Il ministero degli sposi cristiani come servizio alla pace: spunti ecclesiologici e biblici

9faefe5f1bdi Gianni Cioli Severino Dianich e Serena Noceti nel loro Trattato sulla chiesa (Brescia 2002) all’interno del capitolo sui ministeri dedicano un ampio paragrafo al “ministero degli sposi”: se è vero che ogni cristiano, in quanto parte di un popolo sacerdotale è chiamato a servire alla crescita del Regno di Dio nella storia, i coniugi cristiani saranno certamente coinvolti in questo servizio e lo saranno in modo più specifico in virtù del loro matrimonio. Per gli sposi cristiani si prospettano innumerevoli forme di servizio al Regno di Dio nella testimonianza della carità e nell’annuncio del vangelo.

A partire da questa premessa mi sembra opportuno riflettere sulla specifica vocazione della coppia cristiana – nella chiesa che è sacramento, cioè segno e strumento di unità (cf. LG 1) – a essere segno e strumento di pace, ovvero a testimoniare, a partire da legame coniugale, la possibilità di superare il ricorso alla violenza nelle relazioni umane.

La pace in senso biblico non significa infatti semplice assenza di violenza in atto: è il riflesso nelle relazioni umane del progetto eterno di Dio, ed è frutto della giustizia. Si può affermare che il rovescio della pace biblica è il dominio dell’essere umano sul proprio simile.

Su questa base potremmo giungere a interpretare il sacramento del matrimonio come chiamata a superare la tentazione del dominio nelle relazioni affettive.

Per comprendere meglio quest’ipotesi propongo di accostare dialetticamente due brani biblici.

Il primo, Gen 3,16, riporta le parole rivolte dal Signore Dio alla donna dopo che la coppia edenica ha mangiato dell’albero di cui gli era stato comandato di non mangiare: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il brano ha conosciuto una variegata vicenda interpretativa ed è stato letto ora come sentenza divina che impone il dominio maschile a rimedio delle conseguenze della trasgressione, ora, al contrario, come presa d’atto degli effetti del peccato con la descrizione di una dinamica di dominio che dovrebbe essere contrastata.

Il secondo brano, Mt 20,25-28, riferisce invece le parole rivolte da Gesù ai discepoli che si erano indignati per la richiesta avanzata dai figli di Zebedeo di avere una posizione di privilegio nel Regno da lui annunciato: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Secondo Enrico Chiavacci il passo illustra esattamente la logica del Regno di Dio e illumina il senso, intrinsecamente sociale, della morale cristiana (cf. Teologia morale 2, Assisi 1980, 103). Dalle parole del Signore risulta con chiarezza che il cristiano è chiamato a superare ogni logica di dominio nelle relazioni che lo coinvolgono.

In coerenza con questa vocazione fondamentale del cristiano si può cogliere nel sacramento del matrimonio una specifica chiamata a testimoniare la pace individuando nel conflitto uomo-donna la cifra originaria del dominio conflittuale che affligge la storia ma che i cristiani sono chiamati a superare.

Il libello di ripudio (cf. Mt 19,3-8) poteva essere segno emblematico di questo dominio e della rassegnazione umana sull’impossibilità di ritrovare l’antico progetto di pace divino. Gesù, interrogato sul matrimonio, annuncia la novità della pace originaria ridonata («i due saranno una carne sola […] non sono più due, ma una carne sola»: Mt 19,5-6). Alla luce di Ef 5,25-32 si può sviluppare la dimensione battesimale e pasquale della vita matrimoniale («per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato da una parola»: Ef 5,26). La dimensione pasquale può permetterci di evocare l’esodo («l’uomo lascerà…»: Ef 5,31), innanzitutto da se stessi, come condizione necessaria per ritrovarsi nell’altra/altro come in “terra di benedizione”. Il lasciare se stessi, la propria vita, come condizione per trovare nell’altra/altro una nuova pienezza di vita (“una carne sola”) non può prescindere dall’esperienza esistenziale della partecipazione alla croce di Cristo, come via della pace («per mezzo della sua croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia»: Ef 2,16). Tale partecipazione, postulata dalla struttura pasquale della stessa esistenza cristiana inaugurata dal battesimo, trova nel matrimonio una singolare espressione.

La generazione dei figli in un contesto postmoderno può, per certi versi, rientrare nel paradigma dell’esodo pasquale come abbandono di sé: coraggio di perdere la propria vita per trovarla nel dono (cf. Mt 16,25; Gv 12,24-25). Nella società complessa l’accoglienza dei figli sfida la coppia a gestire nuovi motivi di conflittualità (ripensamento e ricomprensione della complementarità dei ruoli); al tempo stesso la presenza di un bambino bisognoso d’amore, d’attenzione e di cure è segno tangibile di quella logica del regno di Dio che gli sposi cristiani sono chiamati ad annunciare e a testimoniare (cf. Mt 18,1-5).