Parlare di Gesù. Speriamo a modo
di Carlo Nardi • Si viene alla chiesa per sentir parlare di Gesù. Qualche volta per parlare di lui e, forse più spesso, per parlare a lui. In un modo o in un altro, in qualche misura almeno per sbrigare la faccenda al più presto possibile.E c’è anche da capire. M’è capitato sott’occhio qualche verso di Guido Gozzano (1883-1916), freschi, sebbene abbiano circa cent’anni:
Guarda gli amici. Ognuno già ripose
la varia fede nelle varie scuole.
Tu non credi e sogghigni. Or quali cose
darai per meta all’anima che duole?
La Patria? Dio? L’Umanità? Parole
che i retori t’han fatto nauseose!
(Pioggia d’agosto, vv. 20 – 24).
Comunque, siano i bambini del catechismo, siano i prossimi sposi, siano … chi viene a confessarsi, più o meno si chiede alla Chiesa Gesù. Del resto, la Chiesa non deve dare altro che Gesù, tutto quanto, in tutti i suoi aspetti, ma solo lui, perché in lui c’è tutto. Il che, tra l’altro, fa capire se lo si cerca davvero.
Eppure, mica facile parlare di Gesù in modo non “nauseoso”! Intanto: di Gesù, di Gesù Cristo, del Cristo? Ma non è lo stesso? mi si dirà. Certo che è lo stesso, ma c’è modo e modo, e forse è da scegliere tra questi modi, a seconda delle circostanze. E la scelta non è cosa da poco. Mi spiego, cominciando dall’ultimo modo: “il Cristo” s’è preso giustamente a dire da una sessantina d’anni a questa parte con il più diffuso ricorso all’originale greco dove c’è l’articolo, per designare l’Unto di Dio, che è il Messia a lungo atteso e finalmente venuto e presente, sicché non ce n’è da attendere altri (cf. Mt 11,3). Ma “il Cristo” dà l’idea di una frequentazione teologica, benemerita quanto si vuole, ma non so se è più personale di “Cristo”, come si diceva, in base al latino senza articolo.
Allora “Gesù Cristo”? Nella parlata comune mi suona come una formula piuttosto fredda. Sembra un nome e un cognome dell’elenco telefonico o una voce di un’enciclopedia di storia delle religioni, preziosa davvero, ma dove è raro che venga al lettore la voglia di pregare. Del resto, un prontuario non è fatto per le nostre devozioni, almeno direttamente.
Forse meglio “Gesù”. Certo, può avere slittamenti intimistici, il “mio” Gesù, magari diverso da quello degli altri, o può comportare sdilinquimenti come in certe oleografie del Sacro Cuore, «buone cose di pessimo gusto», per citare ancora il Gozzano (L’amica di nonna speranza, v. 12). Eppure è un modo di parlare più personale, come si ragiona di qualcuno che ci preme, che ci sta a cuore: è un Cristo, un Gesù Cristo – diciamo pure come si vuole – che appartiene alla mia vita ora nel suo decorso lineare sereno un po’ monotono ora nei suoi stacchi critici come sfide: negli afflosciamenti e nelle esuberanze, tra smanie dissimulate e giubili sorvegliati c’è posto per lui. Perché è Gesù. Sì, non vuol farsi catturare e diventare l’esclusiva di nessuno. Ma posso dire anche: è “il mio Gesù”. Purché lo cerchi vero, non quello che mi va, che mi sollucchera nel piluccare qualcosa di lui dal multiforme supermercato del sacro. È questione di onestà, di solito quella di una vita cristiana nell’ordinaria amministrazione.
Ora, dire chi è Gesù è anche semplice. Insieme agli approcci storici e teologici che si possono avere, c’è tutto nel Credo, e specialmente in quello breve che si domanda e si dice al battesimo. Anche i primi concili, concettosi, non sono meno concreti: dire che Gesù è «della stessa sostanza del Padre nella sua divinità e della stessa sostanza della madre nella sua umanità» (Definizione del Concilio di Calcedonia, anno 451), non è poco, se ci si pensa – lui stessa “pasta” di Dio, stessa “pasta” mia –, e se si traggono le conclusioni. Un po’ le ha già tratte la Chiesa, molte altre toccano a ciascuno di noi con la sua esperienza umana di mente e di cuore, in cui c’entra poco o tanto Gesù.
Da parte nostra non si tratta solo di cervello o di sentimento e da parte sua non solo di fatti di tant’anni fa. Di che si tratta allora? Intanto, di cercarlo vivo, perché è risorto, davvero risorto nella sua vera carne, il che vuol dire cercarlo in ciò che ha detto e fatto, perché, se è risorto ed è vivo, continua a dire e a fare. Nella sua risurrezione ci sono tutte le sue parole, i suoi segni, la sua fraternità. C’è tutta la sua la sua vita che diventa la mia vita.