Pensieri pasquali con gli antichi Padri

Gregorio-di-Nazianzodi Carlo Nardi • Che Gesù è risorto, era non solo pacifico, ma anche essenziale nel primo e secondo secolo per la fede della grande Chiesa, la “cattolica” che da subito prese le distanze da chi, come gli gnostici, riduceva la risurrezione a un qualcosa di evanescente. Nel concepire la pasqua, sia nella riflessione teologica che negli usi liturgici, i cristiani del secondo e terzo secolo erano invece tutt’altro che d’accordo, come del resto nel dove collocare l’immagine di Dio che è nell’uomo (Gen 1,16-18).

I cristiani dell’antica provincia d’Asia, per i quali l’immagine di Dio è nel corpo, plasmato appunto “a immagine” del Figlio di Dio fatto carne, per una etimologia popolare, collegavano la parola “pasqua” in greco páscha con il verbo páschein che, sempre in greco, può voler dire “patire”. Ne derivava la teologia della “pasqua” come “passione”: secondo questa concezione, pasqua è soprattutto la “gloriosa passione” del Signore, come si esprime anche il Canone romano, sulla scia dell’evangelista Giovanni, per il quale la croce è glorificazione sconcertante e paradossale. Secondo Ireneo, Gesù soffre e muore perché «la luce che proviene dal Padre inondi la sua carne e dalla sua carne sfolgorante» nella risurrezione «venga in noi, e così l’uomo giunga all’incorruzione, avvolto dalla luce del Padre» (Contro le eresie IV,20,2), in una scanzione di tre tappe: dalla carne sofferente di Cristo nella passione a quella radiosa nella sua esaltazione e alla nostra nella futura risurrezione.

Più corretta grammaticalmente era però l’etimologia nota ai cristiani di Alessandria: “pasqua”, parola di origene ebraica pesach, significa “passaggio”, già secondo l’ebreo Filone e poi Clemente e Origene. Sennonché nella Bibbia (Es 12) pasqua è anzitutto il passaggio del Signore col suo angelo a risparmiare le case degli ebrei, che “passa” per “far passare” il popolo dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della Terra promessa. Se in primo luogo è il Signore che passa, ai cristiani di Alessandria interessava specialmente il passaggio dal vizio alla virtù da parte dell’anima nella quale secondo loro risiedeva l’immagine di Dio da restaurare nel bene.

Da parte nostra possiamo approfittare della riflessione degli uni come degli altri. Anzi, dobbiamo avvalercene per non buttar via nulla di quanto ci fa grati alla pasqua di Cristo Signore, “nostra pasqua” (1Cor 5,7).

Così diceva Gregorio di Nazianzo, anno 364 in Cappadocia, in una omelia pasquale:

«Ieri veniva immolato l’agnello e [il sangue] fu spalmato sugli architravi (…), e fummo difesi da quel sangue prezioso; oggi nella purità siamo fuggiti dall’Egitto e dal faraone, despota amaro, e dai supervisori opprimenti, e siamo stati liberati dal forzato lavoro del fango per far mattoni: nessuno ci impedisce di celebrare la festa del nostro esodo in onore del Signore Iddio e celebrarla non nel vecchio lievito di vizio e cattiveria, ma nei pani azzimi di sincerità e verità (cf. 1Cor 5,8), senza portarci dietro la pasta dell’Egitto, estranea a Dio.

Ieri venivo crocifisso con Cristo, oggi sono partecipe della sua gloria.

Ieri venivo pestato, oggi sono vivificato con lui.

Ieri fui sepolto con lui, oggi risorgo con lui» (Omelia I: sulla pasqua 3-4).

Gregorio presuppone l’esodo, la liberazione dell’Egitto e la pasqua antica, prefigurazione di quella di Cristo, liberazione totale, universale e definitiva, attesa nei suoi ultimi effetti come nostra risurrezione, quella della nostra carne. Sono parole di liberazione e di gioia filiale.

A questo proposito tornano alla mente le parole del papa Leone I: «Renditi conto, cristiano, della tua dignità» (agnosce, christiane, dignitatem tuam), da una sua predica del Natale del 440 (Sermone 1 [21],3,2: BP 31,86).

Un simile andamento è anche per la pasqua in un’altra sua omelia, quella della veglia del sabato santo, il 3 aprile 443.

«Si renda conto il popolo di Dio (agnoscat … populus Dei) di essere una nuova creazione in Cristo (cf. 2Cor 5,7) e stia in allerta per comprendere Chi gli ha donato la nuova creazione e chi l’ha ricevuta. Le novità avvenute non tornino ad un vecchiume traballante, e chi ha messo mano all’aratro non trascuri il suo lavoro ma sia tutto intento al seme che getta e non si volga indietro a guardare ciò che ha lasciato dietro di sé (cf. Lc 9,26). Nessuno ricada in ciò da cui si è rialzato: anche se si trova prostrato in mezzo alla instabilità dei condizionamenti del corpo, brami con decisione di guarire e rialzarsi. È questa la via che porta alla salvezza e rende presente la risurrezione avviata in Cristo: se è vero che sul terreno scivoloso di questa vita non mancano cadute e sbandamenti in varie direzioni, lo scopo è che i passi di chi è in cammino evitino di calcare terreni scivolosi per poggiare invece su spazi solidi (Sal 36,23-24)» (Sermone 58 [71],6,1-5: BP 38,358-360).