Presentazione degli articoli del mese di aprile 2021

Andrea Drigani espone la lettera di Papa Francesco su Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) nel 150° anniversario del conferimento del titolo di Dottore della Chiesa, ad opera di Pio IX. Carlo Nardi propone una noterella sulla questione, di cui molti hanno scritto e molto è stato scritto, sul testo del Padre nostro, inserito, nella terza edizione italiana del Messale Romano. Antonio Lovascio anche in questo tempo di pandemia rileva il significativo ruolo del volontariato, che ha rafforzato una rete di solidarietà, in aiuto alle strutture pubbliche. Alessandro Clemenzia con la Lettera Apostolica «Candor Lucis aeternae» osserva che la drammatica ed ingiusta esperienza dell’esilio, conduce Dante nelle braccia della misericordia divina, fino a diventarne, poi, un testimone. Giovanni Campanella illustra il volume, con la prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi, che raccoglie gli atti di due convegni di studio sul prete bolognese Luciano Gherardi (1919-1999) una figura che racchiude in se interessi pastorali, teologici, storici, liturgici di notevole valore. Francesco Romano dalla domanda di Pilato a Gesù sulla «verità» sviluppa un percorso sulle varie accezioni, incomplete, di questo termine per giungere alla Verità: Gesù Cristo. Stefano Liccioli annota che dalla crisi della famiglia e del matrimonio si è passati alla crisi demografica, per respingere le paure occorre guadare all’autentica felicità: la donazione di noi stessi. Dario Chiapetti presenta il saggio «Verba scripta», introdotto dall’arcivescovo Felice Accrocca, per favorire e divulgare San Francesco con San Francesco, cioè con i suoi scritti. Stefano Tarocchi prende spunto dai trecento anni dalla nascita di Antonio Martini (1720-1809), arcivescovo di Firenze e autore della prima traduzione italiana della Bibbia, per ripercorre la storia complessa delle versioni della Scrittura nelle lingue parlate. Leonardo Salutati ritorna a tre discorsi di Benedetto XVI sul dialogo tra fede e ragione, anche in riferimento alla vita culturale europea, riscontrando che l’impegno per la ricerca delle «cose ultime» passa attraverso la relativizzazione di quelle «penultime». Gianni Cioli da un opera pittorica del Trecento fiorentino: il Trittico delle immagini dominicane, compie una catechesi pasquale dalla quale emerge che l’dea della nostra morte va considerata attraverso la morte e la resurrezione del Signore. Carlo Parenti introduce al concetto di responsabilità sociale dell’impresa, sostenuto da una parte consistente di economisti e sociologi statunitensi, che converge con diverse indicazioni del magistero pontificio. Francesco Vermigli nella circostanza del bicentenario della morte di Napoleone, con l’aiuto dell’ode di Alessandro Manzoni, svolge alcune considerazioni sulla glorie umane, che pur avendo una loro consistenza, sono destinate a scomparire dinanzi alla gloria di Dio. Giovanni Pallanti recensisce il volume degli storici Marco Pietro e Pietro Domenico Giovannoni e del domenicano Alessandro Cortesi sul rapporto, in Giorgio La Pira, tra l’annuncio evangelico e l’impegno politico. La rubrica «Coscienza universitaria» prende le mosse dal verso dantesco: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» per pensare intorno al rapporto tra scienza e fede.




La ricerca della verità punto di incontro tra fede e ragione

di Leonardo Salutati · Il magistero di Benedetto XVI è caratterizzato da un’attenzione specifica al rapporto tra fede e ragione che già da teologo il Papa aveva sviluppato nel suo lavoro di ricerca. Dal momento della sua elezione a Romano Pontefice, l’argomento è stato tematizzato in tre discorsi principali: il discorso Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni di Ratisbona (12 settembre 2006), l’allocuzione preparata per la Visita all’università “La Sapienza” di Roma e non pronunciata a causa del rifiuto di accogliere il Papa (16 gennaio 2008), il discorso per l’incontro con il mondo della cultura al “Collège des Bernardins” a Parigi (12 settembre 2008).

All’interno di queste riflessioni è possibile raccogliere alcuni elementi che li caratterizzano e che sono all’origine del carattere costitutivo del rapporto fede-ragione nel cristianesimo, ovvero: la centralità del Logos inteso come Ragione creatrice ed Amore che si fa uomo ed entra nella storia; la ricerca della verità; le radici dell’Europa plasmate dal modo di vivere e di pensare del monachesimo; il ruolo dell’università; il rapporto tra filosofia e teologia; la tensione tra il legame di intelletto-amore e libertà.

Il tema della centralità del Logos viene trattato nel discorso di Ratisbona ed in quello di Parigi. A Ratisbona il Papa parte dall’affermazione che non agire secondo ragione, secondo il Logos, è contrario alla natura di Dio, perché la ragione, la razionalità, sono costitutivi di Dio, il quale si è incarnato in Gesù, un fatto che ha cambiato per sempre la storia. Inoltre, il Logos/ragione è Amore e pertanto rivela l’unità esistente tra intelletto e cuore.

Nel discorso di Parigi, in cui il tema del Logos è trattato in rapporto a quello della comunità (il riferimento storico è ai monaci, ma per estensione Benedetto XVI intende l’intera comunità cristiana), il Papa ricorda che l’ascolto della Parola di Dio introduce alla comunione tra i fedeli, i quali solo mediante un impegno comune possono giungere alla verità che la Parola trasmette. L’ascolto e la comprensione della Parola è un atto fisico e spirituale insieme, proprio come Gesù, Logos incarnato, vero uomo e vero Dio, Ragione creatrice e salvifica, che si comunica alla ragione umana in modo che questa possa comprenderla.

Trattando del ruolo delle scienze e dei rapporti tra di esse, ricorda che carattere distintivo della scientificità è l’obbedienza alla verità e che la ricerca scientifica deve essere guidata dalla verità, perché lo scopo della ricerca è la soddisfazione del desiderio di conoscere la verità presente in ogni essere umano. Proprio perché i primi cristiani hanno riconosciuto che il Dio in cui credevano è verità ed hanno fatto propria la metodologia dell’interrogare socratico, sono nate in seno al cristianesimo le università.

Alla luce di queste considerazioni, il Papa si domanda come sia possibile che, dopo tutta la speculazione medievale, dopo la fioritura delle dimensioni del sapere in epoca moderna, oggi l’uomo si arrenda nei confronti della questione della verità. Con questo atteggiamento la ragione è piegata all’utile, la filosofia ridotta a positivismo, la teologia confinata nell’ambito dell’interesse privato e la scienza si trasforma in ideologia sedicente onnicomprensiva. La ragione è più piccola e la cultura europea, che su questa razionalità è stata costruita, va in frantumi (M. Coatti).

Del Vecchio Continente e delle sue radici parlano tutti e tre i discorsi, ma in particolare è nel discorso di Parigi che si sviluppa con precisione il tema, quando si ricorda che, in un periodo storico estremamente difficile e culturalmente decadente, i monaci riuscirono ad edificare una nuova cultura e una nuova civiltà, custodendo allo stesso tempo quella antica. In realtà questo risultato non era immediatamente ricercato. Quei religiosi desideravano semplicemente cercare Dio, la Vita eterna, ma poiché la ricerca di Dio richiedeva la cultura della parola, allora i monaci si resero conto dell’importanza delle scienze profane. Ecco allora che l’obiettivo delle scuole dei monasteri fu quello di educare la ragione per renderla capace di accogliere la fede.

Di conseguenza, rileva il Santo Padre, l’Europa è stata costruita con atteggiamento veramente filosofico, ovvero attraverso l’impegno di ricercare le “cose ultime”, relativizzando quelle “penultime”. Per cui un’Europa che considerasse la ricerca di Dio una perdita di tempo, e che valutasse il suo passato come un giogo di cui liberarsi, sarebbe destinata a dissolversi lentamente e tragicamente.

Benedetto XVI definisce fede e ragione una “coppia di gemelli” tra i quali non ci deve essere né distacco, né confusione, in modo tale che filosofia e teologia, operando entrambe secondo ragione, possano aiutarsi e chiarificarsi reciprocamente. In questa prospettiva il discorso preparato per “La Sapienza” sviluppa il tema dell’allargamento degli orizzonti della razionalità, come modalità per poter affrontare le sfide del presente e del futuro, sulla scorta dell’esempio lasciatoci dai primi secoli del cristianesimo e dall’età medievale, quando filosofia e teologia operavano fecondamente insieme.

È di fondamentale importanza, allora, come cristiani, prendere esempio dalla tensione per la ricerca della verità guidata dalla ragione, che ha caratterizzato non solo i monaci medievali, ma generazioni di cristiani, per dare il proprio contributo al meraviglioso edificio che è la cultura europea, ma anche per potersi confrontare con ogni uomo e donna di oggi, che ancora non hanno incontrato il Cristo ma che, a loro volta, sono alla sincera ricerca della verità.




L’arcivescovo fiorentino Antonio Martini e la sua traduzione italiana della Bibbia 

di Stefano Tarocchi • Fra i vari anniversari che il tempo della pandemia ci ha sottratto, credo vada evidenziata la nascita nell’aprile 1720 di Antonio Martini, arcivescovo di Firenze, morto nel 1809. I suoi studi a Prato e a Pisa, dove si laureò in utroque iure nel 1748, lo portarono fino alla soglia della cattedra di diritto canonico nell’Università di Torino. Divenne invece direttore del Collegio di Superga.

Nel 1757, l’anno precedente la sua morte, Benedetto XIV, già cardinale Prospero Lambertini, arcivescovo di Bologna, pubblica un decreto che annulla il divieto di leggere la Bibbia in italiano: venivano consentite la stampa e la lettura di versioni italiane della Vulgata, a condizione che esse fossero «ab apostolica sede approbatae, aut editae cum annotationibus desumptis ex sanctis Ecclesiae Patribus vel ex doctis catholicisque viris».

Il papa si sarebbe rivolto al cardinale Carlo Vittorio Amedeo Delle Lanze, prefetto della Congregazione del Concilio – antenata della Congregazione per il clero – , per sollecitare una traduzione in lingua italiana della Sacra Scrittura e, a sua volta, il cardinale pensò al Martini, e alla sua preparazione culturale, oltre che alla sua nativa conoscenza della lingua italiana, data dall’origine toscana. La stima del delle Lanze era condivisa anche dal conte Carlo Luigi Caissotti, Primo Presidente del Senato, poi Gran Cancelliere di Corte (Giovannoni).

Tra il 1769 ed il 1781 uscivano i volumi del Nuovo Testamento e nel 1781 sarebbe terminata la pubblicazione dell’Antico (1776-81). L’edizione del Martini venne stampata in varie edizioni, fino ad uscire con il testo latino a fronte, introduzioni storiche ed annotazioni tratte dalla letteratura patristica. Sarebbe stata utilizzata fino alla prima metà del Novecento. Martini per il Nuovo Testamento prese come base il testo greco, ma in alcuni passaggi preferì la lezione dalla Vulgata; per l’Antico Testamento, pur traducendo dalla Vulgata, ricorse a volte al testo ebraico con l’aiuto del rabbino di Firenze.

Terminata l’opera, in segno di riconoscenza, l’allora re di Sardegna Vittorio Amedeo III volle Martini vescovo di Bobbio. Mentre si recava a Roma per la consacrazione, intese rendere omaggio al granduca di Toscana Pietro Leopoldo. Questi fu colpito dalla sua personalità e lo volle alla guida della diocesi fiorentina, rimasta vacante per la morte dell’arcivescovo Francesco Gaetano Incontri. La stima del granduca intendeva favorire l’opera di riforma della chiesa in Toscana che questi aveva intrapresa. Lasciamo agli storici di professione l’approfondimento di questo complesso capitolo dell’episcopato di Martini, che si accompagna a quello del vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci, esponente del movimento del giansenismo.

Il 1781, anno della sua nomina ad arcivescovo di Firenze, vede anche il completamento della traduzione della Bibbia dal latino della Vulgata all’italiano: tutti possono così leggere la Parola di Dio. Questa versione, l’unica in quei tempi integralmente in italiano e riconosciuta come testo della nostra lingua dal vocabolario della Crusca, ebbe numerose edizioni fino a quella del 1907, pubblicata in due grossi volumi (Marconcini), e fu diffusa anche in ambito protestante, accanto alla celebre traduzione italiana del Diodati (la cui prima edizione fu pubblicata a Ginevra nel 1607, e che Martini non stimava molto…).

Nel 1771 Il Papa Pio VI approva la traduzione del Martini, anche se il suo successore Pio VII, che aveva scomunicato Napoleone Bonaparte, include anche la traduzione di Martini nell’indice dei libri proibiti (1811), che era stato riformato in precedenza da papa Lambertini.

Dopo due secoli di silenzio sulla questione, dobbiamo aspettare la metà del secolo scorso per riaprire la questione. È così che dobbiamo giungere fino a Papa Pio XIII con l’enciclica Divino Afflante Spiritu (1943), che così si esprime: «per uso e profitto dei fedeli e per facilitare l’intelligenza della divina parola, si facciano traduzioni nelle lingue volgari, e precisamente anche dai testi originali» (§1).

È vero che negli anni ‘30 del secolo scorso c’erano state due traduzioni in lingua italiana, in particolare quella dell’abate Ricciotti, ma solamente con il papa Pacelli comincia quel processo che porterà alle più importanti traduzioni nella nostra lingua, a cominciare da quella di padre Vaccari, del Pontificio Istituto Biblico (1958) e a quella, insuperata di Fulvio Nardoni (1960) – tacciata da alcuni (per invidia?) di eccessivi fiorentinismi – , che precedono le traduzioni di Garofalo (1947-1960), a più mani, come quella di Enrico Galbiati, Angelo Penna e Piero Rossano (1964), che servì come base alla traduzione della Conferenza Episcopale Italiana (uscita nel 1971 e rivista nel 1974) e la traduzione curata di Settimio Cipriani, con l’aiuto di biblisti di più confessioni (1968), la “Bibbia concordata”, che tuttavia non ebbe il successo sperato.

Ma nel frattempo era intervenuto il magistero del Vaticano II, che nella Dei Verbum così dice: «la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza (praesertim) a partire dai testi originali dei sacri libri» (DV 22).

Come già Pio XII parlava di traduzione «anche dai testi originali», anche il Vaticano II muove dallo stesso assunto, quasi spaventato dal timore di abbandonare la Vulgata di san Girolamo. Sebbene la Vulgata resti insuperabile – di fatto completa il processo rendere la parola di Dio alla portata della lingua comunemente usata e, non fosse altro che per l’operazione culturale che ha rappresentato – non può essere deputata a prendere il posto di una lingua sacra. Peraltro, non sappiamo neppure quali testi originali avesse a disposizione.

Al tempo stesso non ci si deve accontentare del testo stabilito da Erasmo da Rotterdam (il cosiddetto textus receptus: 1516), che fu la base dalla traduzione del monaco agostiniano Martin Lutero in lingua tedesca.

Naturalmente il lavoro da compiere sulle lingue originali dovrà tenere conto della scienza della critica testuale, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, e soprattutto dei testimoni testuali greci, con tutta loro complessità.

Resta l’importanza dell’arcivescovo fiorentino Antonio Martini e del prezioso lavoro che ha compiuto, che in qualche maniera anticipa un fatto a tutt’oggi imprescindibile e tuttavia mai compreso interamente in tutta la sua portata: così scrive san Girolamo nel commento al profeta Isaia: «se secondo l’apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e Sapienza di Dio, e chi non conosce le Scritture non conosce la potenza di Dio e la sua sapienza, ignorare le Scritture è ignorare Cristo».




Il volto della povertà e gli artigiani della misericordia

di Antonio Lovascio · Meritano di salire sul podio della riconoscenza pubblica, subito dopo le centinaia di migliaia di medici ed infermieri che da più di15 mesi sono in trincea negli ospedali e nelle terapie intensive per salvare vite umane dal Covid, sacrificando o comunque mettendo in pericolo anche la loro. Sono quelli che Papa Francesco chiama gli “artigiani della Misericordia”, uomini e donne impegnati nel variegato mondo del volontariato (calcolati dall’Istat in oltre 7 milioni, ma forse sono molti di più) che in questa catastrofica emergenza pandemica offrono alle istituzione un supporto incalcolabile ed allo stesso tempo insostituibile. Ben visibili con le loro azioni dietro le sigle delle organizzazioni cattoliche e laiche, anche se la “macchina” delle vaccinazioni prioritarie spesso ha dimenticato gli operatori delle ambulanze. Nelle diverse condizioni del bisogno ogni giorno coniugano con i fatti, con le loro mani, con l’ascolto, con la vicinanza, con le carezze, quella solidarietà – sono parole di Bergoglio – che “ esprime concretamente l’amore di Dio non come un sentimento vago, ma come determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune, ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”. Solidarietà con chi soffre, con i malati, i poveri e gli indifesi. Portata avanti in silenzio da chi è mosso da valori religiosi o da chi, nell’aiutare gli altri, trova anche una risposta al bisogno di socialità.

Non si tratta di un mondo fantastico e immaginario, ma di “gente vera” che combatte senza sosta con gli unici strumenti che ha: il cuore, la mente e quella passione per un servizio che va oltre ogni cosa. Grazie a questa “rete” abbiamo potuto tracciare i reali e complessi volti della povertà: sanitario, alimentare, educativo, lavorativo, abitativo, relazionale.

Se prima dell’emergenza Covid-19 secondo l’Istat in Italia si contavano 4,6 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta ( il 7,7% della popolazione residente, pari complessivamente a 1,7 milioni di famiglie), alla fine del 2020 sono aumentate di un milione attestandosi poco al di sotto dei sei milioni. E aumenteranno ancora di più – avverte la Caritas – con il protrarsi della pandemia e l’esplosione della crisi economica, quando finirà il blocco dei licenziamenti ed il sostegno della Cassa integrazione. Il quadro che si ricava dalle statistiche – alle quali si rischia purtroppo di fare una certa assuefazione – già evidenzia situazioni che vanno ben al di là delle famiglie numerose. Cresce la componente italiana. Tra i “nuovi poveri” si affacciano per la prima volta persone che hanno un’occupazione (nel settore turistico o della ristorazione, del commercio e dello spettacolo) e pure piccoli imprenditori che bussano per chiedere cibo o comunque aiuto per il pagamento delle bollette o dell’affitto. Si trovano sempre più giovani single e coniugati (con un picco rilevante tra i 35 ed i 44 anni) e questo spiega l’impatto devastante che la pandemia ha avuto sulla natalità. Nel 2020, con una forte riduzione dei movimenti migratori, si è purtroppo registrato un nuovo minimo storico di nascite (sedicimila in meno) dall’unità d’Italia, un massimo storico di decessi (quasi 112 mila in più rispetto al 2019). Ecco quindi spiegato perché al 31 dicembre scorso la popolazione residente in Italia era inferiore di quasi 384 mila unità rispetto all’inizio del 2020. Come se fosse sparita una città grande quanto Firenze.

La sfida demografica, dunque, anche alla luce dell’ultimo Rapporto Istat, si fa sempre più complessa e richiede da parte del Governo una riflessione ampia ed interdisciplinare, sempre più drammaticamente urgente ma purtroppo trascurata, sulle possibili vie per aiutare e sostenere le famiglie che desiderano avere figli. Proprio dal Volontariato che lavora in prima linea è partito l’invito a non sottovalutare l’evoluzione della crisi socio-economica ed a ripensare tempestivamente nuove e mirate misure d’intervento. Serve, come ha chiesto la Caritas, un passo in più, dopo che si è consolidata una ricchissima rete di solidarietà. Serve un coordinamento, perché le richieste di aiuto aumentano, le risorse messe a disposizione dai territori sono tante, ma se nei prossimi mesi non verranno adeguatamente gestite, potrebbero non essere sufficienti per una presa in carico integrata dei “nuovi poveri”.




Responsabilità sociale dell’impresa e magistero papale.

di Carlo Parenti · Un mio anziano amico, già direttore generale e amministratore delegato di alcune tra le primarie compagnie di assicurazione italiane, mi ha confessato che nel corso della sua vita ha spesso ripensato a suo padre, il quale temeva che fosse troppo sensibile e quindi potesse essere fuorviato da persone poco corrette e a sua madre, che gli insegnava ad avere rispetto per chi era più anziano di lei (mi viene in mente il tema caro a Francesco sull’importanza dell’insegnamento dei nonni). Ambedue gli hanno trasmesso principi indelebili di rettitudine e di onestà. Tali insegnamenti gli sono tornati alla mente negli anni, quando ha dovuto prendere atto che ai vertici delle Società spesso arrivavano persone non adeguate né sul piano etico né su quello professionale. Esse manifestavano la costante volontà di realizzare disegni immaginati soprattutto per produrre interessi personali, comunque particolari a vantaggio solo di pochi, indipendentemente dalle ricadute sull’azienda e sui lavoratori. Oggi , quando ha raggiunto gli 83 anni, può dire che la corazza costruita su di lui da suo padre, con il suo illuminato esempio, è stata sufficiente a respingere ogni attacco, anche quelli più pericolosi. Si è convinto, alla fine, che l’integrità ha un prezzo, ma che questo prezzo, per quanto alto sia, vale sempre la pena pagarlo. E posso testimoniare che ha personalmente molto “pagato” per salvare aziende da mani rapaci di furfanti travestiti da illuminati manager. Senza arricchirsi! E subendo ingiustizie.

Può sembrare che questo sia un discorso da libro Cuore, il romanzo ottocentesco di Edmondo De Amicis, che tratta col linguaggio del tempo, anche in modo paternalistico, di forti valori morali, familiari, fraterni, di relazioni sociali solidaristiche ed eque. Può sembrare…e Roberto se ne rende conto a costo di apparire patetico e nostalgico!

Ma il richiamo ai principi e alla correttezza ed equità nelle relazioni è in realtà molto moderno e anche nel mondo delle imprese si è finalmente fatto largo e se ne è compresa l’importanza. Mi riferisco primariamente  ai principi di Corporate Governance, cioè agli elementi propri di un corretto governo societario che includono principi come onestà, fiducia, apertura mentale, orientamento ai risultati, responsabilità, rispetto reciproco e impegno nella società.

È importante quindi che la direzione e il management sviluppino un modello di governo che allinei i valori dei vari partecipanti della società, e che provveda a un controllo periodico – anche attraverso funzioni quali la Compliance, il Risk Management, l’Audit – dell’efficienza del modello. In particolare, il senior management deve impegnarsi in maniera etica e onesta, soprattutto di fronte a conflitti di interesse reali o apparenti. Vanno garantiti diritti e trattamento equo degli azionisti. Si deve  assicurare a tutti i soggetti, individui od organizzazioni, attivamente coinvolti nella attività d’impresa (stakeholder quali, ad esempio – oltre ai soci di maggioranza e minoranza – lavoratori dipendenti, collaboratori autonomi, clienti, fornitori, parti sociali, finanziatori). il rispetto dei loro interessi. Va quindi usata chiarezza  e verità nei report finanziari, equità e proporzionalità nelle retribuzioni, attenzione reale ai bisogni dei clienti e al rispetto dell’ambiente naturale e sociale. Tutto questo ha significativamente trovato ulteriore spazio nel concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa. Cioè  l’idea che – dopo quelle economiche – le performance e le esternalità sociali delle aziende siano qualcosa di imprescindibile. E molte realtà imprenditoriali si sono interrogate in maniera sempre più attenta e puntuale sul proprio ruolo all’interno della società. Proprio in questo solco nell’agosto 2019 le grandi corporation della “Business Roundtable” – associazione che riunisce i vertici di alcune delle principali imprese USA – hanno sottoscritto un documento attraverso il quale i loro manager si sono impegnati a ripensare le proprie decisioni in base all’impatto che queste possono avere sull’ambiente e sulle comunità locali.

Una “dichiarazione d’intenti” condivisa da ben181 tra i più importanti “colossi” americani (quali Amazon, Google, General Motors, JPMorgan, Johnson & Johnson, Apple, Boeing, etc), che, inoltre, si focalizza anche sul citato rapporto tra le imprese e i loro stakeholder, sia interni che esterni, impegnando i vertici delle corporation ad agire in maniera corretta ed etica nei loro confronti, nel pieno rispetto dei dipendenti, dei fornitori e dei consumatori.

La dichiarazione contiene tre punti fondamentali.

In primo luogo le multinazionali si impegnano a sviluppare una supply chain (catena di distribuzione) etica: ciò comporta maggiore attenzione verso tutti i fornitori e, ovviamente, verso tutte le piccole e medie imprese che interagiscono a vari livelli con queste grandi società. Il secondo punto è dedicato ai dipendenti, che vanno valorizzati promuovendo politiche di formazione continua e iniziative di welfare, come sanità integrativa e previdenza complementare. L’ultimo aspetto riguarda le comunità locali: l’impegno è quello di supportare e promuovere le realtà in cui le aziende operano, anche (e soprattutto) sotto il profilo ambientale.

Tutto questo segna un evidente punto di discontinuità all’interno della cultura liberale e di mercato che, finora, ha sempre sostenuto e insegnato che l’impegno dell’impresa è innanzitutto nei confronti dei propri azionisti: produrre utili, distribuire dividendi, massimizzare il valore d’impresa per gli shareholders. Poco spazio quindi alla responsabilità sociale d’impresa. So che negli ultimi 15 anni le aziende Usa hanno distribuito ben il 94% dei profitti agli azionisti.

Oggi invece- e speriamo che siano fatti e non parole– si afferma che “I datori di lavoro stanno investendo nei lavoratori e nelle comunità perché sanno che questo è l’unico modo per avere successo a lungo termine”. Così il capo della “Business Roundtable“, che è l’amministratore delegato di JPMorgan Chase & Co., la più grande banca al mondo. Ciò nell’ottica della sostenibilità, responsabilità sociale, ecologia integrale, economia circolare.

Concetti al centro della Laudato Sì di papa Francesco, che sul tema si è più sinteticamente espresso in una intervista (vedi) al Sole 24 Ore del 7 settembre 2018. Una vera e fondamentale lezione di gestione d’impresa.

Vi sono indicazioni importanti. Riprendono appunto i fondamentali temi della sua enciclica “Laudato si’” -sulla “cura della casa comune”- per lavoro e dignità, persona, sviluppo e giustizia sociale e della “Evangelii Gaudium” (“La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita”, nel contesto di una ‘economia giusta’ che sappia andare oltre ‘il feticismo del denaro’”). E rilanciano in modo nuovo i grandi temi del rapporto tra la Chiesa e l’economia, dalla “Gaudium et spes” del 1965 alla “Populorum progressio” di Paolo VI del marzo 1967 sino alla “Caritas in veritate” di Benedetto XVI del giugno 2009, sulla grande traccia della “Rerum novarum” di Leone XIII del 1891, le radici della “dottrina sociale” della Chiesa.




E se il profumo del pane non piacesse più? Considerazioni sul valore di famiglia e figli per i giovani

di Stefano Liccioli · In questi giorni il Parlamento italiano ha dato finalmente il via libera all’assegno unico e universale mensile per i figli under 21 dal valore massimo di 250 euro. Una misura attesa da molti anni e che dovrebbe favorire la genitorialità, promuovere l’occupazione ed incoraggiare la natalità, in un momento come quello presente in cui il numero di nati in Italia nel 2020 è stato ai minimi storici (404 mila). Ci sono ancora delle insidie per questa legge come la definizione dei decreti attuativi o il reperimento delle coperture che ancora non sono state stanziate tutte, ma l’approvazione prima da parte della Camera dei deputati e poi del Senato è stato un passo importante.

Più o meno tutte le forze politiche si stanno attribuendo la paternità di questo provvedimento (sacrosanto e ragionevole, probabilmente tardivo), ma il merito deve essere attribuito soprattutto, a mio avviso, al Forum delle associazioni familiari ed all’impegno del suo attuale presidente Gigi De Palo. Questi, tra le altre cose, ha affermato in più occasioni che per suscitare nei giovani il desiderio di costruire una famiglia e di avere dei figli occorre far sentire il “profumo della famiglia”. In sintesi, il ragionamento è sviluppato con una similitudine con il pane: è il suo profumo che ci fa venire la voglia di mangiarlo e non conoscere nel dettaglio gli ingredienti che lo formano. Non basta dunque parlare in astratto degli elementi che caratterizzano una famiglia (l’amore, l’apertura alla vita, l’educazione dei figli) per farne apprezzare la bellezza, ma occorre offrire esempi concreti di questa bellezza che pertanto non solo è possibile, ma anche realizzabile. Si tratta di una strategia efficace, a mio parere, radicata nella convinzione che “le parole ammoniscono, ma solo gli esempi trascinano”.

Da qualche tempo mi sto però domandando se, tanto per rimanere nella similitudine, il profumo del pane piaccia ancora alle nuove generazioni. Infatti, confrontandomi spesso con adolescenti e giovani percepisco come molti di loro non considerino una priorità per il loro futuro quella di creare una famiglia e tanto meno avere dei figli. Si direbbe che non abbiano più olfatto per odorare il profumo della famiglia o che quest’ultimo sia coperto da altre fragranze.

A confermare questo mio timore ci ha pensato una recente indagine della Fondazione Donat-Cattin secondo cui solo il 32% dei giovani tra i 18 ed i 20 anni s’immagina, nel proprio futuro, in coppia con figli, il 31% si vede invece in coppia senza figli ed il 20% single senza figli. Oltre la metà dunque del campione intervistato non sogna di diventare genitore. La ricerca della Fondazione analizza anche i motivi per cui i ragazzi e le ragazze non vogliono avere figli. Quello principale (per il 27%) è il desiderio di “vivere alla giornata”, seguito (per il 12%) dalla voglia di sentirsi indipendenti e dalla preoccupazione dei costi economici per i figli (per l’11%). Altre ragioni sono il non volere responsabilità, la mancata fiducia nel futuro e nelle relazioni stabili, la priorità data alla carriera. Aggiungerei che l’esempio dato dagli adulti non è incoraggiante, in tal senso: si mettono in evidenza le rinunce ed i sacrifici fatti per i figli, dimenticando che il “sacrificio” è, etimologicamente, ciò che rende sacro quello che facciamo ed è tutto al più la “fatica dell’amore”.

Annoterei pure a margine il fatto che le gravidanze mi sembrano sempre più accompagnate da un forte carico d’ansia sia nei padri che nelle madri, dovuto, secondo me, ad una marcata medicalizzazione di questo percorso (quasi fosse una malattia) che rischia di creare troppo stress e di non favorire il mettere al mondo più bambini o bambine. E’ una valutazione quest’ultima che non riguarda ovviamente il campione considerato (giovani dai 18 ai 20 anni), ma può contribuire a spiegare il motivo per cui le coppie italiane si limitino spesso ad avere un solo figlio, incrementando così il fenomeno della denatalità.

In base a queste riflessioni possiamo concludere che se la generazione del Sessantotto ha messo in discussione il valore della famiglia come istituzione, i figli ed i nipoti di quella generazione stanno ora mettendo in discussione il valore di avere una prole e ciò ha una ricaduta ancor più nefasta sul futuro del nostro Paese rispetto al primo atteggiamento.

Per contrastare questa deriva non basta dunque il sostegno economico (comunque fondamentale) dato alle famiglie. Non basta neanche far sentire in generale il “profumo della famiglia” giacché ci sono altri odori che tentano di coprirlo. E’ necessario tornare a far apprezzare questa fragranza in un rapporto personale e di prossimità con i giovani, ascoltando le loro paure di fronte al futuro, abitando le loro domande, mostrando che la felicità non sta in modelli di vita egoistici e autoreferenziali, ma nella donazione di se stessi. Per dirlo in una parola è indispensabile recuperare la dimensione del discernimento vocazionale che era stata correttamente tematizzata nel Sinodo dei vescovi sui giovani del 2018 e che spero non sia stata archiviata una volta concluso il Sinodo.




Riflessione sulla Pasqua in tempo di pandemia: il messaggio del «Trittico del Maestro delle immagini domenicane» (sec. XIV)

di Gianni Cioli • La pandemia ci ha costretti a guardare in faccia la morte e a prendere coscienza della fragilità umana. La Pasqua del Signore che celebriamo all’inizio di questo mese di aprile ci ricorda che la morte non è però l’ultima parola e che la fragilità, con l’esperienza dei nostri limiti, può divenire una risorsa se ci rammemora quello che i nostri deliri di onnipotenza ci fanno facilmente e troppo spesso dimenticare, ovvero che solo il Signore ci può salvare. Il vero problema non è tanto quello del rischio di dover affrontare la morte, bensì quello del rischio di non voler affrontare la vita, sprecandola nell’autoreferenzialità.

Maestro delle immagini domenicane (sec. XIV), Trittico con Madonna in trono, crocifissione, apparizione del Risorto alla Maddalena (Noli me tangere) e Leggenda dei tre vivi dei tre morti, (particolare). Attuale collocazione sconosciuta.

Per riflettere sul messaggio della Pasqua vorrei prendere in esame un’opera pittorica del Trecento fiorentino piuttosto sconosciuta: il Trittico del Maestro delle immagini domenicane. Si tratta di un piccolo tabernacolo dipinto nel quale è raffigurata nella parte centrale la Madonna in trono circondata dai santi; nell’anta sinistra è rappresentata la crocifissione e in quella destra l’apparizione del Risorto a Maria Maddalena. Un particolare che non può sfuggire all’attenzione dell’osservatore è che, mentre la scena della crocifissione fra i dolenti occupa l’intera anta sinistra, quella dell’apparizione, nell’anta destra, sormonta un’altra scena, forse di difficile comprensione per l’osservatore moderno, ma ben conosciuta da quello medievale: tre bare aperte e allineate in primo piano, con dietro un uomo che presenta e indica un documento scritto. Si tratta di una singolare variante della raffigurazione dell’incontro dei tre vivi e de tre morti, una leggenda assai in voga nel medioevo e che in alcune raffigurazioni pittoriche venne utilizzata come elemento di contrappunto alle immagini più espressive della speranza cristiana, soprattutto immagini della crocifissione e immagini mariane. Il messaggio della leggenda era

tanto semplice quanto impattante. I morti ricordavano infatti ai vivi: “noi fummo come voi, voi sarete come noi”. Mi è venuta in mente quest’opera, fra le tante altre che illustrano un’apparizione del Risorto perché le bare allineate nel dipinto mi hanno ricordato le tante bare dei morti per il coronavirus che, da un anno a questa parte, abbiamo visto con turbamento e commozione attraverso i mezzi di comunicazione. Spero che l’abbinamento di questa immagine orribile alla scena dell’incontro di Maria di Magdala con il Signore che l’aveva guarita e continuava a guarirla, ci aiuti tutti, non a rimuovere il lutto, ma appunto a guarirlo riconoscendo che Gesù è vivo e chiama anche ciascuno di noi per nome, come chiamò per nome Maria Maddalena il giorno di Pasqua (Gv 20,16). Ci chiama per liberarci dall’angoscia della morte e per guarirci dall’autoreferenzialità che ci impedisce di vivere appieno, ovvero dal peccato.

L’uomo medievale a cui queste immagini erano rivolte ha conosciuto pandemie altrettanto terribili rispetto alla nostra avendo anche meno mezzi di cura a disposizione. Ma certo aveva su di noi un vantaggio: sapeva confrontarsi meglio di noi con la morte, sapeva guardarla in faccia e sapeva convivere con la sua eventualità. Soprattutto sapeva considerare meglio di noi l’idea della morte – della la morte in genere e dell’eventualità della propria morte in specie – attraverso la memoria della morte e della risurrezione del Signore. Se vogliamo trarre fuori qualcosa di positivo da questa terribile esperienza della pandemia, dovremmo forse lasciarci un po’ insegnare dall’uomo medievale, anche – e perché no? – attraverso la forza estetica delle sue produzioni artistiche, questa capacità di abbinare le cose più belle e degne di speranza perfino alle cose più indesiderabili e dolorose.




«I Padrenostri di questi tempi»


di Carlo Nardi · Su questo argomento molti hanno scritto e molto è stato scritto. Ecco una mia noterella.

Voglio offrire un pensiero che mi stuzzica la mente. Penso al vecchio Padre nostro con … e non c’indurre in tentazione, modificato adesso nel nuovo messale con … e non abbandonarci alla tentazione.

In verità, questa nuova traduzione non mi sconfinfera. Il salto di resa nelle due versioni è grande: in effetti, quei due verbi ‘indurre’ e ‘abbandonare’ sono due cose diverse. Forse vicine, ma non mi sento di dire di più. A questo riguardo rimando al dotto libro di Alberto Maggi (Padre dei poveri: 2. Il Padrenostro. Traduzione commento dal Vangelo di Matteo, Cittadella Editrice – Assisi, terza ristampa, febbraio 2018), il quale presenta un condivisibile studio sui testi della preghiera (pp. 137-151). In particolare, egli traduce il versetto in questione (Matteo 6,13a) col verbo “introdurre”, che rende il senso del greco eisférein, “portare/spingere verso”. Al contrario, non appare nel testo originale l’idea di un “abbandono”, per quanto essa possa sembrare a prima vista più consolante. Di fronte all’importanza di questa preghiera per il Cristianesimo, mi pare che si dovrebbe andare assai cauti, anche sulla scorta di Dei verbum 10: “la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime”. D’altronde, rispetto a questo imbarazzo nei riguardi del Vangelo, mi viene da domandarmi: vogliamo forse essere più cristiani di Cristo?




Lo spirito del mondo a cavallo. Napoleone a 200 anni dalla morte

di Francesco Vermigli · Quando troverete questo articolo pubblicato nella nostra rivista online, mancherà circa un mese a quel giorno fatidico, immortalato dalla celebre ode del Manzoni; scritta di getto in poche ore, alla notizia della morte del grande condottiero e generale. Qualche settimana ancora e saranno 200 anni da quel giorno a Sant’Elena. E – ce lo domandiamo con lo stesso don Lisander – “fu vera gloria?” Lo confessiamo: a noi, che posteri già lo siamo, ci vien meno il coraggio di rispondere a una tal domanda.

Si racconta che poche ore prima della battaglia decisiva, quella che avrebbe messo fine alla sua vita grandiosa – lasciandolo sotto osservazione di una scorta armata inglese fino alla morte, a migliaia di chilometri dalle coste francesi, nel più profondo Oceano Atlantico – fu preso da un moto di disprezzo per le doti di stratega del duca di Wellington e al mattino disse che alla sera sarebbe stato a Bruxelles. A Bruxelles non ci arrivò né quella sera né poi. E il nome di quel villaggio – alle porte meridionali della città, che oggi è città europea per eccellenza – sarà usato per antonomasia per dare un nome ad ogni disfatta: che ciò avvenga in politica, in guerra o nello sport. Poi arriverà la nostra Caporetto a condividere con Waterloo la triste nomea di luogo della sconfitta più assoluta e inappellabile. Anzi, a Waterloo di più: visto che fine fece quel gran condottiero; mentre i resti di quell’esercito che era disceso con arroganza per le valli giuliane e friulane e trentine – ce lo ricorda il Diaz – quelle stesse valli le dovette risalire in disordine e senza speranza. Ma questa è un’altra storia.

Avrà avuto ragione Napoleone nel disprezzare il generale nemico, facendo passare l’idea che in condizioni normali lo spirito del mondo – che Hegel aveva visto come incarnato a cavallo, nella figura di quel piccolo generale corso – lo avrebbe davvero portato a Bruxelles? Che sia stata una cattiva luogotenenza sul campo, che siano state le truppe fresche ma raccogliticce o che sia stato il fato, lo spirito del mondo non lo condurrà mai a Bruxelles e lo disarcionò, come i cavalli disarcionano i fantini che non riconoscono più.

Ma che spirito era lo spirito incarnato da quel fantino a cavallo? È lo spirito della modernità giacobina; anche se poi egli seppe far fuori ogni velleitarismo della purezza rivoluzionaria: e tra le mani del bonapartismo al giacobinismo accadde quel che accadde al povero Trockij, quando gli capitò di incappare nello stalinismo più ferreo e realista. Lo spirito di Napoleone è l’anima borghese e liberale della Francia che non passerà mai più, e che sopravvisse nell’epoca della Restaurazione; come siglato in quella celebre esclamazione attribuita al Guizot, con la quale si invitavano i francesi a fare della propria vita un’occasione di profitto e di crescita materiale: “Arricchitevi!”

È lo spirito della razionalità giuridica, lo spirito cioè del suo Codice civile, articolato e organizzato a disciplinare ogni ambito della vita degli uomini; ma anche lo spirito della macchina burocratica e amministrativa capillare dello Stato napoleonico. È lo spirito della fine dei privilegi sociali e fiscali dell’antico regime. È lo spirito che accetta la vita religiosa, come si accettano le cose vecchie e per quanto esse sono di nostra utilità.

Eppure quello spirito del mondo, stanco del suo mentore, lo abbandonò innanzitutto nelle sconfinate steppe sarmatiche; prima ancora che a Waterloo. Lo stratega geniale e che portava con sé lo slancio di un’intera rivoluzione, lentamente si spense prima guardando dal Cremlino le fiamme di una Mosca solo in apparenza da lui conquistata e poi nella lunghissima ritirata nel minaccioso approssimarsi dell’inverno. E ciò che sarebbe successo alle truppe dell’Asse dopo Stalingrado, accadde a Napoleone tra il gelo e le imboscate dell’esercito zarista, fino al catastrofico attraversamento della Beresina.

E allora, ce lo domandiamo ancora una volta con il Manzoni, come abbiamo fatto all’inizio: “fu vera gloria”? Le nostre incapacità e le nostre titubanze dinnanzi ad una tale domanda restano immutate. Certo noi vediamo che fu la sua vita un dramma. Come è il dramma degli uomini geniali e dei grandi. Un dramma della supponenza e dell’intelligenza, un dramma dell’onore. Il dramma dei grandi, che poi sono anche i più soli.

In una strofa della sua ode il Manzoni se lo immagina a mani incrociate a scorgere l’orizzonte al declinar del giorno, schiacciato dalla nostalgia dei ricordi: «Oh quante volte, al tacito / morir d’un giorno inerte / chinati i rai fulminei / le braccia al sen conserte, / stette, e dei dì che furono / l’assalse il sovvenir!» (vv. 73-78). Il destino dei grandi, un destino che sa di nostalgia e di malinconia, di occhi che vorrebbero infiammare l’aria, ma che si chinano alla rassegnazione. È il destino dei grandi, che hanno cavalcato la storia come se fosse stato un puledro addomesticato e obbediente e si ritrovano alla fine caduti, come se quello spirito del mondo avesse deciso di trasmigrare altrove. E così accadde a Napoleone, su un’isola lontanissima dallo strepito delle numerose battaglie. Il 5 maggio di 200 anni fa.




«Verba scripta.» Un’introduzione agli scritti di frate Francesco.

di Dario Chiapetti · Verba scripta. Un’introduzione agli scritti di frate Francesco è un testo di S. Ceccobao, P. Maranesi e C. Vaiani, con prefazione di F. Accrocca (Cittadella Editrice, Assisi 2020, 219 pp., euro 17,90), che si prefigge, come si legge nel contributo dell’arcivescovo di Benevento, di tracciare «un quadro essenziale e preciso delle questioni inerenti ai singoli scritti [del Santo d’Assisi] enucleandone la proposta spirituale» (p. 8).

Questo testo si accredita per almeno tre motivi. Il primo è inerente all’oggetto stesso. Come ancora Accrocca ricorda riprendendo le parole dello storico Paul Sabatier: “gli scritti di san Francesco sono sicuramente la migliore fonte da consultare per giungere a conoscerlo, e non ci si può che meravigliare nel vederli tanto trascurati dalla maggior parte dei suoi biografi” (p. 6). Il secondo riguarda il suo carattere divulgativo, ma al contempo approfondito, che sa proporsi ad un vasto pubblico. Il terzo concerne il fatto che mette in luce un aspetto poco considerato (o forse poco riconosciuto?) del Poverello, ossia quel vero e proprio “culto” (cf. p. 5) che questi – idiota e illetterato, come si autodefiniva – mostrava di avere per la parola scritta, innanzitutto quella divina ma anche quella umana, in particolare la propria, che raccomandava «sovente all’ascolto e alla cura dei suoi interlocutori» (ibid.).

Il primo contributo è di Simone Ceccobao, ofm, ed ha per oggetto le Regole. Questi mostra il percorso redazionale, e il connesso itinerario spirituale, che ha portato Francesco e la fraternitas dalla Proto-Regola (1209-1210) alla Regola non bollata del 1223 alla Regola bollata del 1223. Si tratta di scritti che miravano, e mirano, a inquadrare la vita dei frati e a custodire il carisma. L’indagine fa emergere come il Santo non abbia lavorato da solo, ma si sia avvalso dei suoi compagni, di persone esperte e del cardinal Ugolino, nonché di sedi istituzionali, come i capitoli dell’Ordine. Ciò che risalta è perciò il percorso «fermentato dal basso, dalla vita, dall’esperienza e che passo dopo passo ha assunto una forma e una veste giuridiche» (p. 53).

Il secondo contributo è di Cesare Vaiani, ofm, e presenta le Ammonizioni. Sono esortazioni di Francesco rivolte a tutti i frati, probabilmente pronunciate durante i capitoli e poi, con ogni probabilità, riportate per iscritto da qualche frate, secondo un disegno letterario preciso. Nascono dalla meditazione sapienziale della Parola di Dio fatta penetrare nel vissuto comunitario, sì da offrire dei significativi rimandi autobiografici di Francesco stesso. Tema predominante è la relazione con Dio vissuta nella relazione coi fratelli, che prende la forma del vivere senza appropriarsi di nulla, che nasce dall’azione dello Spirito del Signore.

Il terzo contributo è di Pietro Maranesi, ofmcap, e si concentra sulle Lettere. Sono quegli scritti che hanno permesso a Francesco di proseguire la sua attività apostolica soprattutto quando, dopo il 1221, con l’aggravarsi della sua condizione di salute, non poteva spostarsi. Dalle fonti si apprende che sono numerose, non tutte pervenuteci, e solo una, il Biglietto a Leone, come autografo. Da una breve osservazione dei testi si può constatare l’ampiezza dell’orizzonte ministeriale nel quale Francesco si è collocato. Vi sono testi circolari indirizzati fuori dell’Ordine, che attestano la sua passione apostolica (Lettera a tutti i chierici, Lettera ai reggitori del mondo, Lettera a tutti i fedeli). Vi sono poi testi inviati ai frati, che attestano la sua autocompresione di animatore dell’Ordine, anche dopo le sue dimissioni (Lettera a tutto l’Ordine, Lettere I e II ai custodi). Vi sono infine biglietti personali, che attestano il suo calore umano, la sua capacità pedagogica nell’aiutare chi si trovava in situazioni difficili e la sua apertura mentale (Biglietto a Leone, Biglietto ad Antonio, Lettera ad un ministro).

Il quarto contributo è nuovamente di Vaiani e tratta delle Preghiere. Ciò che egli evince è uno «sviluppo dinamico» (p. 180) del percorso spirituale di Francesco. Esso parte con la preghiera di richiesta di luce, orientata al fare cristiano (Preghiera davanti al crocifisso), in cui sta al centro Cristo crocifisso (Ti adoriamo). Con l’arrivo dei fratelli si profila il tratto fondamentale della preghiera del Santo, quello della lode (Esortazione alla lode di Dio) che spinge verso la meditazione sia contemplativa (Saluto alle Virtù e Saluto alla Vergine) che discorsiva (Parafrasi del Pater). Se la preghiera di Francesco attinge alla tradizione, alla liturgia, soprattutto delle ore, e quindi ai salmi, imparati a memoria (che attestano un’intensa attività intellettiva), mostra di integrare anche l’elemento della creatività personale (che attesta un’intensa attività intellettuale, che porta alla conoscenza, al «cognoscimento», contro le interpretazioni del Santo come un anti-intellettuale), come nell’Ufficio della Passione. Il suo rendimento di grazie si estende poi, contro ogni intimismo, a tutta la Chiesa, e contro ogni autoreferenzialità di quest’ultima, a tutta l’umanità. Col procedere della sua conformazione a Cristo si fa sempre più chiaro il termine ultimo della preghiera, il Padre (Lodi di Dio altissimo), a cui accede in persona del Figlio (stimmate), per opera dello Spirito Santo (Lettera a tutto l’Ordine), esperienza che lo immette in quella visione della gloria escatologica dei nuovi cieli e della nuova terra che lo rende lode della creazione a Dio, anche in mezzo ai topi della celletta di san Damiano (Cantico delle creature) e colui che si fa accesso per il fratello a ciò che ha contemplato (Biglietto a Leone).

Il quinto contributo è ancora di Maranesi e parla del Testamento. Composto negli ultimi mesi di vita, rappresenta un commento alla Regola, come ricordo dell’intuizione originaria, ed un’ammonizione ed un’esortazione ad osservare, in virtù della freschezza del carisma, più cattolicamente la Regola, in quanto questa lasciava questioni aperte. Escludendo pericolose (secondo Francesco) interpretazioni da parte dei frati, questo testo, col valore giuridico datogli dal Santo, non permetteva di fatto una «comprensione dinamica e progressiva della Regola» (p. 215), passando da essere un’«eredità preziosa» ad essere un’«eredità difficile».

Con le riflessioni sopra riportate ho cercato di evocare solo qualcosa delle tante suggestioni che il presente testo offre, che fa presentire la vividezza della figura del Santo d’Assisi, così come essa emerge dai suoi scritti, e che oggi chiede di essere scoperta più approfonditamente, per il bene della Chiesa e del mondo intero.




Sant’Alfonso Maria de’ Liguori «Dottore zelantissimo»

di Andrea Drigani · Il 23 marzo 1871 il Beato Pio IX conferiva a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) il titolo di Dottore della Chiesa (Cfr. il mio articolo su questa Rivista, maggio 2015, «Dottore della Chiesa»: un titolo a beneficio di tutti i cristiani)(vedi).

A centocinquant’anni da questa ricorrenza Papa Francesco ha voluto ricordare, con una lettera al Moderatore Generale dell’Accademia Alfonsiana, il patrono dei confessori e dei moralisti, presentandolo come un modello per tutta la Chiesa in uscita missionaria, poiché Sant’Alfonso indica ancora con vigore la strada maestra per avvicinare le coscienze al volto accogliente del Padre, perché la salvezza che Dio ci offre è opera della sua misericordia.

L’esperienza missionaria nelle periferie esistenziali del suo tempo, la ricerca dei lontani, e l’ascolto delle confessioni – osserva il Papa – portano Sant’Alfonso a diventare padre e maestro di misericordia, certo che il «paradiso di Dio è il cuore dell’uomo».

Nelle dispute teologiche – prosegue Francesco – preferendo la ragione all’autorità, non si ferma alla formulazione teorica dei principi, ma si lascia interpellare dalla vita stessa. Avvocato degli ultimi, dei fragili e degli scartati dalla società del suo tempo, difende il «diritto» di tutti, specialmente dei più abbandonati e dei poveri. Questo percorso lo conduce alla scelta decisiva di porsi al servizio delle coscienze che cercano, pur tra mille difficoltà, il bene da fare, perché fedeli alla chiamata di Dio alla santità.

Sant’Alfonso – rileva il Papa – non è né lassista né rigorista. Egli è un realista nel vero senso cristiano perché ha ben compreso che nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Sull’esempio di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, rinnovatore della teologia morale, si rende auspicabile e dunque necessario – continua Francesco – affiancare, accompagnare e sostenere i più destituiti di aiuti spirituali nel cammino verso la redenzione.

La radicalità evangelica non va contrapposta alla debolezza dell’uomo. E’ necessario sempre trovare la strada che non allontani ma avvicini i cuori a Dio come fece Sant’Alfonso con il suo insegnamento spirituale e morale.

Egli maestro e patrono dei confessori e dei moralisti, così proclamato da Pio XII nel 1950, ha offerto risposte costruttive alle sfide della sua epoca, attraverso l’evangelizzazione popolare, presentando uno stile di teologia morale capace di tenere insieme l’esigenza del Vangelo e le fragilità umane.

La formazione delle coscienze al bene appare meta indispensabile per ogni cristiano. Dare spazio alle coscienze, luogo dove risuona la voce di Dio, perché possano portare avanti il loro personale discernimento nella concretezza della vita è un compito educativo a cui bisogna restare fedeli.

Papa Francesco conclude la sua lettera esortando, come ha fatto Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, ad andare verso i fratelli e le sorelle della nostra società. Ciò comporta lo sviluppo di una riflessione teologico-morale, capace di impegnarsi per il bene comune che ha la sua radice nell’annuncio del «kerygma», che ha una parola decisa in difesa della vita, verso il creato e la fratellanza.




«La Pira: Vangelo e impegno politico»

di Giovanni Pallanti · Padre Alessandro Cortesi O.P. e gli storici Marco Pietro Giovannoni e Pietro Domenico Giovannoni hanno scritto un libro molto interessante dal titolo “Giorgio La Pira, Vangelo e impegno politico”. Il libro si articola sulla biografia del professore di Diritto Romano, diventato sindaco di Firenze nel 1951, dopo avere vinto le elezioni amministrative contro il sindaco uscente Mario Fabiani, del PCI.
Poi c’è una parte seconda composta da una antologia di testi di La Pira, in questo ordine: la spiritualità, l’antifascismo e l’architettura di uno Stato democratico, la dimensione politica del Vangelo, il lavoro centro dell’economia, la città comunità, Russia sovietica e Santa Russia, il Mediterraneo laboratorio della pace mondiale. Seguono un capitolo su “la Guerra impossibile e Pace inevitabile nel nuovo ordine mondiale”, l’unità della famiglia umana, La Pira e l’Ordine Domenicano.
In conclusione, gli autori svolgono un confronto in parallelo tra l’enciclica di Papa Francesco “Fratelli Tutti” e il pensiero di Giorgio La Pira. Il libro non è una novità assoluta sul piano dell’esegesi storica del Sindaco santo, per il quale è stata aperta la causa di beatificazione, e che la Chiesa Cattolica ha già sancito essere Venerabile, e la cui tomba si trova nella chiesa domenicana di San Marco, a Firenze. Però c’è una novità assoluta: padre Cortesi e i due storici Giovannoni (ambedue figli di Gianni Giovannoni e nipoti di Giorgio Giovannoni, due tra i più importanti collaboratori di La Pira, e Gianni per tre volte, in epoche diverse, consigliere comunale di Firenze per la Dc) contestualizzano la vicenda umana e politica di La Pira con estrema esattezza. Sviluppano l’azione di La Pira, come si legge nella parte del libro dedicata alla sua biografia, nell’ambito della politica della Democrazia Cristiana dal 1946 al 1977, quando La Pira, il 5 novembre di quell’anno, morì essendo in carica come deputato al Parlamento per la DC. Addirittura vengono riportati anche degli interventi di La Pira nel Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana negli anni ’50, quando la sua partecipazione alla vita del partito fu più attiva.
Questa verità storica, per lungo tempo, dal 1977 fino a poco tempo fa, era stata edulcorata, rendendo La Pira un personaggio completamente avulso dal contesto storico da lui vissuto, ricordando che era stato sindaco di Firenze, deputato alla Costituente e poi alla Camera, evitando di ricordare che lui era sempre stato eletto esclusivamente nelle liste della DC. Una verità che in questo libro risulta in tutta la tua chiarezza.
Padre Alessandro Cortesi esercita il suo ministero sacerdotale e culturale a Pistoia. Marco Pietro Giovannoni e Pietro Domenico Giovannoni sono invece docenti di storia all’Istituto di Studi Religiosi Santa Caterina da Siena. Il libro è stato edito dall’editore Nerbini.