La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Guadium et Spes, insegna: “Dall’indole sociale dell’uomo appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società siano tra loro interdipendenti. Infatti, principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana, come quella che di sua natura ha sommamente bisogno della vita sociale. Poiché la vita sociale non è qualcosa di esterno all’uomo, l’uomo cresce in tutte le sue doti e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, i mutui doveri, il colloquio con i fratelli” (GS, 25).
Appare in tal modo evidente come una impostazione cristianamente corretta importi necessariamente che ogni economia comunitaria, e quindi giuridica, inclusa quella ecclesiale, debba incentrarsi nella persona umana.
Il discorso sul termine persona è stato utilizzato nella teologia dei Padri della Chiesa come strumento di interpretazione delle Scritture. Nelle pagine del libro sacro, infatti, si evidenzia un Dio che talvolta parla con immediatezza dialogica, colloquiando con se stesso. Di conseguenza è stato naturale per i Padri il riferimento a una costruzione ermeneutica incentrata sul termine prosopon, tradotto in latino con la parola persona, originariamente indicante la maschera portata dall’attore.
La stessa patristica trovava anche già consolidata una tale costruzione con riferimento a testi letterari anche molto antichi i quali, per ravvivare la narrazione, si erano serviti della drammatizzazione degli eventi, utilizzando dei prosopa, che in funzione di attori giocavano un loro ruolo nell’animazione del racconto dei fatti. Tuttavia la patristica dà a quei prosopa scritturistici il senso, non dei commedianti intenti a interpretare una parte della narrazione, ma di reali entità tra loro in dialogo, intendendo così indicare con il termine di persona non un ruolo, ma un soggetto esistente.
In questa prospettiva è evidente come il nostro strumento semantico venga utilizzato, almeno in un primo tempo, come chiave non per una comprensione dell’uomo, ma per un tentativo, nei limiti dell’intelligenza umana, di approfondimento dei misteri della fede e, anzitutto di quello trinitario. Dalle Scritture emerge che in Dio ci sono tre Persone e in base all’interpretazione della teologia questo significa che le persone sono relazioni, puro esistere in riferimento a.
Il pensiero cristiano partendo dalla fede tenta poi anche una comprensione dell’uomo utilizzando in chiave ontologica il concetto di persona. Si intende infatti esprimere la relazionalità dell’uomo con gli altri e, anzitutto con Dio. Si considerino per esempio le parole del Vangelo di Giovanni. “Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete fare niente” (Gv. 15, 5).
Il ragionamento fin qui condotto, sia pure per sommi capi, indica con riferimento all’uomo la modalità del suo sussistere di natura razionale, in se stessa e al tempo stesso in relazione al Totalmente altro e agli altri. Questa triplice relazione assume particolare rilievo in relazione del diritto ecclesiale.
Il riferimento che si esprime con il termine persona concerne la relazione dell’io agente con l’Essere e con gli esseri, ovvero con Dio e il prossimo. Questo porta canonicamente a sperimentare se stessi, in quanto entità giuridica ecclesialmente in rapporto con Dio e con gli altri, sia singolarmente che collettivamente considerati.
Nel diritto della Chiesa si ha una pluralità di condizioni giuridiche soggettive tra loro diverse attraverso le quali si può sperimentare se stessi in proiezione giuridica nel Popolo di Dio. Ciascuna di tali condizioni, di per se rilevante nel diritto della Chiesa e insieme fondamento di un complesso più o meno ampio di situazioni giuridiche attive e passive, costituisce una posizione giuridicamente per lo più qualificabile quale status che conforma nella diversità delle possibili incorporazioni, la misura dell’effettiva possibilità di partecipare all’ordinamento giuridico della Chiesa.
La costituzione conciliare sulla Chiesa, Lumen Gentium, riconosce la radicale uguaglianza di tutti i membri del Popolo di Dio facendo entrare in crisi l’idea di inequalitas fra i membri della Chiesa e il concetto di status per affermare il principio della generale capacità del fedele all’interno del Popolo di Dio senza distinzioni. Le diversificazioni sia funzionali che vocazionali all’interno della Chiesa, sulla quale si fondava la vecchia e tradizionale ripartizione per status in “chierici” e “laici” debbono essere canonicamente prese in considerazione solo per ragioni atte a giustificare gli adattamenti dell’unico “stato comune di tutti i fedeli” che si rendono necessari per consentire nella comunione ecclesiale di vivere pluralisticamente l’unica autorealizzazione in Dio secondo modalità rispettose della propria individualità e quindi della propria diversità.
Un discorso sullo status del fedele non può che prendere le mosse dal comandamento dell’amore, dal momento che “l’amore di Dio e del prossimo è il primo e più grande comandamento” ed essendo una prescrizione che deriva immediatamente dalla Scrittura, non può non costituire il fondamento sul quale poggia tutta l’economia anche giuridica del Popolo di Dio che, infatti, ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati.
Il comandamento dell’amore ha anzitutto una valenza di doverosità sotto il profilo sia negativo che positivo.
Negativamente il dovere di amare comporta il divieto di ogni comportamento che allontani da Dio, e cioè impone la proibizione del peccato il quale, oltre a un valore personale, ne possiede anche uno comunitario, dal momento che la Chiesa è radicalmente il sacramento dell’unione dell’uomo con Dio. Positivamente la doverosità insita nel precetto dell’amore impone la ricerca di Dio da parte del fedele la cui vita deve essere ordinata a Dio stesso.
Il precetto dell’amore non si esaurisce tuttavia nella dimensione della doverosità. L’amore infatti ha, per potersi realizzare, l’assoluta necessità di essere libertà intesa anche come creatività, per effetto della quale ogni atto appare una modalità del continuo farsi “personale” del fedele in Dio.
Il precetto dell’amore, e quindi le posizioni giuridiche personali che lo incarnano, specie quelle fondamentali, non hanno dunque solo una dimensione di doverosità, ma hanno pure soprattutto una dimensione di libertà che giuridicamente si esprime in diritti non ignorabili dalla normativa ecclesiale umana.
Occorre osservare che una tale dimensione della libertà, non poco oscuratasi nei tempi passati nell’esperienza giuridica del Popolo di Dio, caratterizzando insuperabilmente il precetto dell’amore, fa sì che canonicamente ogni condizione giuridica che lo esprime, e in modo particolare quelle fondamentali, quali doveri si qualificano pure come diritti, e più specialmente quindi integralmente come diritti-doveri.
Costituendo allora il precetto dell’amore, per ogni fedele, non soltanto un dovere, ma anche un diritto come esigenza di libertà, è necessario che tutta l’economia ecclesiale, e in special modo la sua dimensione giuridica, si conformi in maniera da consentire una conveniente e adeguata attuazione, inverando il principio che la Chiesa è per i fedeli e non i fedeli per la Chiesa. In questa prospettiva si evidenzia tutta la centralità della posizione ecclesiale del fedele che in tal modo si pone come reale protagonista umano anche nell’esperienza giuridica del Popolo di Dio, incarnata nel precetto dell’amore che vuole che il fedele stesso ordini doverosamente, ma anche liberamente tutto se stesso a Dio.
A questo proposito il Concilio Vaticano II nella costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen Gentium”, insegna: “Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: da questa santità è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano. Per raggiungere questa perfezione, i fedeli usino le forze ricevute secondo la misura dei doni di Cristo, affinché seguendo il suo esempio e fattisi conformi alla sua immagine, in tutto obbedienti alla volontà del Padre, con tutto il loro animo si consacrino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo” (LG, 40). Si evidenzia così il senso che persona assume come relazionalità con l’Essere.
Il Codice di Diritto Canonico promulgato da Giovanni Paolo II nel 1983, facendo proprio tale insegnamento conciliare e superando anche la ristretta formulazione del can. 124 del codice del 1917 che si riferiva ai soli chierici, ha sancito nel can. 210 il diritto-dovere di ogni fedele di ordinarsi a Dio, o, in altri termini, il diritto-dovere alla propria salvezza eterna o alla santità. Una tale condizione giuridica soggettiva del fedele è non soltanto fondamentale ma anche, per sé, comprensiva di ogni altra che possa attribuirsi allo stesso fedele, dal momento che il precetto dell’amore comprende in sé ogni altro comandamento. Pertanto, negare la giuridicità al can. 210 comporterebbe negarla all’intero status del fedele. Anzi, si fa anche manifesto, attraverso una considerazione integrale del can. 210 il significato dimensionale di persona come centro del rapporto ecclesiale con l’Essere.
Dopo il riferimento dell’io agente con se stesso, sperimentato nella soggettività canonica, e dopo il riferimento dello stesso io con l’Essere e con gli esseri attuato nel “communis christifidelium status”, si evidenzia anche il terzo riferimento riguardante l’identità consolidata con il termine persona, intesa nel suo insieme, anche nel diritto ecclesiale, in relazione non a un ruolo, ma a un soggetto esistente.
Più specialmente questo terzo riferimento giuridicamente fondante il concetto di persona, costituito dall’io agente in relazione con l’ambiente che lo circonda, viene sperimentato nella costruzione canonica di quell’ambito personalmente vitale che è la Chiesa, architrave di un ordine universale riaffermato dal Concilio nella sua autenticità originata da Dio e ordinato finalisticamente a Dio.