Il “qui pro quo” fatale dei figli di Zebedeo

Vocazione_dei_figli_01adi Leonardo Salutati Il Vangelo di Marco, al capitolo 10, racconta del clamoroso frainteso di Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. I due appartenevano ad una ricca famiglia che possedeva un’impresa per la pesca sul lago di Tiberiade. Alla chiamata di Gesù, Giacomo e Giovanni, che stavano riassettando le reti, lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui (Mc 1,20).

La madre dei due doveva essere una donna molto intraprendente, perché è lei che, in seguito, condurrà i due figli da Gesù per chiedere due posti da ministro quando diventerà re (Mt 20,20). Infatti coloro che ruotavano attorno a Gesù in quel momento, amici, discepoli e probabilmente anche gli apostoli, volevano farlo re (Gv 6,15). Si sa d’altronde che la ricca famiglia ebrea di Galilea era di casa a Gerusalemme, il centro dell’alta finanza e dei poteri politico e religioso del tempo.

Da questi elementi si può intuire che la vita dei due fratelli era incentrata sull’economia e sulla politica, a differenza di Gesù che viveva della fiducia nel Padre e della fraternità con gli altri. La sua esistenza è radicalmente diversa da quella dei due fratelli, agli antipodi di una mentalità politica e finanziaria che preferisce affidarsi alla tecnica e sceglie come proprio idolo la ricchezza. Con ragione, pertanto, Gesù dice: «Voi non sapete quello che chiedete» (Mc 10,38): sono fuori tema, ragionano con un’altra mentalità.

Gli altri dieci si indignarono e a loro volta si dimostrarono incapaci di comprendere. Gesù allora, con pazienza, spiega nuovamente agli apostoli che né l’avere, né la sapienza del mondo, né il potere dei grandi costituiscono i pilastri del Regno di Dio, bensì la disponibilità verso tutti, la carità e il dono di sé agli altri. I discepoli, dunque, sono invitati a convertirsi e a cambiare il loro modo di pensare. Nel parlare loro Gesù utilizza un linguaggio simbolico, preso dalla Bibbia: un calice da bere, che realmente Gesù berrà, e un battesimo (una immersione) che Gesù farà con la crocifissione.

Giacomo e Giovanni e gli altri dieci sono però incapaci di cogliere il senso teologico e trascendente delle parole di Gesù. Proprio come dei fanciulli che, come ci insegna la pedagogia, per il tempo dell’infanzia afferrano solo il senso letterale di quanto viene loro detto. Gli apostoli pensano e vivono senza verticalità, in una dimensione terrena dove l’amore non è primario, incentrati su una legge (nomos) dell’economia (oikia-nomos = legge della famiglia) radicalmente diversa dalla legge della nuova famiglia (oikia) cristiana. Proprio come avviene nel sempre più invasivo mondo tecnologico e scientifico di oggi che non è in grado di cogliere la trascendenza della realtà umana (cf. il 3° capitolo della Laudato si’) semplicemente perché pensa l’uomo in modo matematico e meccanico. L’uomo così oggettivato non ha possibilità di maturare il senso della trascendenza, perché è spinto a privilegiare gli spazi di potere immediato al posto dei processi temporali originati dalla carità che, nel necessario tempo dell’attesa tra la semina e il frutto educano alla trascendenza e alla fiducia in Dio (cf. EG 223). Per l’umanesimo ateo di oggi solo i saperi dello spazio scientifico contano per vivere bene (come il cosmo presso i greci). Però né questi, né il denaro sono veramente vitali per l’essere umano creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27). Papa Francesco ci ricorda che il tempo è superiore allo spazio (EG 222).

La Chiesa infatti sa che la vita economica e politica richiede una visione realistica ed equilibrata della realtà, che le ideologie e le utopie di tutti i tempi ignorano (cf. GS 37), che tuttavia deve trascendere l’ordine sociale per incentrarsi nella verità su Cristo, sull’uomo, e sulla comunità umana (cf. SRS 41; 1Cor 15,44-50). La riflessione nell’ambito della Dottrina sociale della Chiesa nasce proprio come mediazione delle esigenze evangeliche, come concretizzazione storica, anche se parziale, dell’ideale escatologico del Regno di Dio che esorta i cristiani ad offrire i propri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, perché questo è l’autentico culto spirituale (Rm 12,1).

Al riguardo l’espressione culto spirituale (Loghikê latreia) andrebbe resa piuttosto con culto logico cioè un culto secondo ilLogos, la Parola di Dio. Tra l’altro in ebraico dabar (parola), condensa ciò che in greco si esprime con logos (parola) e conrema (l’evento, il fatto). Per cui la parola è anche evento e di conseguenza la Bibbia, in quanto Parola di Dio, è storia di Dio nella storia degli uomini, sono fatti e non discorsetti di Dio! Allora il nostro culto secondo la Parola, per la Bibbia è l’offerta della nostra esistenza, diversamente offriremo sempre cosette perché: Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,43-45).