La polifonia della teologia medievale

zzzzptrblrddi Francesco Vermigli • Un buon conoscitore del pensiero medievale si sarà imbattuto almeno una volta in alcune categorie che la storiografia ha elaborato, allo scopo di render conto delle varie linee teologiche di quel periodo. Ad esempio, si è soliti parlare di “teologia monastica” – che, iniziata prima della Scolastica, l’avrebbe poi affiancata, in alternativa ad essa – o di “teologia delle scuole”, che invece avrebbe rivestito il ruolo di una sorta di preparazione della grande riflessione scolastica. La prima formula ha avuto una storia fortunata, essendo stata divulgata da un grande esperto del monachesimo occidentale, il benedettino dom Jean Leclercq. La seconda è usata per descrivere la teologia delle scuole cattedrali, che si formarono nel corso dell’XI e del XII sec.

Ma cosa verrebbe a distinguere la teologia dei chiostri da quella delle cattedrali, nel periodo precedente alla Scolastica? Le due tipologie teologiche, avrebbero conosciuto diverse fonti, diversi metodi e diversi scopi del sapere teologico. Diverse fonti, perché – mentre la teologia delle scuole verrebbe a poggiarsi anche sulle auctoritates filosofiche (per il XII secolo in modo particolare quelle platoniche) – quella monastica non farebbe che abbeverarsi ai dati della rivelazione cristiana. Diversi metodi, perché da un lato la teologia delle scuole erediterebbe dalla dialettica tecniche di argomentazione del tutto speciali, dall’altro quella monastica riterrebbe che non si dia un sapere teologico, se non in costante osmosi con la preghiera. Diversi scopi, infine, perché, mentre della teologia delle cattedrali è la preoccupazione per il progresso della conoscenza, di quella dei chiostri sarebbe la tensione per la crescita nella vita spirituale. Come accade sempre, queste classificazioni così sicure vengono – se non smentite – almeno messe ampiamente in discussione dalla realtà.

I casi della vita mi hanno condotto ad occuparci di due autori vissuti entro la metà del XII sec., che paiono essere i rappresentanti emblematici delle due linee teologiche prese in considerazione: da un lato Pietro Abelardo (morto nel 1142) il magister per eccellenza delle scuole cattedrali di quel secolo; dall’altro Guglielmo abate benedettino di Saint-Thierry, poi monaco cisterciense a Signy (morto nel 1147 o 1148), che raccoglie nella propria biografia tutte le dinamiche del monachesimo occidentale in cerca di riforma. A ben vedere, però, questa appartenenza a due mondi che nella vulgata sembrano incomunicabili, non pare davvero così ben definita. Abelardo fu, sì, all’epoca il maestro di scuola di maggior successo, ma le sue vicende biografiche lo portarono al ritiro monastico, fino alla convinta promozione della vita religiosa femminile. Guglielmo è, certo, il rappresentante più significativo delle grandi tensioni che scossero il monachesimo nel XII sec., ma lui stesso in giovinezza frequentò una delle più rilevanti scuole cattedrali dell’epoca, quella di Reims.

Ma non solo perché le loro rispettive biografie ci attestano una realtà assai sfaccetata, pare opportuno prendere queste classificazioni storiografiche con beneficio d’inventario. C’è anche una ragione più profonda – quella che riguarda i loro pensieri teologici – a condurci a smentire, se non addirittura a ribaltare la prospettiva con cui dobbiamo guardare ai nostri due autori. È vero che Abelardo ha conoscenza dialettiche assai radicate – forse superiori a tutti gli altri dialettici della sua epoca – ma quando si tratta di fare theologia (lui che ha divulgato per la prima volta nel pensiero occidentale questo termine) dichiara che c’è bisogno di un modo diverso di pensare e di parlare; perché ora l’oggetto della riflessione non sono più le cose di questo mondo, ma ciò che travalica questo mondo, essendo all’origine di esso. Ed è vero che Guglielmo fa teologia a partire dalla sua vita spirituale, ma l’impianto del pensiero lo conduce paradossalmente a relativizzare la concretezza storica della salvezza cristiana; a scorno dell’abituale visione che vorrebbe astratta la teologia delle scuole e connotata da tratti storico-salvifici quella monastica.

Cosa dire, allora? Bisogna continuare a vedere l’utilità di queste grandi categorie, offerte dalla critica per muoversi in maniera il più possibile ordinata all’interno del mare magnum della teologia medievale: esse ci permettono di cogliere alcune linee comuni tra autori, filoni di pensiero e luoghi di diffusione del sapere. Alla prova della realtà, questa distinzione tende a sfrangiarsi e le caratteristiche di ciascuna linea teologica a sovrapporsi tra i vari autori; se non addirittura a invertirsi. Quello che possiamo affermare è che non c’è epoca storica in cui il pensiero cristiano si sia mostrato tanto “polifonico”, quanto quella medievale. È proprio delle parti che costituiscono una composizione polifonica muoversi in maniera autonoma nella melodia e nel ritmo; ma in un modo che garantisca, anzi persegua, l’armonia tra di esse. Così è anche del pensiro teologico medievale: fonti, metodi, scopi diversi, sì, ma tutti assieme tendenti alla migliore comprensione dell’unico mistero cristiano.