“Castità. La riconciliazione dei sensi”. Un libro di Erik Varden

324 500 Gianni Cioli
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Erik Varden, nato a Sarpsborg in Norvegia, classe 1974, è monaco cistercense e vescovo. Di famiglia luterana, convertitosi al cattolicismo nel 1993, è divenuto monaco Cistercense nel 2002. Ha insegnato teologia all’Università di Cambridge e anche al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo a Roma. Nominato vescovo di Trondheim nel 2019, dal 2023 è amministratore apostolico di Tromsø e, dal 2024, è presidente della Conferenza episcopale della Scandinavia. Autore di numerosi saggi, si distingue nelle sue riflessioni per un approccio epistemico originale e stimolante che, sul ceppo sapienziale della riflessione dei Padri del deserto e della patristica in generale, riesce ad innestare elementi inaspettati, tratti dalla letteratura, dalla musica, dalla pittura e dal cinema per meglio veicolare l’attualità e la bellezza del messaggio cristiano nel mondo contemporaneo.

Recentemente è stata pubblicata la traduzione italiana del suo saggio Castità. La riconciliazione dei sensi (San Paolo, Cinisello Balsamo 2024). La sfida che l’autore accoglie è quella di affermare il valore positivo e l’attualità di una virtù, data oggi ormai per morta, o considerata comunque, dai più, una pseudo virtù, inutile, anzi dannosa per l’uomo contemporaneo: una virtù disfunzionale, se è vero che la funzione della virtù dovrebbe essere quella di condurre l’essere umano alla felicità. Per Varden, invece, la castità autentica «è segno d’integrità», ovvero, «di una personalità le cui parti sono messe insieme in armoniosa completezza» (p. 15). Essa non nega il valore della sessualità e delle pulsioni che a questa afferiscono, ma intende armonizzarle commisurandole con tutte le dimensioni della persona e riconciliarle con il significato della vita umana: con la vocazione ultima dell’uomo, chiamato alla felicità piena. «L’essenza del diventare casti non è la messa a morte della nostra natura, ma il suo orientamento attuato attraverso la riconciliazione integrale, verso la pienezza della vita» (p. 30).

Come avverte l’autore, il libro non ha alcuna pretesa di completezza. Non è un trattato. È un saggio (p. 28). Più che fornire delle risposte su quali siano i comportamenti che si possano definire casti, intende piuttosto invitare il lettore alla riscoperta del significato della castità, aprendo a percorsi di ricerca volti a trascendere i lughi comuni.

La proposta si articola in cinque capitoli. Nel primo, che funge da introduzione e intitolato “La domanda di Norma” (il riferimento è alla protagonista dell’opera di Bellini, la quale chiede: «Il tuo Dio guarisce i malati d’amore?»), l’autore, a mo’ di chiarificazione semantica, premette che «la castità non coincide con il celibato. Il celibato è una vocazione particolare […]. La castità è una virtù per tutti» (p. 8). Tutti, infatti, non solo i vergini per vocazione, possono aspirare all’integrità e al raggiungimento «di una personalità le cui parti sono messe insieme in armoniosa completezza» (p. 15). Essa «non è negazione del sesso. È un orientamento della sessualità, di tutto l’istinto vitale verso una finalità desiderata. È una funzione di compiutezza cercata e di guarigione trovata» (p. 17). Può essere raggiunta attraverso l’educazione, orientata alla graduale sintonia di corpo, di mente e di anima, della pulsione sessuale, la quale è, al contempo, passione fisica, capacità di tenerezza e volontà di vivere appieno. Questa semantica della castità presuppone un’antropologia: una visione, ideale e al tempo stesso realizzabile, di fioritura umana.                                                                                                                                                  Nel secondo capitolo, “Che cos’è un essere umano”, l’autore propone, quindi, una visione della natura umana tratta dalla Scrittura e dalla tradizione cristiana. Sulla base dell’interpretazione di Gen 1-3, in particolare di quella elaborata da alcuni Padri della Chiesa attraverso una teologia narrativa densa di immagini simboliche, possiamo riconoscere nella natura umana una originaria vocazione all’armonia (comunque si voglia intendere la condizione prelapasaria). Tale vocazione, frustrata dalle conseguenze della “caduta”, risulta nuovamente accessibile, seppur faticosamente, nell’attuale economia di misericordia e nell’orizzonte della speranza escatologica. In definitiva, questa vocazione è, per Varden, la nostra esperienza profonda che «deve essere riportata alla sua “vera fonte” e bene orientata se desideriamo davvero fiorire» (pp. 59-60).

In quest’ottica, nel terzo capitolo, intitolato “Tensioni”, l’autore considera una serie di polarità con cui la ricerca della integrità affettiva e sessuale, ossia della castità, deve costantemente rapportarsi: corpo e anima; maschio e femmina; ordine e disordine; eros e morte; matrimonio e verginità; libertà e ascesi. Nella disamina di queste tensioni, Varden puntualizza opportunamente che «la castità è associata in egual misura allo stato coniugale e verginale: non vi è distinzione di grado, entrambi sono beati. Entrambi richiedono un certo grado di battaglia, come ogni affinità elettiva. Legarsi a un amore privilegiato è mettere ordine in altri amori, lasciando che i moti del cuore e della carne siano temperati da una volontà illuminata dalla grazia e dalla ragione» (p. 128).

Nel quarto capitolo, “Governare la passione”, Varden prende in esame, ritenendola attuale anche per coloro che vivono nella «post-postmodernità» (p. 28), la riflessione sapienziale ed esperienziale della tradizione monastica, a partire da quella dei Padri del deserto. L’approccio monastico alla gestione delle passioni, secondo l’autore, è caratterizzato da un ponderato realismo pratico: non mira a bloccare la passione, ma, piuttosto, ad «incanalarla, così da generare l’energia necessaria» al «cammino verso Dio», bonificando pazientemente le zone paludose della vita, «divenute infruttuose a causa di un eccesso di passione» (p. 157).

Peraltro, «le “passioni” di cui parlavano i Padri non erano solo sessuali, ma si riferivano anche all’ira, all’invidia e così via» (p. 166). Le pulsioni considerate dalla tradizione monastica «possono sembrare primitive, ma in realtà sono molto sottili. Inoltre, sono interconnesse. Per questo i Padri possono, per esempio, raccomandare un periodo di digiuno per combattere l’irritabilità; o esercizi di umiltà per superare la tentazione erotica». In altri termini, i Padri, «invece di considerare le passioni isolatamente, svilupparono una strategia globale per sostenere l’ascesi» (p. 167). Si tratta di una strategia radicata in un impegno relativo al “vedere”, quale metafora della disposizione alla sincerità con se stessi, per un’onestà intellettuale, per così dire, disarmata. In definitiva, la capacità di visione spirituale, di cui ci danno testimonianza i monaci antichi e che dovremmo recuperare, è la disposizione a considerare le conseguenze delle nostre scelte alla luce di ciò che vorremmo essere veramente; non permettendo che siano gli impulsi a decidere per noi.

«Il Monaco si sforza innanzitutto di vedere il suo desiderio per quello che è, per vedere se stesso nella verità. In secondo luogo, si propone di vedere il suo prossimo, uomini e donne con chiarezza cristiana. In terzo luogo, spera di vedere Dio nei termini stabiliti dal discepolo amato, non sulla base di proiezioni umane, ma “così come egli è” (1Gv 3,2)» (p. 168).

Il tema del “vedere” attraversa un po’ tutto il libro, come filo conduttore. «Abitare castamente il mondo significa vederlo nella verità», significa «cioè divenire contemplativi» (p. 28), in forza di quella «riconciliazione dei sensi», evocata nel sottotitolo del libro.

Il quinto capitolo, che funge da conclusione, è dedicato da Varden, appunto, alla “Vita contemplativa”, quale impegno a prestare «attenzione a ciò che ci accade intorno, pronti ad abbandonare le nostre idee preconcette» (p. 188). In questo quadro l’esercizio della castità è emancipazione dalla propensione ad essere autocentrati. «La castità ci permette di vivere così, con attenzione e riverenza» (p. 192); riconciliati a tutti i livelli.

«“Lasciatevi riconciliare con Dio”, scrive Paolo ai Corinzi (2Cor 5,20). La sollecitudine riguarda il nostro passaggio dall’inimicizia all’amicizia con Dio. Può anche essere letta esistenzialmente, come per dire, “Siate per Dio persone riconciliate”. Qui sta una chiamata all’integrità e all’accettazione di sé, a convivere con i nostri desideri, limiti e perdite. Dobbiamo accettare il fatto di essere persone orientate agli altri e bisognose degli altri, non individui autosufficienti» (p. 197).

Come si detto, Varden – e questo potrà forse deludere qualche lettore in cerca di soluzioni pratiche immediate – non offre indicazioni normative su quale comportamento possa essere definito, oggi, correttamente casto, e quale no. Per questo egli rimanda semplicemente all’insegnamento ereditato dalla tradizione e presentato in maniera attuale nel Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 (p. 29). Non suggerisce, tantomeno, concreti percorsi ascetici e spirituali che possano aiutare ad acquisire la virtù della castità. Egli, nel libro in oggetto, intende essenzialmente proporsi, in qualità di vescovo, come pontifex, costruttore di ponti, ovvero tentare un dialogo, con la cultura della società secolare, volto a chiarire annosi malintesi terminologici e ad illustrare e proporre una visione antropologica rasserenante.

Non una trattazione etica, ma, piuttosto una parenesi estetica, elaborata – come si è detto – attraverso l’interazione costante fra solidi rimandi alla tradizione cristiana e raffinati riferimenti alla narrativa, alla poesia, alle arti figurative, al teatro e alla settima arte, collegati con erudizione sorprendente e intelligenza penetrante. In questo Varden, si può dire, si dimostra in grado, con un carisma tutto suo, d’incarnare una vocazione che da sempre appartiene allo specifico della Chiesa: la capacità di saper tenere insieme cose antiche e cose nuove (cf. Mt 13,52).

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