Presentazione degli articoli del mese di agosto 2021

Andrea Drigani dalla lettura del volume di Ferruccio Pinotti sull’influenza massonica nella vita politica, economica e finanziaria italiana, rammenta il giudizio lungimirante, espresso nel 1738, di Papa Clemente XII circa la Massoneria i suoi rapporti con la Chiesa e gli Stati. Carlo Nardi rileva che, sin dall’inizio della sua storia, la Chiesa ha cercato di dare la Bibbia in mano a tutti, nella lingua parlata, per rafforzare la fede ed esercitare la testimonianza cristiana. Giovanni Campanella presenta il libro di Mauro Leoni sulla riforma tributaria romana di Servio Tullio, nella quale tuttavia non emergono i criteri di proporzionalità e di progressività, che sono invece necessari per una vera giustizia fiscale. Dario Chiapetti con il testo di Orlando Todisco osserva che la pastorale deve essere in stretta connessione e conseguente con l’attività intellettuale, fondata sul dogma. Gianni Cioli fa emergere la profonda attualità di un saggio di Giacomo Samek Lodovici sul necessario rapporto tra l’emozione e la ragione per evitare sentimentalismi e razionalismi. Antonio Lovascio recensisce il romanzo di Francesco Giorgi, un viaggio nelle odierne problematiche religiose, con speciale riferimento all’antico e sempre nuovo rapporto tra scienza e fede. Giovanni Pallanti introduce all’opera dell’artista Renato Ranaldi che con la recente mostra «Pietre» segna l’approdo della sua ricerca di valori estetici e antropologici per avvicinarsi al mistero della Creazione. Leonardo Salutati annota sul possesso delle armi nucleari e sulla sua presunta deterrenza, contestati dal magistero della Chiesa, ormai in mani a diversi paesi e fuori controllo anche secondo il diritto internazionale. Francesco Romano commenta il recente Decreto del Dicastero Pontificio per i Laici, la Famiglia e la Vita, sul governo delle associazioni e dei movimenti con riferimento alla durata degli incarichi, per evitare appropriazioni carismatiche o abusi di potere. Mario Alexis Portella esprime le sue opinioni (che il Direttore di questa Rivista non condivide) circa l’uso del «green pass» e l’eventuale violazione dei diritti umani. Alessandro Clemenzia con un duplice intervento di Papa Francesco alle delegazioni della Federazione Luterana Mondiale e del Patriarcato di Costantinopoli, osserva che la crisi pandemica può essere considerata anche come un metodo nuovo per osservare la realtà e rinvigorire il dialogo ecumenico. Stefano Liccioli annota sul ruolo della produzione cinematografica anche in ordine all’azione pastorale della Chiesa, che richiede un impegno di educazione all’immagine. Francesco Vermigli dal testo di Daniele Gianotti prende lo spunto per esortare alla studio della cristologia che da sempre vuol favorire la risposta alla domanda di Gesù: «Voi chi dite che io sia?». Carlo Parenti auspica una regolazione internazionale sui brevetti dei vaccini anti-Covid 19 per favorirne l’abbassamento dei prezzi e renderli accessibili ai paesi poveri. Stefano Tarocchi in collegamento con l’articolo del mese scorso sul tributo a Cesare, scrive sulla tassa per il Tempio, un punto cardine per il diritto ebraico, trasformato dai decreti romani.




Capacità contributiva

di Giovanni Campanella · Nel mese di marzo 2021, la casa editrice Tabula Fati ha pubblicato, all’interno della collana “Biblioteca Scientifica”, un piccolo saggio intitolato Il principio della capacità contributiva nella riforma tributaria di Servio Tullio e nella flat tax: proporzionalità o progressività?, scritto da Mauro Leoni.

Mauro Leoni è nato a Cagliari nel 1982. A ventuno anni si laurea in scienze giuridiche e a ventidue in giurisprudenza. È avvocato cassazionista, dottore di ricerca in diritto romano e in diritto civile e ha conseguito il Diploma Special e Avanzato in Doctrina Sociali Ecclesiae presso l’Università Lateranense. È autore di monografie, saggi e note a sentenza. Svolge la professione forense dal 2006.

Nel libro che mi accingo a presentare, Leoni si sofferma dapprima sul principio della capacità contributiva e dei criteri di proporzionalità e di progressività dell’imposizione nella riforma dell’età di Servio Tullio. Nella seconda parte, l’autore introduce il concetto di flat tax ed esamina se sia possibile o meno conciliarlo con l’importante requisito costituzionale della progressività dell’imposizione.

Già nel febbraio 2018, su questa Rivista, il nostro don Leonardo Salutati aveva scritto un bell’articolo sulla flat tax (vedi). In poche righe è riuscito a presentare una breve ma completa analisi storico critica della tassa piatta. Don Leonardo, rifacendosi alla Dottrina Sociale della Chiesa, aveva rilevato che, dal punto di vista morale, la flat tax tout court non è accettabile perché sostanzialmente iniqua: va a colpire in modo proporzionale e uguale persone che detengono quantità diverse di ricchezza. A riguardo, è celebre una frase di don Milani che recita: «non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali». Essa si riaggancia all’articolo 3 della nostra Costituzione che cristallizza il noto principio di eguaglianza formale (comma 1) e sostanziale (comma 2) tra cittadini. Inoltre, è normale che chi ha di più, sia chiamato a dare di più non solo in senso assoluto (la proporzionalità sarebbe già di per sé sufficiente a far sì che chi ha di più, dia di più in senso assoluto; però una stessa porzione di ricchezza è più rilevante per chi ha di meno) ma anche relativo: ci si riferisce al principio di solidarietà dell’art. 2 Cost e soprattutto ai principi di progressività e capacità contributiva dell’art. 53 Cost.

Nel suo piccolo libro, Mauro Leoni rileva che la riforma tributaria di Servio Tullio raggiunse una perfezione tecnica tale da rimanere fondamentale nell’attività impositiva romana durante l’età repubblicana. In tale riforma, giunge a maturazione il principio della capacità contributiva nel diritto romano. A onor del vero, non è completamente chiaro se l’imposizione serviana si informasse a criteri di proporzionalità o progressività.

«Infatti, in adesione al principio multum possident, multum conferant ciascun pater familias doveva contribuire pro portione census. In tal modo, Servio attuava un principio di più equa ripartizione del carico fiscale, stabilendo che fossero assoggettati ad una maggiore imposta i cittadini delle classi benestanti e concedendo esenzioni a favore di quelli più poveri. (…). Il fabbisogno necessario alle campagne militari veniva assicurato dalle centurie, in forza delle quali si procedeva non solo al reclutamento dell’esercito, ma anche al fabbisogno necessario ad assicurare tutte le esigenze belliche. In base a tale sistema i cittadini con maggiore capacità contributiva, essendo in numero minore e suddivisi in più centurie, sopportavano il crescente carico tributario» (pp. 13-15)

È effettivamente arduo, da un punto di vista morale, ritenere accettabile un ricorso alla flat tax senza correzioni e aggiustamenti. Bisognerebbe però anche capire cosa sta alla radice delle voci di coloro che in buona fede invocano la tassa piatta: un carico fiscale oggettivamente elevato, un sistema tributario molto complicato, eccessivamente stratificato e poco trasparente e una gestione delle spese pubbliche poco efficiente. Forse la vera soluzione di tutti i mali non è esattamente la flat tax ma diminuire il carico fiscale, semplificare il sistema tributario (vedo movimenti positivi in tal senso: non posso non guardare con favore le nuove procedure online) e gestire meglio le spese.

La solidarietà è un dovere di tutti e non è aggirabile. Chi è più fortunato aiuti chi lo è meno. Qualcuno potrebbe dire: ma, se io ho messo a frutto i miei talenti e mi sono impegnato, perché dovrei far partecipare dei miei frutti chi si è impegnato meno? Un cristiano dovrebbe sempre pensare che certe condizioni favorevoli non sono casuali ma predisposte dal Signore e nascondono una chiamata a soccorrere chi è più in difficoltà. Poi certamente bisogna far capire a chi è negligente come mettere a frutto i suoi talenti ma lì si entra nella questione della gestione delle spese.

C’è chi dice che un’unica aliquota per tutti premia i virtuosi e diminuisce gli evasori. Ma sarà proprio vero? Chi ha più ricchezza ha più virtù (o tende naturalmente a orientare la ricchezza disponibile verso vie virtuose)?




L’emozione del bene. Attualità di un significativo saggio di Giacomo Samek Lodovici

di Gianni Cioli · Viviamo in un contesto culturale nel quale le emozioni sembrano avere un grande peso. L’emozione è un’esperienza personale, ma è anche comunicabile ed appare del tutto pertinente parlare di emozioni sociali. Le emozioni così intese possono essere cavalcate opportunisticamente dai demagoghi di turno, senza riferimento al bene comune. I demagoghi ci sono sempre stati, ma il fenomeno della comunicazione virale ha certo facilitato la vita ai politici opportunisti. Ascoltando alcune esternazioni recenti di qualche esponente di partito, viene effettivamente da pensare che si è passato il segno. È tuttavia ragionevole pensare che sia anche possibile ed auspicabile interpretare le emozioni riconciliandole con la ragione per orientarle al bene comune.

Per confermarmi in questa speranza ho ripreso in mano un testo del noto docente e ricercatore in filosofia morale dell’Università Cattolica di Milano, Giacomo Samek Lodovici, in cui mi ero felicemente imbattuto circa dieci anni fa: L’emozione del bene. Alcune idee sulla virtù (Vita e Pensiero, Milano 2010). Il libro costituisce un significativo contributo al dibattito etico filosofico contemporaneo che, avendo conosciuto un vivace ritorno d’interesse per il tema della virtù, necessita di una più esplicita tematizzazione delle grandi problematiche antropologiche e gnoseologiche che l’etica della virtù presuppone e fa emergere. Come dice la seconda parte del titolo e come avverte l’autore, scopo dell’opera «non è quello di elaborare una teoria completa della virtù (né una trattazione delle singole virtù), bensì solo quello di proporre alcune idee in vista di una teoria su di essa» (p. XX). Anche la prima parte del titolo, l’emozione del bene, è significativa perché mette in luce la tesi centrale del libro: le emozioni non devono essere contrapposte alla ragione ma considerate sue alleate e costitutive della virtù.

Il saggio si articola in nove capitoli che sono efficacemente sintetizzati dall’autore nell’introduzione.

Il primo capitolo, Perché un’etica della virtù? Lo “status quaestionis”, mostra le ragioni dell’etica della virtù rispetto alle teorie deontologiche o consequenzialiste: l’uomo ha bisogno di un telos per poter dar senso alle norme; ha bisogno, per poter agire bene, di essere amato come pure di amare, e per questo le norme non bastano; le società per essere giuste necessitano di essere composte, almeno in parte, da virtuosi. Una teoria etica deve prendere in considerazione il valore delle emozioni e deve riflettere sul ruolo della comunità nella vita morale del soggetto. Infine «una teoria etica dev’essere elaborata dal punto di vista della prima persona» (p. 20).

Il secondo capitolo, Emozioni e ragione, illustra il rapporto tra emozioni e virtù ponendosi a confronto criticamente con l’emozionalismo, «un atteggiamento-modo di pensare (…) oggi molto diffuso» (p. 23), che mette in primo piano il ruolo dell’emozione, quale fattore escludente la ragione, nella formazione dei giudizi etici. Emozioni e ragione non vanno invece considerate come realtà fra loro incompatibili. Le emozioni supportano positivamente la ragione da cui, d’altra parte necessitano di essere orientate in sinergia con la volontà.

Il terzo capitolo intitolato Il soggetto come totalità, confutando alcune tesi presenti nell’ambito dell’emozionalismo, sostiene la necessità di riconoscere al soggetto una consistenza che trascende le emozioni. Il soggetto non è un semplice fascio di emozioni ma una totalità e le sue azioni non sono isolate atomisticamente. «La vita umana non è costituita da una serie di stati presenti privi di trascendenza, (…) è un processo continuo di integrazione di passato e di futuro in un presente» (p. XVII).

Il quarto capitolo, sviluppando tematiche avviate nei capitoli precedenti, espone i lineamenti di una Ontologia della virtù. «Nella virtù si realizza la sintesi di quella materia che è il mondo emotivo-passionale e di quella forma che viene dalla ragione, una sintesi che porta tutti gli aspetti dell’essere umano a convivere armoniosamente tra loro». La virtù emerge «una sintesi armoniosa delle dimensioni dell’essere umano, in cui ognuna di esse trova il suo giusto spazio ed esprime le sue potenzialità» (pp. XVII-XVIII).

Il quinto capitolo, Virtù come ordo amoris, attingendo in particolare dal pensiero di Agostino e di Tommaso parla del «primato genetico» e dell’«immanenza dell’amore in ogni passione e in ogni azione» (p. 151). In quanto la virtù si esplica nella persona come amore di sé e come amore per gli altri si può affermare che «la pienezza della virtù è ordo amoris» (p. 156).

Il sesto capitolo mette a tema La “phronesis”, la prima delle virtù cardinali, quale «crocevia delle altre virtù» e «fondamento dell’intera vita buona del soggetto» (p. 180).

Il settimo capitolo, Il sillogismo pratico e la virtù, analizza «le fasi del sillogismo pratico e l’influsso su di esse delle virtù etiche, dei vizi e della phronesis», come pure «il rapporto tra le virtù etiche e la phronesis» (p. XVIII).

Il capitolo ottavo, Esistono tratti del carattere? Alcune obiezioni del situazionismo, prende in esame e confuta alcune obiezioni avanzate nell’ambito della psicologia sociale circa la reale esistenza dei tratti del carattere, ovvero «delle propensioni-disposizioni a compiere certe azioni e/o a provare-sentire certe emozioni» (p. 209) e, quindi, delle virtù e di vizi.

Il nono e ultimo capitolo, Come s’individuano e come nascono le virtù e le azioni virtuose, si misura con interrogativi che emergono nell’attuale riflessione filosofica sulla virtù. «Infatti, in un contesto pluralista come è possibile comprendere se una certa azione è virtuosa? E, all’interno di una tradizione chiusa e monista, come facciamo a sapere se una certa azione presentata come virtuosa lo è per davvero?» (p. XIX). Tracce di risposta sono prospettate attraverso una «breve fenomenologia dell’universalismo etico» (p. 218); mediante l’analisi del processo di «genesi della conoscenza morale, del ragionamento pratico e delle azioni virtuose» (p. 229), e di «genesi della condotta virtuosa» (p. 249); nonché attraverso la considerazione degli «ostacoli all’acquisizione delle virtù e all’apprendimento dei principi morali» (p. 253), come pure dalla presa d’atto dell’«influsso della relazione intersoggettiva, dell’educazione e delle comunità» (p. 255).

Si tratta, come si può ben vedere, di un percorso assai articolato circa questioni chiave su cui l’odierna filosofia morale è sfidata a confrontarsi dopo «il ritorno delle virtù». Samek Ludovici ha voluto affrontare con coraggio la sfida regalandoci un itinerario affascinante quanto impegnativo e stimolante per ulteriori riflessioni e ricerche. Il valore del percorso è confermato dalla vasta e assai utile bibliografia, relativa ai soli testi citati, che conclude degnamente il lavoro.

L’autore, come egli stesso non manca di sottolineare nell’introduzione, ha elaborato il suo percorso attingendo in particolare «dagli eticisti della Virtue Ethics, per cercare, sulla scorta delle loro analisi di procedere oltre». Questi autori, in effetti, «non hanno molto tematizzato le grandi problematiche antropologiche e gnoseologiche (ma non solo) sollevate dalla questione della virtù o ad essa preliminari». Samek Ludovici, con particolare riferimento «ad Aristotele, Agostino e Tommaso d’Aquino» (p. XIX), pone in particolare rilievo aspetti che la Virtue Ethics sembra aver tralasciato, relativi specialmente all’ontologia della virtù, alla virtù come ordo amoris, alla phronesis e al sillogismo pratico.

Gli accostamenti di paradigmi di pensiero distanti ma capaci di integrarsi e completarsi sono sicuramente uno dei pregi maggiori del libro e possono costituire un positivo stimolo per il lettore che, per usare liberamente una metafora evangelica, si sente in qualche modo invitato da «un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

Tutto ciò non risulta incongruo se lo si colloca nell’orizzonte fondamentalmente dialogico che caratterizza la proposta di Samek Ludovici. Nel contesto di una cultura fortemente caratterizzata dalla considerazione delle emozioni, come quella odierna, l’autore propone infatti di riflettere sull’«emozione del bene». Così egli prospetta una riconciliazione fra emozioni e ragione attraverso un dialogo serrato tra nuove importanti evidenze del pensiero contemporaneo – delineate anche attraverso un puntuale ed efficace confronto col pensiero di Nietzsche – e temi illuminanti della tradizione filosofico morale aristotelico-tomista.




I giovani, l’anima e il vero medico del mondo

di Antonio Lovascio · Perdura qualcosa di irrisolto nel rapporto dell’uomo con la fede. Penso ai giovani, soprattutto, perché salta agli occhi il riaffacciarsi, tra loro, proprio del sentimento religioso. Tornando a rovistare nell’anima, scoprono che fuori non c’era ciò che cercavano. Al di là delle infatuazioni, delle ingenuità, di talune forme persino morbose, quello che colpisce della loro ricerca è che non sempre procede, astrattamente, sulle piste di Dio. Si sono però rifatti vivi con Gesù, che considerano, per così dire, uno di loro, perché qui c’è già stato. Ci fanno capire di aver bisogno di “ricostruire” l’immagine ad essi più vicina, quella del Figlio, cioè di Cristo.

Tra le ombre di un antico smarrimento ho trovato risposte confortanti nel bel libro di Francesco Giorgi, “Il medico del mondo – Alla scoperta dell’anima”(pubblicato da Ladolfi Editore) che offre tanti spunti per un cammino esistenziale da intraprendere nel tentativo di raccordo tra fede e razionalità, tra religione e scienza, tra spirituale e carnale, comprese le più complesse relazioni umane. Sicuramente aiuta a comprendere perché non bisogna avere paura di attraversare quella che la Santa Madre Teresa di Calcutta chiamava la “notte oscura” dell’anima, un momento di abbandono della speranza, dove si riesce perfino a dubitare dell’esistenza del Creatore; dove i giorni si alternano senza gioia, scivolando nel dolore interiore sempre più intenso.

Nella sua proposta letteraria, che non manca di originalità, Francesco Giorgi ha trovato la formula giusta per far convivere in una narrazione romanzata ambientata a Firenze (città che Giorgio La Pira non a caso esaltava per la sua bellezza generatrice di contemplazione, pace, elevazione) il frutto di una eccellente formazione umanistica e teologica, rinvigorita dalla ventennale esperienza di insegnamento della Religione in un Liceo Scientifico fiorentino. Lievitata nel tempo con lo stare in mezzo a studenti tutti i giorni, trasmettendo pure la passione per la filosofia e la musica (è un apprezzato cantautore) ma soprattutto valori autentici; e ricevere da loro confidenze, dubbi, domande con la richiesta di convincenti e non ambigue risposte sugli enigmi della vita e della Fede, che oggi ci mette addosso i panni del Vangelo.

Cosa ho scoperto attraverso i dialoghi intensi tra i due giovani protagonisti – un uomo di scienza, il medico Nikola e la moglie Soleia, fortemente votata alla mistica ed all’Amore vero, eterno – ? Ho trovato conferme e motivazioni plausibili del perché viviamo un tempo di crisi. Con questa parola, per tanti versi abusata, si vuol dire che sono tramontate alcune immagini, idee, ideologie, modi di pensare e di vivere. La crisi riguarda quei sistemi di pensiero che pretendevano di comprendere fino in fondo la società e la vita dell’uomo; che predicavano la felicità attraverso il progresso scientifico e tecnologico, la politica e la trasformazione sociale, la liberazione delle energie psichiche e sessuali. Confusamente l’uomo oggi – ancor più dopo questa emergenza Covid – percepisce che le speranze cullate dalle ideologie erano povere. Reagisce con un profondo disinteresse verso di loro, senza tuttavia trovare qualcosa con cui alimentare la speranza. L’uomo medio vive alla giornata. Molti non si interrogano sul mistero della Santissima Trinità. Invece Francesco Giorgi nel suo libro lo richiama più volte, ritenendolo centrale nella fede e nella vita cristiana. Aprendo orizzonti di ripensamento anche ai non credenti, come prima di lui hanno fatto – lo ha ben evidenziato il critico letterario Vincenzo Arnone – prestigiosi scrittori del Novecento: Mario Pomilio nel “Natale del 1833”, Rodolfo Doni in “Un filo di voce” e Giorgio Saviane in “Voglio parlare con Dio”.

Ne “Il medico del mondo” ci sono diversi passaggi di analisi profonda sul rapporto tra Scienza e Fede, che mantiene sempre, in ogni tempo, fascino e interesse, ma anche la sua problematicità. In fondo Nikola e Soleia ne sono due simboli. Nei dialoghi tra loro e con amici toccano alcune conflittualità che si rispecchiano nella società contemporanea. E’ il motivo per cui Papa Francesco non si stanca di sottolineare l’importanza di unire la “riflessione filosofico-teologica alla ricerca scientifica, specialmente nell’ambito medico“; ricordando che “rimane sempre valido il principio che non tutto ciò che è tecnicamente possibile o fattibile è perciò stesso eticamente accettabile. La scienza, come qualsiasi altra attività umana, sa di avere dei limiti da rispettare per il bene dell’umanità stessa, e necessita di un senso di responsabilità etica”. Per Bergoglio insomma “la vera misura del progresso, come diceva San Paolo VI, è quello che mira al bene di ogni uomo e di tutto l’uomo”.

I giovani d’oggi accettano questa impostazione? Forse taluni hanno un po’ il “vizio” di voler sapere quali spazi e quali fondamenti restano alla religione di fronte alla violenza dei singoli e dei regimi, a quell’uso della tecnologia che in nome del benessere accetta coartazione, alienazione e inquinamento, a larghe porzioni di umanità senza garanzia di sopravvivenza, a vite stampate nel circuito chiuso lavoro-denaro-consumo. Le nuove generazoni hanno una forte esigenza di “realtà”. Ma, come osserva Francesco Giorgi, anche nelle problematiche del quotidiano i giovani, come tutti gli uomini possono trovare aiuto in quel Dio rivelato da Cristo di cui il mondo ha sempre più urgente bisogno: <Anche se questo approdo personale ed universale è reso molto arduo dall’ostilità organizzata di strutture incorporate, culturali e finanziarie che spingono ad ignorarlo, a irriderlo, a confinarlo nei vicoli della coscienza>. Ecco perché Papa Francesco chiede alla “resistenza cristiana” una svolta missionaria. Il grande passo della Chiesa è profetico: il suo linguaggio dovrà sempre più comprendere quello dell’annuncio e della promessa. Dovremmo tutti essere consapevoli che Gesù, come dice Soleia, “è il vero medico del mondo”.




«Potere massonico». Spunti dal libro di Ferruccio Pinotti

di Andrea Drigani · Avevo già affrontato in un articolo su questa Rivista (L’appartenenza alla Chiesa e altre appartenenze, ottobre 2015) la questione della Massoneria, della sua organizzazione e dei rapporti con la Chiesa. Ma l’uscita dell’ampio e circostanziato volume di Ferruccio Pinotti, edito da Chiarelettere, intitolato «Potere massonico», mi induce ad ulteriori riflessioni.

Ancora una volta vorrei muovermi dalla Bolla «In eminenti», emanata da Papa Clemente XII il 28 aprile 1738, che è il primo di una lunga serie di documenti pontifici di deciso e profondo contrasto nonché di dura contestazione nei confronti della Massoneria. Nel testo di Clemente XII i rilievi fortemente negativi nei confronti dell’aggregazione massonica, che porteranno alla condanna e alla proibizione per i cattolici di appartenervi, sono da ritenersi nel patto associativo stretto e segreto, nonché nell’obbedienza alle norme e alla gerarchia interna.

Per questi motivi Clemente XII era dell’avviso che la Massoneria provocasse gravissimi danni non solo per la Chiesa, ma anche per l’ordinamento civile degli Stati. Nella Bolla «In eminenti» non viene presa in considerazione la cosidetta ideologia massonica, una mescolanza di elementi esoterici ed illuministici, forse perchè ritenuta solo una sorta di copertura culturale.

Del resto anche Pinotti precisa che nella sua inchiesta sono pressochè assenti gli aspetti esoterici, filosofici e simbolici della Massoneria per incentrare l’attenzione sulle attività complesse e variegate di quest’ultima, tese ad influenzare la vita politica ed in particolare il settore economico-finanziario.

Nel libro di Pinotti con numerose interviste dirette o riprese da altre pubblicazioni si ripercorrono una serie di vicissitudini storiche italiane dal 1860 ai giorni nostri con speciale riguardo alla formazione dei governi, alle elezioni dei Presidenti della Repubblica, al ruolo della magistratura, ai mass-media, alle docenze universitarie, al sistema bancario. Pinotti richiama poi l’attenzione sulle attività illecite dalla Loggia P2 di Licio Gelli, nonché sui misteriosi rapporti con la criminalità organizzata.

E’ ovvio che le associazioni, i partiti, i movimenti, le organizzazioni sindacali possono contribuire a favorire talune scelte politiche, ma con un metodo pubblico (termine, che giova ricordare, deriva da popolo) come la partecipazione alle elezioni, l’elaborazione di progetti, la contrattazione collettiva. La Massoneria anche se non si ritiene un’associazione segreta, potrebbe essere considerata semisegreta.

Le proteste che le centrali massoniche hanno espresso sulle leggi regionali della Toscana e della Sicilia che hanno imposto l’obbligo per chi occupa cariche o funzioni pubbliche di dichiarare l’appartenenza anche alla Massoneria, non sembrano comprensibili e favoriscono una opacità. Sarebbe, invece, oltremodo auspicabile che venisse approvata una legge statale circa il suddetto obbligo.

Per quanto attiene ad un eventuale dialogo tra Chiesa e Massoneria, Pinotti riporta una lunga conversazione con l’avvocato Francesco Guida, che ha lasciato il Grande Oriente d’Italia per costituire l’Ordine massonico tradizionale italiano, il quale, tra l’altro, afferma la fondatezza dell’incompatibilità tra la Massoneria e la Chiesa.

«La Chiesa – dice Guida – pone al centro della realtà Gesù Cristo, via-verità-vita, il ruolo dell’uomo è quello di collaboratore del disegno divino, ma è attorno al Cristo che ruota tutto. Secondo la massoneria, invece, al centro della realtà c’è l’uomo. Su questo io vedo un’incompatibilità assoluta e irrisolvibile». Questo non esclude, dice ancora Guida, che potranno eventualmente sussistere a livello pratico, nel campo dell’assistenza sociale, delle collaborazioni per portare aiuto ai poveri.

Dalla lettura del libro di Pinotti mi sono ulteriormente convinto che Clemente XII (il fiorentino Lorenzo Corsini) fu lungimirante con la Bolla “In eminenti”.




Una Chiesa di tutti e per tutti

di Carlo Nardi · La Chiesa delle origini ha cercato sempre di farsi capire da tutti. Nel Mediterraneo orientale ha tradotto la bibbia in greco, la lingua parlata e capita in quel tempo. Ai tempi di papa Vittore (189-198) il culto a Roma è nella lingua che tutti capiscono, il latino appunto. Nel terzo secolo la Bibbia è in copto, la lingua delle popolazioni interne dell’Egitto, la lingua di sant’Antonio abate. Insomma, la Chiesa primitiva ha dato subito la parola ai poveri: una parola semplice, dignitosa, aderente alla vita, inquietante le coscienze, come quella delle parabole del Vangelo. E oggi?

Inquietante banda d’ignoranti e villani erano i cristiani della fine del secondo secolo per il dotto pagano Celso in un suo circostanziato trattato da lui intitolato Discorso vero, – ossia: «ve lo dico io come stanno le cose!» -: una Chiesa di gentuccia, di lazzaroni, che fa adepti tra donnaccole e schiavi (cf. Origene, Contro Celso I,27).

I cristiani più accorti non avevano difficoltà a rispondere che anche il mite Epicuro quasi cinque secoli prima aveva accolto nel Giardino, la sua scuola familiare di sapienza, donne e schiavi in assoluta parità rispetto alla filosofia che già Aristotele aveva additato come un bene per tutti per raggiungere la felicità.

Poi, soprattutto, la Chiesa non può e non deve rinunciare a quello che per Celso era un difetto e che invece la Prima lettera ai Corinti (1,26-31) e non solo dicono essere una prerogativa ed un impegno della Chiesa stessa. Lo ricordava Giovanni XXIII nell’imminenza del Concilio (11 settembre 1962): la Chiesa «si presenta qual è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente dei poveri», come dire che per “essere Chiesa di tutti” dev’essere “Chiesa dei poveri”», ossia dove i poveri si sentano pienamente a casa loro per il semplice fatto che è la loro casa.

Allora soltanto è Chiesa di tutti, anche dei ricchi: non senza un perché papa Giovanni precisava subito dopo che «dovere di ogni uomo, dovere impellente del cristiano è di considerare il superfluo con la misura delle necessità altrui». Mi vien da dire: ce n’è per tutti in quella frase. E mi fa pensare anche una idea di sant’Agostino: «Ci correggano, ci critichino i grammatici, purché ci capiscano i popoli». E’ criterio fondamentale della predicazione: farsi capire da tutti, ossia da chi è meno provveduto in fatto di lingua.

La Chiesa dei tempi di Celso ha inteso farsi capire da tutti. Nel Mediterraneo orientale ha dato in mano la bibbia in greco, la lingua parlata o comunque capita. In occidente la si sta traducendo in latino.

Insomma, la Chiesa primitiva ha dato subito, – dico con don Milani -, la parola ai poveri: una parola semplice, dignitosa, aderente alla vita, inquietante le coscienze, come quella delle parabole del Vangelo.

17 luglio dell’anno 180: Sperato, Narzalo, Cittino, e Donata, Seconda e Vestia, gente comune, gente qualunque di un villaggio interno dell’odierno Magreb, sono citati davanti al proconsole, nel suo ufficio nella grande Cartagine: il capo d’accusa, essere complici della “stupidaggine” della fede cristiana. Pronta e serena la confessione: «Sono cristiano, sono cristiana. Voglio essere quello che sono».

Il governatore, probabilmente scocciato di trovarsi a mandare a morte persone perbene, vorrebbe dar loro trenta giorni per ripensarci. Poi gli cade l’occhio su una cassetta: «Che c’è lì dentro?». «Libri» della bibbia, «le lettere di Paolo, uomo giusto». Quegli scritti danno loro la forza per far loro rispondere al proconsole: «Non c’è alcun motivo di ripensamento: la cosa è giusta così com’è». La condanna a morte è dichiarata ed eseguita.




Il governo delle Associazioni internazionali di fedeli nel Decreto Generale del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita

di Francesco Romano • Il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita ha emanato l’11 giugno 2021 il Decreto generale con forza di legge, approvato in forma specifica da Papa Francesco, allo scopo di regolare la durata e il numero dei mandati nelle associazioni internazionali di fedeli, sia pubbliche che private. Le disposizioni saranno vincolanti anche per gli altri enti riconosciuti o eretti da questo Dicastero. Pertanto, restano fuori da queste disposizioni tutte le altre associazioni di fedeli diocesane e nazionali, sia pubbliche che private, come anche quelle internazionali che dipendono da altri Dicasteri pontifici.

La Nota esplicativa che il Dicastero ha pubblicato insieme al Decreto generale sottolinea che esso nasce dal desiderio di promuovere la crescita delle realtà ecclesiali ad esso affidate, nonché di aiutare i Pastori a svolgere adeguatamente il loro ruolo di guida e di accompagnamento nei confronti delle medesime.

Il Decreto generale si applica anche agli altri enti non riconosciuti né eretti come associazioni internazionali di fedeli, a cui è stata concessa personalità giuridica e che sono soggetti alla vigilanza diretta del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita.

La Nota esplicativa evidenzia che “non di rado la mancanza di limiti ai mandati di governo favorisce, in chi è chiamato a governare, forme di appropriazione del carisma, personalismi, accentramento delle funzioni nonché espressioni di autoreferenzialità, che facilmente cagionano gravi violazioni della dignità e della libertà personali e, finanche, veri e propri abusi”.

La vita all’interno di un’associazione di fedeli è regolata dalla libera volontà degli associati a norma degli statuti di cui la competente autorità ecclesiastica conferisce la “recognitio” (can. 299 §3) o la “approbatio”. (can. 314) Per la sua natura ecclesiale si rende necessario preservare l’associazione di fedeli dalla tentazione di cadere in una mentalità privatistica. La Chiesa, e non l’ambito ristretto delle associazioni, è il luogo proprio della vita delle realtà aggregative. Di conseguenza, “anche il governo nelle associazioni di fedeli è da intendersi in una prospettiva di comunione ecclesiale e si esercita a norma del diritto universale e di quello proprio, sotto la vigilanza dell’autorità ecclesiastica” (cf. cann. 305, 315, 323; lumen gentium 12b; Iuvenescit Ecclesia, 8).

La Nota esplicativa del Dicastero osserva che Papa Francesco, in linea con i predecessori, suggerisce di comprendere le esigenze richieste dal cammino di maturità ecclesiale delle aggregazioni di fedeli nell’ottica della conversione missionaria (cf. Evangelii gaudium, 29-30), indicando come prioritari “il rispetto della libertà personale; il superamento dell’autoreferenzialità, degli unilateralismi e delle assolutizzazioni; la promozione di una più ampia sinodalità, come anche il bene prezioso della comunione”.

Il Decreto generale del Dicastero per Laici, la Famiglia e la Vita ha per scopo di “promuovere un sano ricambio e di prevenire appropriazioni che non hanno mancato di procurare violazioni e abusi” attraverso la regolamentazione dei mandati delle cariche di governo, la loro durata, il numero. L’avvicendamento negli incarichi di governo vuole significare che l’autorità sia esercitata come autentico servizio, coerentemente con la missione ecclesiale delle associazioni.

Un cattivo esercizio del governo” – osserva la Nota esplicativa – “crea inevitabilmente conflitti e tensioni che feriscono la comunione, indebolendo lo slancio missionario”. L’esperienza ha invece mostrato che “il ricambio generazionale degli organi di governo mediante la rotazione delle responsabilità direttive, apporta grandi benefici alla vitalità dell’associazione: è opportunità di crescita creativa e spinta per l’investimento formativo; rinvigorisce la fedeltà al carisma; dà respiro ed efficacia all’interpretazione dei segni dei tempi; incoraggia modalità nuove e attuali di azione missionaria”.

Nello stesso tempo, il Dicastero, “consapevole del ruolo chiave svolto dai fondatori”, si riserva di dispensarli dai limiti stabiliti ai mandati (cf. Decreto, art. 5), tuttavia solo “se lo riterrà opportuno per lo sviluppo e la stabilità dell’associazione o dell’ente, e se tale dispensa corrispondesse alla chiara volontà dell’organo centrale di governo”.

Il Decreto generale si compone di nove paragrafi e una Nota esplicativa. Il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita rinnova le forme di governo dei movimenti ecclesiali. I mandati nell’organo centrale di governo possono durare al massimo cinque anni senza possibilità di rimanere nell’organo di governo per più di dieci anni consecutivi. In tal caso è possibile essere rieletti solo dopo una vacanza di mandato.

I moderatori possono esercitare la funzione indipendentemente dagli anni già trascorsi in altro incarico nell’organo centrale di governo a livello internazionale e possono ricoprire un altro incarico nell’organo centrale dopo aver svolto i dieci anni da moderatore.

L’eccezione per i fondatori viene dalla consapevolezza, invece, “del ruolo chiave svolto dai fondatori in diverse associazioni o enti internazionali. Il Dicastero, al momento di approvarne gli statuti, ha spesso concesso stabilità agli incarichi di governo attribuiti ai fondatori stessi”.

Il Decreto generale ha valore retroattivo, infatti le associazioni nelle quali, al momento della entrata in vigore del presente Decreto, sono conferiti incarichi nell’organo centrale di governo a livello internazionale a membri che hanno superato i limiti di cui agli articoli 1 e 2, debbono provvedere a nuove elezioni entro e non oltre ventiquattro mesi dalla data in cui entra in vigore il presente Decreto.

La Nota esplicativa ricorda anche che Benedetto XVI aveva sollecitato i movimenti per i frutti che avevano dato a sottomettersi con pronta obbedienza e adesione al discernimento dell’autorità ecclesiastica, indicando tale disponibilità quale garanzia stessa dell’autenticità dei carismi e della bontà evangelica del loro operato. Papa Francesco, d’altro canto, invita a comprendere le esigenze delle aggregazioni di fedeli per compiere un cammino di maturità ecclesiale nell’ottica della conversione missionaria, indicando tra le priorità “il rispetto della libertà personale; il superamento dell’autoreferenzialità, degli unilateralismi e delle assolutizzazioni; la promozione di una più ampia sinodalità, come anche il bene prezioso della comunione”.

Scopo del Decreto, come spiega la Nota esplicativa, è di far superare tentazioni e insufficienze riscontrate nel modo di esercitare il governo all’interno delle associazioni di fedeli. Se sono gli stessi membri delle associazioni a decidere del loro governo, “anche il governo nelle associazioni di fedeli è da intendersi in una prospettiva di comunione ecclesiale, e si esercita a norma del diritto universale e di quello proprio, sotto la vigilanza dell’autorità ecclesiastica”.




La crisi e il dialogo ecumenico

di Alessandro Clemenzia · La realtà in cui si vive non può essere considerata qualcosa di secondario per arrivare a una comprensione vera di se stessi e dell’altro: essa, infatti, è molto di più di un semplice argomento di attualità, in quanto può addirittura rappresentare un “punto di non ritorno” per i diversi ambiti della vita umana. Una crisi di grande portata, quale ad esempio quella generata dalla pandemia, non può essere colta come una semplice parentesi all’interno della storia personale e comunitaria, dopo la quale si può ripartire come se nulla, nel frattempo, fosse accaduto. Questo discorso vale anche per istituzioni millenarie come la Chiesa: sarebbe del tutto inopportuno, dopo questa tragedia di ordine planetario, riavviare le attività da dove ci si era interrotti: ciò riguarda sia quelle della vita pastorale, sia il dialogo ecumenico. Ma cosa c’entra la crisi con il dialogo ecumenico?

A distanza di pochi giorni, papa Francesco ha pronunciato due discorsi, che possono essere letti nella loro complementarietà: uno ai rappresentanti della Federazione Luterana Mondiale (25 giugno 2021), l’altro alla delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli (28 giugno 2021).

Senza seguire l’ordine cronologico, possiamo partire proprio da quest’ultimo discorso, con cui il Papa ha accolto la delegazione ortodossa, in occasione della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Tale solennità, spiega Francesco, cade proprio in un tempo particolare, mentre «il mondo sta ancora lottando per uscire dalla drammatica crisi causata dalla pandemia». Tale condizione precaria sembra essere, inizialmente, soltanto lo sfondo all’interno del quale ricorre il festeggiamento; eppure aggiunge il Papa: «Più grave di questa crisi c’è solo la possibilità di sprecarla, senza apprendere la lezione che ci consegna». Egli fa riferimento a quell’atteggiamento di umiltà di chi sa bene che non si può vivere da sani in un mondo lacerato dalla malattia. Questa drammatica vicenda del Covid ha qualcosa da insegnare in particolare ai cristiani: «Anche noi siamo seriamente chiamati a chiederci se vogliamo riprendere a fare tutto come prima, come se non fosse successo nulla, o se vogliamo cogliere la sfida di questa crisi». Quest’ultima, egli spiega, «implica un giudizio, una separazione tra ciò che fa bene e ciò che fa male». Il Papa richiama qui l’importanza di comprendere, nella variabilità delle circostanze storiche, ciò che passa da ciò che, invece, rimane per sempre ed è capace di fare del bene. Sappiamo dalla Scrittura che tutto passa, ma non il vero amore: non si tratta di quel sentimento romantico – sottolinea Francesco – che è centrato su se stesso, ma di quell’amore, rivelato da Cristo, «del seme che dà vita morendo in terra, che porta frutto spezzandosi».

Ciò ha delle implicazioni dirette per il dialogo tra cattolici e ortodossi: «Prendere sul serio la crisi che stiamo attraversando significa dunque, per noi cristiani in cammino verso la piena comunione, chiederci come vogliamo procedere». E qui il Papa mostra due possibili vie che si aprono e che possono essere percorse: il ripiegamento su se stessi o l’apertura all’altro. Quest’ultima via significa abbandonare le vecchie incomprensioni e i soliti pregiudizi, che col tempo si sono rivelati dannosi, per instaurare nuove e vere forme di relazione. Ciò non significa obliare o addirittura cancellare le differenze esistenti tra le Chiese, ma sentirsi tutti pienamente corresponsabili gli uni degli altri, nella consapevolezza che è lo Spirito Santo ad armonizzare le diversità. L’apertura all’altro, dunque, deve aprirsi alla docilità nei confronti di Colui che è capace di generare una comunione e di irradiarla universalmente, portando così a una fraternità rinnovata.

Anche nel discorso tenuto dal Santo Padre ai rappresentanti della Federazione Luterana Mondiale torna l’importanza del significato della crisi. Quest’ultima non fa più riferimento al dilagare della pandemia e ai problemi da essa causati a livello planetario, ma allude alla strada da percorrere per passare dal conflitto alla comunione: «Questo cammino si fa soltanto in crisi: la crisi che ci aiuta a maturare quello che stiamo cercando». La crisi è colta come il “metodo” per arrivare alla comunione: «Dal conflitto che abbiamo vissuto durante secoli e secoli, alla comunione che vogliamo, e per fare questo ci mettiamo in crisi. Una crisi che è una benedizione del Signore».

 

Se, dunque, nella prima accezione la crisi (quella pandemica) rappresentava una chiave interpretativa per ripartire, come Chiese, con maggiore corresponsabilità, in questa seconda accezione, di natura antropologica, la crisi diventa il metodo, la strada da percorrere, capace di portare a «guardare con umiltà spirituale e teologica alle circostanze che portarono alle divisioni, nella fiducia che, se è impossibile annullare le tristi vicende del passato, è possibile rileggerle all’interno di una storia riconciliata». La crisi, in questo senso, offre all’uomo la possibilità di cogliere la realtà in modo nuovo, di saperla leggere in modo profetico, senza cancellare la storia.

L’ecumenismo non rappresenta «un esercizio di diplomazia ecclesiale, ma un cammino di grazia. Esso non poggia su mediazioni e accordi umani, ma sulla grazia di Dio, che purifica la memoria e il cuore, vince le rigidità e orienta verso una comunione rinnovata: non verso accordi al ribasso o sincretismi concilianti, ma verso un’unità riconciliata nelle differenze».




Le «Pietre» di Renato Ranaldi.

di Giovanni Pallanti · Renato Ranaldi poeta, pittore, scultore, in una sola parola artista creativo scrive di se stesso in un pezzo fino ad oggi non pubblicato da altra parte se non qui: “Un amico poeta che non ha mai scritto un verso, un giorno mi disse che ero un dandy che drammatizza. Conosceva la mia diffidenza per quello che è facile da esprimere, che va liscio come l’olio, e quanto ci tenga che nessuno calpesti la mia terra piena di pietre: l’ho arata e concimata coi veleni estratti dalle forme inospitali che frequento. Secondo lui avrei potuto scrivere a proposito di solitudine che s’incrocia con spunti comici: una vita d’artista segnata dal grandioso successo del fallimento, il meccanismo inceppato del sé, cigolante, il ridicolo che incalza a causa dell’ossessione del proprio nome in mezzo a una congrega di angeli e demoni”. In questa autopresentazione c’è tutta la grandezza della ricerca artistica ultradecennale, Ranaldi è nato nel 1941, di un’arte perennemente rinnovata in equilibrio tra il dramma e la commedia. Per capire quest’equazione la mostra “Pietre”, organizzata dalla galleria fiorentina Il Ponte è essenziale. Come si può vedere nella copertina del catalogo di questa mostra la combinazione di un bastone da passeggio appoggiato ad una pietra è più eloquente di qualsiasi altra spiegazione. Ranaldi è arrivato ad un punto focale della sua ricerca artistica mai doma e sempre alla ricerca di valori estetici e antropologici essenziali per avvicinarsi al mistero del Creato. Proprio questo lavoro sulle pietre è l’approdo decisivo al mistero della Creazione: Le Pietre. Sul pianeta terra generazioni di esseri umani, di animali e di piante nascono e muoiono in tempi più o meno lunghi. Le pietre rimangono. Questo è il vero mistero della creazione che Ranaldi affronta con intelligente umorismo critico come chi affacciandosi ad un burrone si domandasse che cosa potrebbe succedere se ci cascasse dentro. Ranaldi è un artista vero non uno di quelli che mascherandosi dentro le cosiddette avanguardie nascondono le loro incapacità creative. Ranaldi sa pitturare e scolpire, è lontano, e non lo nasconde dalla visione dell’arte e del mondo e della spiritualità del tempo di Michelangelo e dalla gloria militaresca e mondana di un artista dell ‘800 come David. Però rimane uno degli artisti più importanti della sua generazione, forse il più innovativo. Questa mostra sulle pietre è diversa, ma conseguente a tutta la sua ricerca artistica passata, dalle pietre partono piccole architetture, colpi di colore che aiutano a capire e a comprendere il mistero della creazione e tutto ciò che su di essa l’uomo ha, con più o meno successo, tentato di costruire.

Un’ ultima riflessione: nel catalogo che accompagna la mostra di Ranaldi sulle pietre non c’è cenno di quanto ho pensato, si tratta di un fatto straordinario sul valore dato alle pietre nella storia dell’umanità.

Gesù rivolgendosi a Pietro dice : «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa» (Mt 16,18). Nello scritto di Ranaldi non c’è nessun riferimento a questo avvenimento. Ma come succede quando si affrontano argomenti fondamentali ci si accorge che non siamo mai primi a confrontarsi sul mistero della Terra.




«Per una nuova presenza nel mondo». Un testo di Orlando Todisco

di Dario Chiapetti · Per una nuova presenza nel mondo. La pastorale francescana nel dibattito contemporaneo (Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2021, 341 pp., 20,00 euro) è un testo di Orlando Todisco, francescano conventuale, docente di filosofia presso la Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura (Seraphicum) di Roma.

Un primo aspetto dell’opera, degno di nota, consiste nel fatto che l’Autore non affronta in alcun modo la questione della pastorale, in questo caso francescana, formulando proposte concrete su “cosa fare”. Piuttosto propone una riflessione teologica sui fondamenti dell’ontologia, così come sono dischiusi dalla rivelazione e sono stati incarnati prima da Francesco d’Assisi, poi dal francescanesimo – Francesco è maestro di vita e di pensiero (p. 263) –, convinto del potere del pensare (p. 310.313) e della pregnanza culturale dell’azione pastorale francescana (p. 18), nell’imprescindibile connessione (ordinata gerarchicamente) – che è possibile ravvisare – tra ontologia (essere), esperienza (vita pneumatica), gnoseologia (pensiero) e pastorale (azione pneumatica ordinata al fine).

Nell’Introduzione Todisco riassume la sua tesi centrale, che sviluppa lungo il tutto il percorso: Francesco ha dato avvio al pensare l’ontologia in termini di libertà, ossia l’essere come dono, e non come diritto, in opposizione all’ontologia della filosofia greca classica. Per quest’ultima il primato spetta alla Physis, eterna e impersonale, alla cui struttura razionale, necessitata, deve sottostare anche Dio, mentre l’uomo la rintraccia per dominare il mondo. In vario modo è stata adottata sia dalla religione sia dalla filosofia. Quest’ultima, è passata dal razionalismo al nichilismo, fino al dominio della tecnica. All’origine dell’essere, di Dio e della creazione, sta invece la libertà creativa di segno oblativo, propria innanzitutto di Dio, che rende la creazione non solo res (cosa) ma anche signum (segno che rimanda ad un senso), e soprattutto ens volitum, e quindi bonum, la cui struttura razionale trascende quella appresa dal razionalismo, ed è conseguenza, non causa, della libertà.

Nel Capitolo primo l’Autore mostra come Francesco abbia incarnato la libertà creativa allo stato puro e come la fase della vita dell’Ordine, successiva alla morte del Santo, abbia costituito, sebbene non senza tensioni, un’istituzionalizzazione di questa libertà. È questo il punto fondamentale su cui il pastore francescano deve focalizzarsi, e non sul dibattito intorno alla povertà assoluta.

Il Capitolo secondo approfondisce teologicamente i termini mediante cui intendere un’ontologia francescana della libertà – opposta a quella che attribuisce il primato alla razionalità –, e espone il carattere rivoluzionario della cultura francescana, oltre l’orientamento culturale dell’Occidente.

Col Capitolo terzo Todisco opera un affondo sull’ontologia della libertà, a partire dalla riflessione di Bonaventura da Bagnoregio, e precisamente sul volontarismo, che afferma l’indole contingente dell’attuale e il primato del possibile (p. 141), liberando la conoscenza dai confini stretti imposti da una razionalità risolventesi in se stessa.

Nel Capitolo quarto Todisco mette a fuoco come da un’ontologia della libertà, e quindi della gratuità e dell’oblatività, sia connessa l’affermazione del primato ontologico del particolare in quanto voluto e quindi buono, e la valorizzazione del suo carattere sensibile. Da ciò l’Autore ricava che anche la conoscenza sarà quindi connotata affettivamente, rispondente ad una razionalità non impersonale (p. 188).

Col Capitolo quinto è affrontata la questione della ricerca dell’unità e della pluralità dei mondi etico-religiosi, oltre ogni relativismo. La verità è intesa come libertà creativa di segno oblativo, il bene come effusione dell’essere come dono (p. 249), la conoscenza come ri-conoscenza, l’agire come forma di ringraziamento (p. 245), al fine di generare la libertà creativa di segno oblativo nei mondi etico-religiosi, quale unico metro valutativo delle scelte etico-religiose (p. 242).

Il Capitolo sesto tratta la pastorale francescana nella storia contemporanea. In particolare, l’Autore osserva come il volontarismo francescano si opponga alla piega individualistica della volontà, propria dell’epoca moderna e contemporanea, promuovendo il passaggio dall’antropologia possessiva (fondata sulla concezione dell’essere come diritto) all’antropologia oblativa (fondata sulla concezione dell’essere come dono), che può innescare innumerevoli percorsi esistenziali di carattere libertario.

Nella Conclusione Todisco, facendo ricognizione delle sue riflessioni, punta l’attenzione sull’importanza del pensare e del pensare il dogma e secondo il dogma: non bisogna abbandonare le verità dogmatiche, occorre piuttosto abbandonare la loro interpretazione in chiave razionalistica e quindi rivendicativa, in favore di un’interpretazione in chiave libertaria di segno oblativo (p. 315), dando luogo ad una vera e propria «svolta simbolica, linguistica e comunicativa» (p. 314), in cui un posto di prim’ordine è detenuto dall’esperienza del bello, e quindi dall’arte, non soggettivisticamente intesa, ma come esperienza di gratuità radicata nell’evento-vertice della croce, «compendio della storia e suo epilogo glorioso» (p. 321 ss.).

Questa la sfida per la pastorale francescana che Todisco lancia: non brancolamenti casuali, non singoli slanci di genialità individuali, non ricette uniformizzanti, ma, nel carisma di Francesco, formare un pensare, un pensare dogmaticamente i fondamenti dell’essere e un pensare a partire da questi. Da ciò una (vera) azione libertaria, promotrice di (vera) libertà.




Senza il monopolio dei brevetti il costo dei vaccini a mRna anti Covid-19 potrebbe essere 5 volte più basso.

di Carlo Parenti · Un recentissimo rapporto (vedi) di The People’s Vaccine Alliance dal titolo La grande rapina dei vaccini tratta dei prezzi eccessivi che le aziende farmaceutiche applicano per i vaccini COVID-19, mentre i paesi ricchi bloccano il percorso più rapido ed economico verso la vaccinazione globale.

The People’s Vaccine Alliance  è un movimento globale di organizzazioni, leader mondiali e attivisti uniti da un obiettivo comune di una campagna per un “vaccino popolare” per COVID-19 basato su conoscenze condivise che sia disponibile gratuitamente per tutti ovunque. Il Peoples Vaccine è supportato da oltre 2 milioni di attivisti in tutto il mondo e da 175 ex leader mondiali e scienziati vincitori del premio Nobel.

Ricordo un precedente importante di cui ho scritto su questa rivista (vedi): Albert Sabin non brevettò il suo vaccino per regalarlo a tutti i bambini del mondo! .

Per P.V.A. il costo della vaccinazione globale con gli innovativi vaccini a mRna –sostenuto dall’iniziativa Covax dell’Organizzazione mondiale della sanità– potrebbe essere almeno 5 volte più basso, se i colossi farmaceutici non godessero dei monopoli sui brevetti dei vaccini Covid. Condizione che ha fatto pagare ai paesi ricchi fino a 24 volte il costo stimato di produzione. È la denuncia lanciata il 29 luglio scorso anche in Italia da Oxfam e da Emergency, membri della People’s Vaccine Alliance (Pva), con Unaids e quasi altre 70 organizzazioni. Il rapporto rivela come solo Pfizer/BioNTech e Moderna nel 2021 potrebbero far pagare agli Stati 41 miliardi di dollari in più, rispetto al costo di produzione stimato dei vaccini a tecnologia mRna, nonostante per il loro sviluppo le stesse aziende abbiano ricevuto oltre 8,25 miliardi di finanziamenti pubblici. Nuove analisi delle tecniche di produzione dei vaccini di tipo mRna, messi in commercio da Pfizer/BioNTech e Moderna –realizzate da Public Citizen con ingegneri dell’Imperial College di Londra e pubblicate nel rapporto– rivelano infatti che questi vaccini potrebbero essere realizzati in media con un costo che varia da appena 1,18 a 2,85 dollari a dose. Si pensi poi che l’amministratore delegato di Pfizer Albert Bourla ha suggerito che si potrà arrivare fino a 175 dollari per dose, ossia 148 volte il potenziale costo minimo stimato di produzione. “Mentre meno dell’1% delle persone nei Paesi a basso-medio reddito è stata vaccinata e le varianti corrono, i CEO di Moderna e BioNTech con i profitti realizzati sono diventati miliardari”, sottolinea Oxfam.

Secondo il rapporto, “solo l’Italia fino ad oggi per questi due vaccini avrebbe speso 4,1 miliardi di euro in più di denaro dei contribuenti. Risorse che potrebbero essere investite per rafforzare il Sistema sanitario nazionale, consentendo, ad esempio, di allestire oltre 40mila nuovi posti di terapia intensiva (ad oggi sono poco più di 8.500); oppure di assumere oltre 49mila nuovi medici (ad oggi sono poco più di 100mila quelli dipendenti del Sistema sanitario nazionale)”.

Anche “il Regno Unito avrebbe pagato 1,8 miliardi di sterline in più, sufficienti a garantire un bonus di oltre 1.000 sterline a ciascun operatore del Sistema sanitario nazionale. La Germania avrebbe potuto risparmiare 5,7 miliardi di euro, che avrebbe consentito di assumere 100.000 nuovi operatori sanitari”.
“La scarsità mondiale di vaccini è una diretta conseguenza del sostegno dei Paesi ricchi ai monopoli delle aziende farmaceutiche, che ad oggi non hanno fatto nessun reale passo avanti per la condivisione di tecnologie, know-how e brevetti con i tanti produttori che nei Paesi in via di sviluppo potrebbero garantirne l’abbassamento dei prezzi e l’incremento nella produzione mondiale – hanno detto Sara Albiani, policy advisor per la salute globale di Oxfam Italia, e Rossella Miccio, presidente di Emergency . L’unico primo, timido ma insufficiente, passo in avanti è stato fatto da Pfizer/BioNTech pochi giorni fa, per consentire la produzione di 100 milioni di dosi in Sud Africa. La prima dose però sarà disponibile solo nel 2022, mentre in Africa si continua a morire”.

P.V.A lancia un appello ai Governi per un’azione urgente: “Se tutti i governi non spingeranno per la condivisione dei brevetti e il trasferimento delle tecnologie necessarie a consentire di aumentare la produzione mondiale di vaccini, ancora innumerevoli vite andranno perse. – concludono Albiani e Miccio – Consentire ai Paesi in via di sviluppo di produrre i propri vaccini è il modo più rapido e sicuro per aumentare l’offerta e ridurre drasticamente i prezzi. Quando questo è stato fatto per il trattamento dell’HIV, i prezzi sono diminuiti del 99%. Una proposta per arrivarci esiste ed è sostenuta da oltre 100 Paesi tra cui Stati Uniti, Francia, India e Sud Africa; mentre Germania, Regno Unito e Unione Europea si sono più volte opposti, con l’Italia che continua a non assumere una posizione chiara e si accoda alle decisioni dell’UE. Per questo rilanciamo ancora una volta con forza un appello urgente perché si arrivi il prima possibile ad una sua approvazione in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio, che si sta riunendo proprio questa settimana per discuterne”.

Ma dobbiamo sottolineare che da tempo Papa Francesco chiede di “assicurare l’accesso universale al vaccino e la sospensione temporanea del diritto di proprietà intellettuale”. Il 2 maggio 2021 il Papa ha inviato un video messaggio a Vax Live: The Concert to Reunite The World. Un grande concerto tenutosi a Los Angeles, di fronte a 25 mila fan, con l’obiettivo di chiedere che i vaccini contro il COVID-19 siano accessibili per tutti, anche ai paesi ancora in via di sviluppo, in modo da porre una fine definitiva alla pandemia. Global Citizen è un’associazione che da tempo unisce artisti e fan con lo scopo principale di porre fine alla povertà estrema che ancora colpisce alcuni paesi, entro il 2030.

Francesco ha affermato che “L’ingiustizia e il male non sono invincibili (…) Vi prego di non dimenticarvi dei più vulnerabili(…). Abbiamo bisogno di cammini di guarigione e di salvezza. E mi riferisco a una guarigione alla radice, che curi la causa del male e non si limiti solo ai sintomi. In queste radici malate troviamo il virus dell’individualismo, che non ci rende più liberi né più uguali, né più fratelli, piuttosto ci trasforma in persone indifferenti alla sofferenza degli altri”. In una contingenza di pandemia in cui le “varianti” sono qualcosa da temere, il Papa ne ha individuata una di altro tipo. Una “variante di questo virus è il nazionalismo chiuso, che impedisce, per esempio, un internazionalismo dei vaccini”.

Un’altra variante è quando mettiamo le leggi del mercato o di proprietà intellettuale al di sopra delle leggi dell’amore e della salute dell’umanità. Un’altra variante è quando crediamo e fomentiamo un’economia malata, che permette che pochi molto ricchi, pochi molto ricchi, posseggano più di tutto il resto dell’umanità, e che modelli di produzione e consumo distruggano il pianeta, la nostra “casa comune”.(…)“Natura e persona siamo unite. Dio Creatore infonde nei nostri cuori uno spirito nuovo e generoso per abbandonare i nostri individualismi e promuovere il bene comune: uno spirito di giustizia che ci mobiliti per assicurare l’accesso universale al vaccino e la sospensione temporanea del diritto di proprietà intellettuale; uno spirito di comunione che ci permetta di generare un modello economico diverso, più inclusivo, giusto, sostenibile”.




Cos’è la cristologia? A margine di un recente libro

di Francesco Vermigli · “Voi chi dite che io sia?” chiede Gesù nei villaggi intorno a Cesarea di Filippo, al termine di una giornata di fatica apostolica e di predicazione (Mc 8,27-30; Mt 16,13-20; Lc 9,18-21). Una domanda che interpella il cuore dei suoi amici e discepoli; una domanda che li chiama a rispondere personalmente, non per sentito dire. È la domanda che Gesù rivolge ai suoi discepoli, certo; ma è anche la domanda che squarcia i secoli e attraversa i millenni, per arrivare fino a noi.

Questa domanda è la domanda della fede in Cristo: chi è per me il Nazareno? chi è per la Chiesa Gesù, comunità dei credenti in Lui? Ma è anche la domanda che rende ragione dell’esistenza di una disciplina capitale nel pensiero teologico; disciplina che introduce e permette l’accesso alle altre discipline sacre. Senza Gesù non sapremmo dell’esistenza del Padre e dello Spirito (un Dio trino) e senza Gesù non avrebbe senso parlare della Chiesa: comunità radunata nella fede in chi? Tutto, solo per fare qualche esempio circa la priorità della disciplina che tratta della persona di Gesù. La cristologia nasce proprio – che ne sia o meno consapevole – per dare una risposta riflessa, autorevole e critica al quesito che Gesù fa sulla sua identità.

Ritornano alla mente le parole lapidarie – e tuttavia che mai ci parranno legittime – di Lutero che – di fronte alla tarda Scolastica (sorta di lento e pesante pachiderma del pensiero teologico) – affermava al contrario: “Cosa mi interessano le due nature, basta che mi salvi!”. Una radicalità – quella delle parole del campione della Riforma – che potrà anche attrarre le nostre menti che hanno sempre più in uggia ogni pensiero dogmatico (perché negli ultimi anni abbiamo appreso con una certa sorpresa che di dogma la Chiesa possa pure morire…). Ma quella radicalità si basa su un assunto sbagliato: che sia indifferente chiedersi chi sia Gesù, irrilevante farsi domande sulla sua identità. Basta che mi (ci?) porti la salvezza. In effetti, come notava con arguzia e semplicità il grande cristologo belga della Gregoriana Jean Galot (vecchia scuola gesuitica, ma assai rinnovata nel metodo alla luce del Concilio), Gesù nei Vangeli non chiede mai: “cosa pensate sia a venuto a fare?”; non chiede la sua funzione nel mondo, chiede cosa i discepoli e le persone che lo circondano, pensino di Lui, cosa pensino della sua identità più intima e vera. Che poi, se ci pensiamo bene, è questa la domanda che si fanno gli innamorati: la domanda delle relazioni più vere, di chi desidera sapere cosa pensino di lui, coloro a cui egli tiene.

Per chi scrive queste righe (deformazione professionale…) è una gradita sorpresa vedere quella domanda sull’identità di Gesù in apertura di un libro chiaro e approfondito, uscito lo scorso anno. Mi riferisco a Cristologia di Daniele Gianotti; già docente alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e allo Studio Interdiocesano di Reggio Emilia, e da qualche anno vescovo di Crema (Bologna, EDB, 2020; pp. 373, € 30,00 [Fondamenta]). In senso stretto non pare possa annoverarsi tra i manuali; non ne ha forse l’ampiezza, non ne ha il carattere didascalico che spesso li contraddistingue. Si apprende dall’Introduzione che si tratta della rielaborazione delle dispense utilizzate alla FTER nello scorso decennio, in particolare per l’anno accademico 2014-2015.

Il libro appare ben calibrato, nella presentazione di alcune questioni cardine della cristologia di oggi. Ad esempio, facendo leva sugli studi affidabili e innovativi di Dunn (scomparso poco più di un anno fa), il Gianotti viene a toccare la questione annosa del Gesù storico; notando che – a differenza di quella di Gesù da cui abbiamo iniziato – la domanda sul Gesù storico è mal posta, perché parte dal pregiudizio contro la fede; che è apparsa dal XVII secolo in avanti (specie nel mondo tedesco razionalista e positivista) come una sorta di incrostazione da eliminare per recuperare la purezza della vita di Gesù. Così facendo, la pletora di testi su Gesù e su cosa egli abbia realmente detto e su cosa abbia realmente fatto, si è (quasi) sempre dimenticata che non esiste alcun accesso alla persona storica di Gesù se non attraverso i Vangeli; testi che sono impregnati nella fede in Lui, nascono dalla fede in Lui e mirano a suscitare la fede in Lui.

Prosegue poi il Gianotti tra le questioni bibliche più rilevanti, per poi passare ad altri argomenti, quelli patristici; facendo assaporare la portata delle discussioni teologiche dei primi secoli e dei primi concili. Perché, si direbbe, all’epoca dei grandi (Atanasio e i Cappadoci, Cirillo e Leone Magno, Giustiniano e Massimo il Confessore) si prendeva sul serio la domanda di Gesù sulla sua identità.

Segnaliamo infine un focus interessante e ben composto su quella che potremmo chiamare senza timore di smentita come la crux christologorum degli ultimi tempi, o forse di sempre: la questione di quale coscienza avesse Gesù della filiazione divina e della sua missione salvifica e di quale conoscenza egli avesse della cose del mondo. Qui, l’ispirazione è rahneriana principalmente: ci pare che siano quelle poche decine di pagine il passaggio più rilevante del libro da un punto di vista critico. Ancora una volta è questione di identità di Gesù: cosa sa, cosa pensa Gesù di se stesso. Nientedimeno.