Forza ma anche tenerezza. Ricordando il vescovo Romero

Oscar-Arnulfo-Romerodi Alessandro Clemenzia “Dio stesso, in Gesù, si è curvato (cf. Fil 2,8) e si curva su di noi e sulle nostre povertà per aiutarci e per donarci quei beni che da soli non potremmo mai avere”. Con queste parole, tratte dalla Prefazione al testo del card. Müller (Povera per i poveri. La missione della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2014), Papa Francesco pone nella consapevolezza umana del proprio limite e della propria precarietà il punto nodale per argomentare quale relazione debba intessersi fra Chiesa e povertà.

Non è un caso che, proprio nel contesto odierno, “tracciato” dai numerosi richiami del Papa ad abitare la povertà come luogo teologico in cui la Chiesa può riscoprire la propria identità, venga ripresentata, attraverso testi e filmati, l’esemplarità del vescovo Romero, il quale verrà beatificato a San Salvador il prossimo 23 maggio.

Forza ma anche tenerezza” sono le parole pronunciate dal vescovo martirizzato in una delle sue ultime omelie, e fanno riferimento a quel particolarissimo atteggiamento di Cristo nei confronti dell’adultera: una forza, quella di Gesù, che si è rivelata pienamente nell’accoglienza dell’altro (nel perdono), in quel movimento relazionale espresso dal Papa attraverso l’immagine del “curvarsi”. È nel piegarsi di Dio verso il peccatore che l’uomo fa esperienza di essere raggiunto, toccato, raccolto e abbracciato da Gesù proprio attraverso il proprio lato peggiore.

Forza ma anche tenerezza” non è un semplice riferimento biblico di un’omelia, ma è la parola “assunta” da Romero come modalità d’esercizio del suo essere vescovo, pastore del popolo affidatogli. È l’espressione concreta di chi, in un contesto determinato da una nefandezza politica, economica e sociale, prende posizione con la sua stessa persona per affermare e “liberare” la dignità umana, senza mai distogliere lo sguardo da quel curvarsi di Cristo verso la propria indigenza.

Forza ma anche tenerezza”: è una frase che non si lascia imbrigliare da chissà quale intento di buonismo e moralismo, ma si fa attraversare e plasmare dalla profondità teologica ed esistenziale dell’Incarnazione, da quel farsi uomo fragile del Verbo di Dio. Dalla consapevolezza di quell’Evento, in cui la storia dell’uomo e la storia di Dio trovano il loro punto culmine di contatto e la piena manifestazione, la Chiesa non può più esimersi dall’esigere un’etica che esprima l’opzione preferenziale di Dio per i poveri e i bisognosi. Dall’istante in cui il Verbo di Dio “carne si è fatto” (Gv 1,14), la storia è il luogo in cui Dio continua a dirsi e a darsi, sia a chi lo cerca consapevolmente, sia a chi si lascia sopraffare dall’indifferenza e attrarre da altro. Nella sua seconda lettera pastorale “La Iglesia, Cuerpo de Cristo en la historia”, Romero spiega chiaramente che, come “Gesù ha realizzato la sua missione e il suo servizio agli uomini in un mondo e in una società concreta” (“Jesús realizó su misión y su servicio a los hombres, en un mundo y en una sociedad concreta”), così la Chiesa “è una comunità di fede il cui primo obbligo, la cui prima ragione d’essere sta nel proseguire la vita e l’attività di Gesù” (“Es una comunidad de fe cuya primera obligación, cuya razón de ser está en proseguir la vida y la actividad de Jesús”). È un chiaro invito a prendere sempre più piena consapevolezza che la Chiesa è chiamata a vivere la concretezza della realtà in cui è inserita come luogo in cui, raggiunta da Cristo, continua la Sua opera in parole e azioni.

Forza ma anche tenerezza” è un’affermazione che, trovando nel curvarsi di Cristo verso l’adultera e nel farsi carne del Verbo il suo significato e ritmo originali, ha una valenza fortemente ecclesiale: non si riduce all’esperienza del singolo. “È tutto il popolo che Dio vuole salvare”, affermava il vescovo salvadoregno sempre in una delle sue ultime omelie: egli esortava in questo modo il popolo a passare da una visione individuale di fede e di salvezza ad una comunitaria. Ricordarsi di essere “popolo di Dio” significa tenere conto che l’identità della Chiesa è quella di un Noi (plurale), pellegrinante, fatto Io (singolare) da Cristo, senza che l’alterità e la distinzione si contrappongano all’unità e vengano per questo censurate. Per essere tale, il “popolo di Dio nella storia non si fissa in nessun sistema sociale, in nessuna organizzazione politica, in nessun partito” (così insegnava Romero in quell’omelia, dispiegando la natura della Chiesa attraverso l’immagine della personalità corporativa). La libertà dalla faziosità contingente è ciò che rende la Chiesa “l’eterna pellegrina della storia” e, ancora più forte, “serva del Regno di Dio”.

Forza ma anche tenerezza” è anche una proposta di come costruire le relazioni interpersonali a cui il cristiano può aderire nel momento in cui ha fatto esperienza concreta del chinarsi di Dio, in Cristo, sulla pochezza della propria umanità; da quel momento lo sguardo del peccatore cambia direzione: dall’essere ripiegato su se stesso esso si fa sguardo accogliente e abbracciante di quell’umanità ferita che si fa presente nel volto di coloro da cui si è circondati.