
Una rappresentazione di una riunione del Concilio di Trento
Come è noto i provvedimenti del Concilio di Trento a proposito di monache furono presi nel 1563 nella sessione XXV, con il Decreto “De Regularibus et monialibus”, cap. V, diretti in particolare a ristabilire la clausura, il possesso dei beni immobili e il governo dei monasteri. I vescovi e gli altri superiori dovevano provvedere che le religiose abitanti fuori la città e i castelli si inducessero a passare nell’interno ed evitar in tal modo i malanni che ne venivano alla vita religiosa.
Le monacazioni forzate erano un fenomeno diffusissimo e rispondevano principalmente a tre ragioni: la povertà delle famiglie di origine, la dote ingente da destinare alle donne che si sposavano destabilizzando il patrimonio familiare; l’occultamento di scandali mediante la sparizione di donne ritenute responsabili di comportamenti immorali o lesivi del prestigio della famiglia.
Pertanto, il concilio di Trento per salvaguardare la liberta delle donne prende questa decisione: “Il santo Concilio, preoccupandosi della libertà della professione delle fanciulle che si dedicano a Dio, stabilisce e prescrive che se una fanciulla, che vuole indossare l’abito religioso, ha piú di dodici anni, non possa riceverlo – né essa od altra possa poi emettere la professione – prima che il vescovo o il suo vicario (qualora egli fosse assente o impedito), o qualche altro incaricato da essi a loro spese, si sia reso conto con diligenza della volontà della fanciulla: se, cioè, essa fosse costretta, o ingannata” (Decreto “De Regularibus et monialibus”, cap. XVII).
I Decreti del Concilio di Trento richiesero molti decenni prima di trovare la loro applicazione e la verifica nelle viste pastorali. Pertanto la piaga delle monacazioni forzate produsse effetti devastanti sul piano spirituale, ma molto di più su quello morale.
Sarebbe un procedere troppo semplicistico quello di presupporre che le condizioni spirituali della vita religiosa nei monasteri femminili si riproducessero uniformi in tutti i paesi di Italia.
Accanto all’esercizio di una pietà profonda e veramente mirabile, si può facilmente notare una dissipazione impressionante, e dove l’intervento dei pubblici poteri nelle faccende religiose, se molte volte giunge rispettoso e opportuno, molte altre volte ubbidisce a preoccupazioni di carattere pubblico e sociale, o a interessi di casta, o al proposito di non toccare piaghe ritenute pericolose a voler sanare.
Nonostante tutto quello che di torbido e di guasto dovremo constatare in molti monasteri femminili del XVI secolo, incontriamo in molti altri

Maria Maddalena de’ Pazzi
un ardente fervore di vita spirituale. Le anime che intendevano veramente consacrarsi a Dio trovavano sempre monasteri di austera osservanza nei quali il loro sincero desiderio di perfezione veniva soddisfatto e nei quali la “chiostra” era veramente “dolce” come sulla fine del duecento lo era stata per Picarda Donati, e poi S. Caterina di Bologna, S. Caterina de’ Ricci, S. Maria Maddalena de’ Pazzi. Ardore di riforma e di fondazioni nuove e ferventi fermenta attraverso tutto il secolo e contrasta con la degenerazione o rilassatezza della vita claustrale di troppi antichi monasteri, dove pareva diventato ormai un diritto acquisito quello di persistere nella propria decadenza spirituale. Non poteva del resto essere altrimenti qualora si pensi alle gravi e troppo conosciute magagne del clero regolare e secolare che dei monasteri doveva tenere la cura spirituale. Non va inoltre dimenticato che accanto ai monasteri canonicamente fondati pullulavano in tutte le città italiane altri istituti diretti particolarmente dai religiosi che era un qualcosa di mezzo fra le semplici confraternite, tanto numerose durante il XVI secolo, e quelle che diverranno man mano conservatòri regolati un po’ sul modello dei veri monasteri soggetti a una mitigata clausura, non obbligati alla recita dell’ufficio divino, con compiti di educazione e di beneficenza. Si trattava delle Mantellate che pur portando una loro specie di abito religioso, vivevano nelle loro famiglie, delle bizocche, delle terziarie di diversi ordini religiosi, delle oblate ecc. Anche presso di loro, accanto ad anime ferventi e generose, facilmente venivano a trovarsi delle avventuriere della peggiore specie e senza scrupoli, maestre di sortilegi e di ogni vizio.
Nella Chiesa di Milano nel 1566 il biografo contemporaneo di S. Carlo Borromeo, scriveva: “Così era caduta a terra la disciplina e osservanza regolare delle monache, vivendosi nei loro monasteri con libertà grandissima, entrandovi i secolari (per non esservi allora il precetto della clausura) e uscendone le monache a lor piacere. Le feste pubbliche, i balli profani e altre dissoluzioni, che si facevano in detti monasteri, con gli scandali gravi e lagrimabili che ne seguivano, voglio piuttosto passarli con silenzio che dar noia al pio lettore con la loro narrativa”.
Nella prima metà del XVI secolo vi erano in tutte le città italiane dei monasteri con un ristrettissimo numero di monache. Alcuni di essi erano situati nei suburbi o addirittura in campagna. È facile immaginare quale potesse essere in essi la sorveglianza e l’assistenza spirituale. Mancava una sufficiente preparazione catechetica e spirituale. In certi monasteri mancava la Messa festiva e la Comunione era limitata alla Pasqua o a qualcuna delle maggiori festività.
Molti monasteri erano troppo poveri perché non si dovesse ricorrere ai necessari mezzi di sussistenza servendosi di ripieghi e ricorrendo al lavoro manuale e soprattutto alle questue. Altri erano invece troppo ricchi ed erano presi di mira da chi bramava condurvi una vita comoda. In essi l’oziosità, appena vinta dalle pratiche di culto fatte senza convincimento e senza fervore, dava occasione a pettegolezzi e discordie intestine e a tentazioni provenienti dall’ambiente esterno.
Si aggiunga poi il fatto troppe volte deplorato che la clausura non veniva affatto osservata perché le monache uscivano a loro piacere mancando l’opportuna sorveglianza e l’applicazione di necessarie punizioni. Per di più troppe volte giravano per i monasteri persone di ambo i sessi, altre praticavano insistentemente i parlatori, e altre con troppo facile e abusiva larghezza vi potevano mantenere sacrileghe relazioni.
Un’altra ragione di turbamento dipendeva dalle condizioni economiche dei monasteri. Alcuni fra essi stavano sotto la diretta giurisdizione della Santa Sede che essendo lontana doveva farsi rappresentare sul luogo da prelati di sua fiducia, disposti a lasciar correre per non avere fastidi. A volte scelti di chi aveva interesse che nessuna molesta correzione o riforma vi fosse introdotta.
Altri monasteri erano sotto la diretta dipendenza del Vescovo, ma troppi vescovadi, anche fra i più importanti, erano dati in commenda e in altri i titolari non rispettavano la dovuta residenza e così come ne soffriva la disciplina del clero e lo zelo per la cura delle anime, ne soffriva per conseguenza anche la vita spirituale dei monasteri.
Vi erano anche monasteri sui quali si disputava da chi dovesse dipendere e perciò si sottraevano facilmente a ogni tentativo per esercitare su di essi una effettiva sorveglianza.
Finalmente vi erano anche monasteri che erano sotto la diretta giurisdizione degli Ordini religiosi i quali seguivano la regola e le costituzioni. Dove in questi Ordini le regole venivano osservate e lo spirito religioso era fervente, anche i monasteri che ne dipendevano davano ottimo esempio, ma sappiamo quanta profonda decadenza penetrasse fra i religiosi, specialmente fra coloro che venivano designati come conventuali. Nel Consilium delectorum cardinalium de emendanda Ecclesia del 9 marzo 1537, leggiamo: “Abusus alius turbat christianum populum in monialibus quae sub fratrum conventualium sunt, ubi in plerisque monasteriis fiunt sacrilegia cum maximo omnium scandalo”.
Il degrado della vita religiosa era conseguenza anche di un fenomeno sociale. Molti si mettevano nella vita religiosa per risolvere il problema della sussistenza più che per vocazione, senza eccessiva fatica avevano la possibilità di vita relativamente buona. Il male era che venivano accolti individui di età troppo giovane, persino quasi fanciulli e senza alcuna discrezione. Si può quindi comprendere che molti fra loro mancassero in seguito persino all’osservanza dei più elementari precetti della vita cristiana e tenessero alla vita scandalosa.
Per le fanciulle avveniva un fatto analogo, che cioè troppe entrassero nei monasteri per avere una sistemazione qualsiasi, perché in casa la loro presenza era per motivi diversi onerosa. Altre, specie nelle famiglie abbienti, vi erano costrette dai parenti che miravano a non assottigliare i patrimoni con l’assegnare una dote congrua al loro stato, o per riservare tali doti ad altra sorella. Le prescrizioni canoniche erano severe contro coloro che violavano la libertà delle fanciulle, anche con minacce morali.
Si può comprendere che non erano i conventi più austeri e osservanti che venivano scelti per queste aspiranti. Entrandovi vi trovavano altre vittime delle medesime pressioni e si costituiva così un ambiente di malcontente, desiderose di sottrarsi il più possibile all’osservanza di una regola che dovevano subire e non sapevano amare.
Un certo decoro personale poteva impedire ad alcune di trascendere a vita peccaminosa e indurle a una osservanza esteriore senza spirito e convinzione, ma in altre la possibilità di accondiscendere ai propri istinti e alle tentazioni che le insidiavano dal di fuori non trovava freno sufficiente.
Le ripetute attestazioni che risuonavano da ogni parte ci fa conoscere che vi era una categoria di monasteri dove il malcostume e la dissolutezza riuscivano a malapena a nascondersi quando la fama pubblica non li equiparava a luoghi apertamente immorali. Facili contatti con preti e religiosi incontinenti e dissipati, con avventurieri e spregiudicati, con gente viziosa offrivano troppe volte occasioni di abbandonarsi a vergognosa dissolutezza che anche la novellistica prendeva per tema di racconti satirici, e purtroppo non si trattava sempre di calunnia.

Papa Clemente VII
A Roma si vedeva bene la necessità di prendere i necessari provvedimenti. Clemente VII il 22 marzo 1528 scriveva al vicario del Vescovo di Ferrara e al priore della Certosa che il monastero della Cabianca con grande scandalo “tam in capite quam in membris deformatum est ex eo quod moniales et sorores in illo degentes a pluribus annis citra, regularis observantiae norma et contemplationis iugo postpositis, vitam a religione alienam ducunt”. Il Papa disponeva di inquisire, riformare, imporre la clausura, punire anche con l’intervento dell’autorità civile.
A Milano l’autorità civile supplicava il 25 giugno 1538 Paolo III a intervenire direttamente per la riforma di un monastero di Benedettine. L’abisso in cui erano cadute era tale “ut usu non tamquam virgines Deo dicatae […] sed plus quam fere prostitutae laycae factae sint. […] Civitas obmurmurat, conquiriturque quod locus ille sacer, ab huiusmodi scelestis mulieribus prophanatus factus sit opproprium toti populo”.
Uno dei vicari di Carlo Borromeo gli scriveva il 25 luglio 1565 “In questa visita io trovo delle malcontente non poco, le quali dicono apertamente che sono state poste per forza nei monasteri e vivono inquietissime e inquietano anche le altre buone, le quali desiderano che si trovi qualche rimedio per quiete del monastero”.
In una Bolla del 17 dicembre 1542 Paolo III constatava che molti monasteri della diocesi di Torino conducevano una vita “ita dissolutam et ab earum regularibus institutis alienam […] ut regulam negligere videantur […] et ipsarum monialium infamiam et scandalum plurimorum”. Perciò il Papa concedeva all’arcivescovo di visitare e riformare quei monasteri e prendere i necessari provvedimenti contro le recalcitranti sino al carcere e alla rimozione dagli uffici.
Al Pontefice giungeva notizia che “molti monasteri di monache di Venezia e della diocesi di Torcello sono in mal stato, e ridotti alcuni di loro a pubblici postriboli”. Alla visita apostolica delle chiese e delle case religiose disposta da Gregorio XIII come già stava avvenendo in altre parti d’Italia, il doge e i governanti di Genova scrivevano al Card. Giustiniani per ottenere da Gregorio XIII che si soprassedesse dalla visita canonica ai monasteri della loro città.
La difficoltà dell’attuazione della riforma era principalmente una questione economico sociale. Il Nunzio riferiva al Papa che in Senato si temeva che “riformandosi i monasteri di monache e riducendosi a maggior ristrettezza le figliole de’ nobili che prima anco vi entravano mal volentieri, dopo la riforma non vi vorrebbero entrare in modo alcuno, e vien detto che già se ne vede l’effetto di alcune che ricusano arditamente di monacarsi dopo il rumore di questa visita. Il che dicono sarebbe causa della rovina di molte famiglie per le eccessive doti che usano dar i nobili alle figliole che si maritano”.
L’altra ragione di evitare la visita ai monasteri è che sarebbe meglio coprire che propalare con visite e processi alcuni errori che occorrono nei monasteri, i quali divulgandosi possono non solamente offendere l’onore di persone nobili, ma anco causar discordia e risse fra di loro e questo rispetto s’accosta quasi alla ragion di Stato”.
Conseguentemente, da Roma si ordinava che “la visita si cominci da gli Preti et frati, con dire che delle monache si parlerà poi in ultimo […] non si tratta ora di visitar esse monache et si ancora perché quando pur si visiteranno non si pretende di ridurle a maggior strettezza di quella che sono solite di servare”.
A Roma si comprese bene che era inumano pretendere che giovani entrate in monastero, quando vigeva un’osservanza non rigorosa, doversi sottomettere a una disciplina alla quale non erano preparate. Non si poteva perciò pretendere da loro se non che osservassero un contegno non indegno di religiose con una clausura meno rigida di quella imposta con la Bolla “Decori” di Papa Pio V, ma pur sempre in armonia con la legislazione canonica.
Così anche in questo campo della riforma che il Concilio di Trento aveva inteso introdurre, trovava ostacolo negli interessi politico sociali del tempo e, purtroppo, non soltanto in questi.