Il cieco nato. L’inusitata lettura di sant’Ireneo

240 192 Carlo Nardi
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gnosis_2di Carlo Nardi • Un disagio presente tra devoti lettori dell’Antico Testamento è ricorrente. Non solo. Lettori con sensibilità parassitarie al cristianesimo non scusano Chi ha ispirato quelle pagine per gli ammazzamenti che vi si trovano. Tant’è che fin dal secondo secolo ci fu chi pensò – Marcione e gnostici vari – che il Vecchio Testamento non fosse ispirato dallo stesso Dio del Nuovo, ma che l’antica Legge rispecchiasse il pensiero e il carattere – un caratteraccio – di un dio inferiore che, secondo loro, si credeva il Padreterno senza esserlo. Con notevole fantasia a questo dio di second’ordine, venuto fuori in modo strano, ma identificato con il Dio degli ebrei, si attribuiva non solo di aver promulgato la legge di Mosè con i dieci comandamenti, ma anche di aver creato, o meglio riassettato, questo mondo materiale e infine plasmato la nostra natura umana: il tutto, dunque, e tutti noi ‘figli di un dio minore’, finché col Nuovo Testamento non si fosse fatto conoscere, finallora ignorato, il Padre che inviava a parlarci di lui altri ‘personaggi’ divini, fra cui Cristo e lo Spirito.

Ora, in questa sottovalutazione o meglio dispregio sostanziale della creazione dal nulla e del processo della vicenda umana non c’era posto per una concreta storia della salvezza con tappe, smacchi, risultati donati dall’unico vero Dio. Per gli gnostici, non c’era un avanzare lento ma mirato verso la pienezza dei tempi in Cristo, vero Dio e vero uomo.

Con questi signori che pensavano a due esseri divini, a un dio a suo modo ‘giusto’ ma crudele della Legge, e al Dio Padre buono, tutto pace e gioia per chi è in grado di conoscerlo, si confrontò sant’Ireneo, vescovo di Lione, alla fine del secondo secolo. Ireneo si rifà al miracolo del cieco nato, che leggeva nel Vangelo secondo Giovanni, il quale era stato maestro del vescovo Policarpo, a sua volta suo maestro.

Nel miracolo del cieco nato Gesù dona la vista a quell’uomo che non l’aveva mai avuta. La dona non mediante una parola, come avrebbe potuto fare, ma «facendo del fango» per spalmarlo su quegli occhi morti prima d’essere mai stati vivi. Il Figlio di Dio lavora, si sporca le mani di mota e modella il fango per integrare quanto mancava alla plasmazione intrauterina del cieco, «perché l’opera di Dio fosse portata a compimento», come Gesù aveva detto agli apostoli che si domandavano il perché di quella cecità fin dalla nascita (Gv 9,16). E Ireneo deduce: «e questa è l’opera di Dio: la plasmazione dell’essere umano», e così Gesù, modellando o rimodellando, intendeva mostrare che è Lui quello stesso Dio, creatore e artefice, che un tempo aveva plasmato Adamo ed Eva.

In tal modo unità della storia della salvezza e rivelazione divina sono mostrate con i fatti, il lavoro di Gesù e così l’unità di Dio che crea, anzi che plasma non solo i progenitori ma tutti i «figli d’Eva» (Manzoni) e quel cieco in modo specialissimo; ed è Lui che riplasmerà i nostri corpi mortali nella futura risurrezione della nostra carne, anch’essa a immagine di quel Dio plasmato nel grembo della Vergine Madre, anche Lui fattosi nostra pasta, Dio nella nostra carne. Difatti – dice Ireneo – «quando il Verbo di Dio si fece carne, mostrò la sua vera immagine, diventando Lui stesso ciò che era la sua immagine», ossia diventando uomo plasmato nel suo corpo a immagine del Figlio di Dio, se medesimo che da sempre si sarebbe fatto uno di noi (Contro le eresie V,16,2; cf. 15,2-16,2). Nel modellare Adamo il Figlio di Dio pensava a quella realtà – la nostra, umana – che avrebbe assunto facendosi uomo.

Conclusioni anche per la quarta domenica di Quaresima, dell’anno A e, a discrezione, pure degli anni B e C con il testo evangelico (Gv 9,1-41), e sempre per l’anime nostre: unità in un cammino ampio quanto la storia del mondo verso la pienezza della vita, «la rivestita carne alleluiando» (Dante); rispettoso amore per la nostra carne, quanto più è fragile; concretezza di un Dio con le mani motose.

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