In margine ad un recente libro di Fausto Bertinotti

bertinotti

di Stefano Tarocchi • Parliamo qui del libro intervista di Fausto Bertinotti, con la prefazione del card. Gianfranco Ravasi, uscito recentemente per i tipi della Marcianum Press (F. Bertinotti, Sempre daccapo. Conversazione con Roberto Donadoni, Venezia 2014).

Che cosa spinge un personaggio della caratura di Bertinotti a misurarsi con domande di grande rilievo, poste da don Roberto Donadoni, direttore editoriale della Marcianum Press non è semplice da decifrare. Ma naturalmente un libro intervista è un percorso diverso da un libro semplicemente autoriale. Chi intervista ha in mente delle domande, e le risposte a quest’ultime in qualche modo organizzano le domande successive.

Questo libro si articola in quattro tempi – parlerei di tempi più che di capitoli -: 1. le sfide del nostro tempo; 2. la “terza via” al socialismo; 3. socialismo e cristianesimo; 4. le domande ultime. È indubbio che soprattutto il quarto tempo (pp. 89-121) sia il più intrigante, come cercherò di mostrare.

In queste pagine va anche aggiunto che c’è un singolare rapporto con san Paolo, a cominciare da quello che l’apostolo scrive alle chiese della Galazia, definendo in Cristo una nuova visione dell’umanità: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Dell’apostolo Paolo, Bertinotti delinea la funzione di costruttore del popolo di Dio, per sostenere che ricalchi in questo, da un certo punto di vista, le orme di Mosè. Ma in ogni caso, scrive Bertinotti, Paolo non è da considerare il fondatore del cristianesimo né è mai da contrapporre a Cristo, anch’egli peraltro non «circoscritto» alla sfera del pur nobile fondatore. Il fondatore, infatti, ha sempre a che fare con una dimensione storica; così se Paolo è impegnato nel fondare la comunità di Corinto liberandola da tutte le sue debolezze e i suoi limiti, il Cristo «in ogni suo atto è la rottura dell’assetto del mondo antico con l’immissione di ogni reietto» (p. 85). Qui secondo me traspare una certa nostalgia del non credente che vorrebbe aderire alla fede ma ne è impedito, un po’ come quando lascia al mondo di chi è credente i valori immutabili (p. 103). Il politico, invece, deve declinare i valori in modo diverso, a seconda del corso della storia che sta attraversando.

Fausto Bertinotti si muove da una lettura molto acuta sulla realtà multiculturale del nostro tempo (il “meticciato di popoli e di culture” di cui parlava l’allora patriarca Scola nel 2007: p. 31), per affermare, citando uno studio di Amintore Fanfani, l’incompatibilità tra capitalismo e cristianesimo (p. 71). D’altronde, il capitalismo cui ci si riferisce è quello che permette che l’1% della popolazione possegga metà della ricchezza mondiale. Bertinotti ricorda con una certa commozione l’incontro che il cardinale Michele Pellegrino, allora arcivescovo di Torino, ebbe quasi in punta di piedi, con gli operai di quella città negli anni ‘70, nel momento in una lotta per il difficile rinnovo del contratto. E rammenta anche il vescovo Bettazzi ad Ivrea e l’esperienza di preti operai, in quello che definisce un “camminare insieme” fra la sfera ecclesiale e quella del mondo lavoro, collocati in due mondi diversi della società del tempo.

Vengo così alle domande ultime, proprie dell’ultima tappa del libro: dall’incontro con Cristo rammentato da papa Francesco come primo momento del cammino della fede, che progredisce con l’approfondimento della sua parola (p. 107), alla risposta ai grandi interrogativi dell’esistenza dell’uomo che hanno come risposta una dimensione religiosa, oppure terrena. L’uomo Bertinotti sceglie il cammino di chi avanza nell’esistenza quotidiana «come se Dio non esistesse», dove la distinzione tra credenti e non credenti si stabilisce circa la dimensione della fede nello spazio pubblico. Se credenti e non credenti vogliono camminare insieme – è una delle tracce eventi di questo volume – vanno evitati «tutti gli elementi di commistione» fra le due dimensioni.

La radice di questo argomento non risiede in un progetto filosofico, ma nell’insegnamento di san Paolo, (Bertinotti cita Romani 13,1: «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio»; ma potremmo riferirci anche a quello che l’apostolo scrive a Filemone, oppure nelle lettere ai Colossesi e agli Efesini), e in quello del Vangelo di Giovanni: «Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo (Gv 17,16.18)». La lettura di Bertinotti (p. 110) è assai interessante: Paolo detta questo insegnamento (ossia la sottomissione all’autorità) non per confermare il potere ma perché ritiene che sia così caduco da non doversene occupare.

In questa dimensione l’altro, il prossimo evangelico, non è il limite ma l’ambito in cui esercitare la propria libertà. E qui si affaccia ancora san Paolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21): è l’ulteriore questione di Donadoni, cui Bertinotti risponde, cogliendo finemente il senso della provocazione, con l’esortazione della lettera ai Romani, tratta ancora dal capitolo 13: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità» (Rom 13,8-10).

D’altronde, Bertinotti mantiene come punto fermo – e lo ripete più volte – l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana, in cui i costituenti posero come principio della carta il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Per Bertinotti si pone quella «straordinaria utopia in cui gli ultimi possono diventare primi» (p. 93). Oppure, come scrive alla conclusione del volume: «per usare il linguaggio del credente, va senz’altro mantenuta l’idea che nella nostra società gli ultimi, se non possono diventare i primi, debbono poter smettere di essere gli ultimi … gli sfruttati, gli umiliati, gli esclusi diventino il lievito di una nuova umanità, in cui non ci siano più primi e ultimi» (p. 121).

È questo che, sostiene Bertinotti, va trattenuto: e chiosa ancora con san Paolo, riprendendo di fatto il suo testamento postumo, conservatoci dai discepoli: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tim 4,7). E qui Bertinotti in un certo senso si tradisce, quando muta la frase di Paolo da «ho conservato la fede» a «non ho perso la fede». Inguaribile nostalgia che non ci rende mai tranquilli, ma ci colloca sempre in cammino, «sempre daccapo», appunto.