Santi per distrazione nell’amor di Dio

tutti_santidi Carlo Nardi • Ho avuto fra le mani un pensierino che avevo comunicato ai parrocchiani diverso tempo fa. L’avevo chiamato Santi per distrazione. Mi è parso degno d’essere circostanziato anche con un po’ di teologia.
Difatti avevo sentii dire, non ricordo da chi, una frase un po’ provocatoria, ma molto bella e per vari aspetti molto vera: “Si diventa santi per distrazione”. Il detto mi ricorda il Vangelo secondo Luca nella domenica ventottesima del tempo ordinario: «Siamo dei servi buoni a nulla: s’è fatto quel che s’avea da fare», per dirla in un italiano letterario o nel toscano nostrale (Lc 17,10. cf. 7-10). Come dire: “S’era in ballo e s’è ballato”, nel senso che si doveva o si poteva fare un po’ di bene e si è fatto, il che ricorda un’altra immagine evangelica, quella dei bambini che fanno il chiasso, ma che ora stanno al gioco ora invece non ci stanno e perciò fanno stizzire i loro compagni (Mt 11,17; Lc 7,32).

Stare al gioco di Dio che a suo modo si fa sentire nelle nostre circostanze è effetto di una vissuta «povertà in spirito» (Mt 5,3). Ancora, la semplicità di chi l’ha nel cuore mette a proprio agio il prossimo, ben diversa da una contabilità nei confronti degli altri, come da un computo di meriti da esigere al Padre Eterno.

Però il sentire cristiano che parla di grazia e di gratitudine ci diventa facilmente estraneo. Ci richiama a questo proposito san Paolo specialmente nella Lettera ai Romani. Ora, se nella lettera diversi punti ci sconcertano e ci irritano, è segno che in noi c’è almeno un po’ di vitalità cristiana, che è il coraggio di lasciarci inquietare da Cristo, morto perché, «quando eravamo ancora peccatori», Lui è morto per noi (Rm 5,6). San Paolo ci fa capire la differenza tra un’umiltà vera e un ‘umilismo’ di maniera: umiltà è la schiettezza dello stare alla pari, cosa che nella maggior parte dei casi è più umile del mettersi al di sotto di qualcuno con quella punta di orgoglio di essere riusciti a farlo, ma senza quella ‘distrazione’ evangelica, la sola «che accetto il don ti fa», per dirla col Manzoni nella Pentecoste; nonché nell’ultimo capitolo dei Promessi Sposi, a proposito dell’erede di don Rodrigo che i festeggiati «aiutò anzi a servirli», per poi ritirarsi in separata sede. D’umiltà «n’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto, ma non per istar loro in pari», commenta don Lisander.

La Lettera ai Romani, come quella Ai Galati, ci aiuta nelle vie della limpidezza evangelica. Un sunto delle parole di Paolo è nel Vangelo secondo Luca, peraltro suo discepolo o del suo ambito (Filem 24; Col 4,14; 2 Tim 4,11): penso alla parabola del fariseo e del pubblicano, quest’ultimo non certo uno stinco di santo, eppure il solo a tornare dal tempio giustificato, ossia “fatto giusto” da Dio (Lc 18,9-14).

Se poi uno vuole farsi accompagnare da Paolo, non ha che da chiamare in aiuto sant’Agostino, che ha preso sul serio – talora anche troppo – la Lettera ai Romani. Tantissime volte Agostino, con Paolo, ci parla dell’«amore di Dio riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5,5). Chi pensa spesso e volentieri a quel dono e se ne bea, sposta l’attenzione dal proprio io ingombrante per volersi fidare dell’amore di Dio.