimi colloqui di via del Campuccio o di Lungarno? Nulla; nulla, se non che il desiderio o il rammarico, o il martellio o anche il repetío ne durerà in me tutta la vita”.
Parole impegnative anche se un po’ enfatiche, ma quel “repetío” che ha spaventato qualche editore della lettera, fino a ometterlo era ben descrittivo dell’ambiente rumoroso per la presenza di artigiani e fabbri di via del Campuccio che tanta gioia aveva dato al romanziere.
Tornato a Milano Manzoni sentì che i risultati del tuffo dei suoi panni in acqua d’Arno non erano ancora sufficienti e ben sapendo che al Cioni e al Niccolini le insistenti richieste non potevano recare “altra vera difficoltà che quella della noia che doveva loro costare”, continuò a farsi mandare per iscritto” gli appunti desiderati con tanta ragione”, come lui stesso li definisce.
La persona con la quale un fortunato evento lo aveva messo a contatto era la signorina Emilia Luti, fiorentinissima, trasferitasi a Milano nel 1838 come governante in casa D’Azeglio. Massimo l’aveva portata con sé da un viaggio in Toscana per affidargli la figlia Rina che aveva avuto dal primo matrimonio con Giulietta Manzoni.
La Luti accompagnava spesso la bambina a far visita al nonno e di qui nacque la sua familiarità con il Manzoni. Passò il 1841, per un anno, con le stesse mansioni nella casa del Manzoni. La sua preziosa collaborazione alla risciacquatura, tanto preziosa da meritarsi l’attribuzione del merito totale sulla copia del romanzo riveduto che il Manzoni le dedicò con queste parole: “Madamigella Emilia Luti gradisca questi cenci da Lei risciacquati in Arno, che le offre con affettuosa riconoscenza, l’autore”.
Anche la marchesa Marianna Rinuccini, fiorentina, ebbe l’onore di passare nella storia della risciacquatura per volere del Manzoni. Trasferitasi a Milano per il matrimonio con il marchese Giorgio Teodoro Trivulzio, ebbe occasione di fornire al Manzoni parole e frasi del vivo parlar fiorentino.
Tra i benemeriti della risciacquatura va ricordato il canonico Giuseppe Borghi, nato a Bibbiena. Buon letterato, insegnante di retorica e filosofia, ebbe ottima reputazione come grecista. A lui il Manzoni, partendo da Firenze, lasciò il Vocabolario Milanese-Italiano del Cherubini perché lo postillasse.
Il Manzoni si trovò benissimo nel suo soggiorno fiorentino, circondato dalla rispettosa simpatia del bel mondo, aiutato premurosamente nelle sue ricerche linguistiche che occupavano tutti i suoi pensieri, confortato da un clima favorevolissimo per il suo fisico, era felice e soddisfatto e di questo vi è traccia nelle lettere che scriveva al Grossi, al Cattaneo e agli altri amici milanesi.
Annotava la figlia Giulia: “papà passeggia moltissimo con Pietro, si trova bene a Firenze […] dice sempre un benone di Firenze che finisce per lui nella lingua. Trovo che papà ha guadagnato molto. Il lunedì c’è soirée priée del direttore del gabinetto letterario dove il papà va ogni giorno, ebbe l’invito in stampa e ieri vi passò la sera e siccome il biglietto vale per vari lunedì conta andarci sempre. Vedi che è molto per lui”.
Giulietta annota che il padre “sta benone, sempre molto desolé di dover lasciare codesta sua Firenze. Chacun son gout”. […] Insomma questa bella Firenze mi ha stancata che nulla più e oggi ho dichiarato che ne ho veduto abbastanza”. […] Le vie sono anguste e sudice […] andare alle Cascine è un’impresa. Dove si passeggia? Lung’Arno cioè sulla riva di un’acqua gialla senza movimento quasi, e non vi si vede su un pelo, uno spazio stretto e corto, un pavimento sporco e ineguale ecco il Lung’Arno. […] Questa mattina ho veduto la Chiesa Santa Croce dove sono i monumenti di varie persone celebri e questa mi piacque assai”.
La famiglia Manzoni era giunta a Firenze il 29 agosto 1827 e dopo avervi trascorso un mese, il 1 ottobre ripartì per tornare a Milano. Mentre Manzoni non perdeva occasione per esprimere il suo disappunto per la partenza, la figlia Giulietta ne esulta. Malgrado la fretta di andarsene Giulietta non può esimersi dal riconoscere all’ultimo momento la cordiale ospitalità dei fiorentini: “Ti assicuro per altro”, scriveva al cugino Beccaria, “che non si può a meno di regretter un poco l’amabile e distinta società che la gentilezza dei fiorentini ci procura; davvero passiamo delle serate senza uscire di casa in mezzo a persone piene di spirito e di educazione perfetta; le ore passano fra discorsi sempre interessanti, divertenti e istruttivi. Vi sono poi delle persone alle quali siamo affezionate di cuore”.
Manzoni giunge alla conclusione dalla quale appare la sua soddisfazione più completa, con ostentata modestia, ma non del tutto sincera, attribuendo agli altri il merito della riuscita della risciacquatura: “… e non si meraviglieranno di veder sostituito lo spigliato allo stentato, lo scorrevole allo strascicato, l’agile al pesante, il per l’appunto all’astratto, venendo a sapere che ciò non è dovuto alle mie alzate d’ingegno, ma ai mezzi che somministra il vocabolario di un popolo; cioè d’una società che, in fatto di lingua, ha soprattutto il fine d’intendersi tra sé speditamente, senza sforzo e con la maggior certezza possibile, sopra i più diversi argomenti che possono venire in taglio, secondo le condizioni dei tempi e i gradi della civiltà”.
Nonostante le pressioni del Cioni per convincere Manzoni a tornare a Firenze, la risciacquatura continuò con una “lavandaia” fiorentina, la governante Emilia Luti, ma le acque non furono più quelle dell’Arno, ma del Naviglio.