Nell’arco di poco più di un mese l’Italia festeggia due importanti ricorrenze nazionali: il 25 aprile, la festa della Liberazione, e il 2 giugno, quella della Repubblica italiana. Fin qui niente di nuovo per i lettori de “Il mantello della giustizia”. La riflessione che ho maturato da qualche tempo sull’argomento e che voglio condividere con quest’articolo riguarda piuttosto il significato che questi due appuntamenti hanno finito per avere oggi e quello che invece, a mio avviso, dovrebbero rappresentare. In linea con la tendenza culturale dei nostri tempi mi sembra infatti che né l’anniversario della Liberazione né quello della nascita della nostra repubblica siano immuni da una loro interpretazione superficiale e semplicista che non ne mette in risalto il senso profondo.
Inizio dal 25 aprile, istituito come festa nazionale da Alcide De Gasperi, allora Presidente del Consiglio, su proposta del quale il Re Umberto II (principe e luogotenente del Regno d’Italia) emanò il decreto legislativo luogotenenziale n. 185 del 22 aprile 1946. Ogni anno mi pare che, a prescindere dalle celebrazioni ufficiali, il modo in cui le persone commemorano questo anniversario non colga il vero spirito della Resistenza. Non basta infatti pubblicare sui social frasi di Calamandrei accompagnate da hashtag patriottici o partecipare a qualche concerto o “spaghettata antifascista”. Non basta fare a gara a chi è più antifascista per colmare un vuoto di sostanza che certi riti rischiano di creare.
I valori che animarono la Resistenza non erano di fatto solo “contro” qualcosa – il fascismo, l’occupazione nazista – ma soprattutto “per” qualcosa: la dignità umana, la giustizia sociale, la libertà come responsabilità condivisa. Ecco il cuore della questione: i partigiani furono tali perché scelsero di non delegare ad altri la responsabilità dell’azione. Dissero “tocca a me” quando sarebbe stato più facile voltarsi dall’altra parte. Questo “tocca a me” è l’antidoto alla vera malattia del nostro tempo: l’indifferenza. Non l’indifferenza politica – quella è solo un sintomo – ma quella più profonda che Gramsci definiva come “l’abulia della storia”, la rinuncia a essere protagonisti della propria epoca. Antonio Gramsci scriveva dal carcere: “Odio gli indifferenti. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”.
I resistenti combatterono il “me ne frego” fascista con quell’ “I care” tanto caro a don Milani – mi importa, mi riguarda, è anche responsabilità mia. Non erano eroi romantici, ma persone comuni che capirono una verità semplice: la libertà non è un bene di consumo, ma un esercizio quotidiano di responsabilità. Tante volte ho ricordato su questa rivista come la diminuzione delle persone che s’impegnano nel volontariato più o meno strutturato, il crescente astensionismo elettorale, la tendenza a “coltivare il proprio orticello” senza preoccuparsi dei problemi degli altri (colleghi, amici, conoscenti e vicini), evitare responsabilità nel mondo del lavoro o nella società siano sintomi di un individualismo che poco hanno a che fare con la Resistenza. Non si tratta di impegnarsi per l’umanità in generale o a favore dell’accoglienza, della giustizia come concetti astratti: questo non è così difficile. Si tratta piuttosto di adoperarsi per chi ci sta accanto e ha bisogno del nostro aiuto perché vittima d’ingiustizia o in una condizione di necessità.
Dovremmo chiederci quali siano le dittature di oggi che ci opprimono e a cui diamo il nostro consenso o, quanto meno, a cui siamo indifferenti. Tali sistemi spesso non hanno il simbolo del fascio littorio, ma sono altrettanto inquietanti. A tal proposito mi sembra sempre particolarmente attuale la riflessione di Pier Paolo Pasolini in uno dei suoi “Scritti corsari” intitolato “Consumismo e fascismo” (1973):«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana». Trovo l’analisi di Pasolini, di cui ho riportato solo un passaggio, molto pertinente anche nella società di oggi. Mi domando però quanti di quelli che festeggiano il 25 aprile combattono per la liberazione dai modelli imposti dal consumismo o dalle strutture economiche d’ingiustizia create dal capitalismo?
Lo stesso spirito d’autenticità dovrebbe animare la celebrazione del 2 giugno istituita come festa nazionale nel 1949. La ricorrenza viene spesso celebrata dalla gente citando articoli della Costituzione come fossero versetti sacri, dimenticando che dietro ogni comma c’era il sudore di un compromesso alto, faticoso, intelligente. I costituenti non erano d’accordo su tutto eppure riuscirono a costruire insieme una casa comune.
Aldo Moro, che di quell’assemblea fu protagonista, parlava di “democrazia come metodo di ricerca della verità”. Non la verità assoluta di chi ha sempre ragione, ma quella relativa e perfettibile di chi sa che il confronto è l’unico modo per crescere insieme. I costituenti lavorarono con quello che Isaiah Berlin chiamava “senso della realtà”: la capacità di tenere insieme ideali alti e possibilità concrete, senza rinunciare né agli uni né alle altre.
Oggi celebrare davvero il 25 aprile e il 2 giugno significa fare nostro questo metodo. Significa sporcarsi le mani con la complessità del presente, rifiutare la tentazione del “tanto è tutto inutile” e quella opposta del “la soluzione è semplice”. Significa accettare la fatica del compromesso alto, quello che non rinuncia ai principi ma sa che i principi senza mediazione rimangono sterili.
Come scriveva Don Lorenzo Milani: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. Ecco la lezione più attuale della Resistenza e dell’Assemblea Costituente: il coraggio di non sortirne da soli.
La vera commemorazione non sta nelle parole condivise, ma negli atti quotidiani. Nel dire “tocca a me” quando vediamo un’ingiustizia. Nel cercare il dialogo invece del muro contro muro. Nel costruire ponti invece che trincee. L’indifferenza si combatte con l’impegno concreto là dove si è: nel condominio, nella scuola, nel quartiere, nel posto di lavoro. Non basta denunciarla sui social o nelle piazze virtuali; serve metterci la faccia e le mani nelle piccole battaglie quotidiane, quelle che nessuno vedrà mai ma che cambiano davvero le cose. Nel ricordare che la libertà non è un diritto acquisito una volta per tutte, ma una conquista che ogni generazione deve rinnovare.
Mi verrebbe da dire che la vera celebrazione del 25 aprile o del 2 giugno inizia il giorno dopo, quando siamo chiamati cioè a mettere in pratica la lezione appresa, a tradurre in azioni i valori che queste ricorrenze rappresentano. “Le chiacchiere non fanno farina”, recita un vecchio proverbio. I partigiani non tennero convegni sulla libertà, la conquistarono. I costituenti non si limitarono a teorizzare la democrazia, la costruirono articolo per articolo. Dalle parole ai fatti: questo è l’imperativo morale che ci lasciano. Non serve aggiungere altre discussioni, serve sottrarre alibi e moltiplicare gesti concreti.