Editoriale • Gesù: il Maestro sovrano del pensiero

di Andrea Drigani •

L’8 dicembre 1965, durante la cerimonia conclusiva del Concilio Ecumenico Vaticano II, Paolo VI consegnava simbolicamente al filosofo cattolico francese Jacques Maritain (1882-1973), il Messaggio dei Padri Conciliari agli uomini di scienza e del pensiero. Questo Messaggio diceva, tra l’altro, che: «Pensare è anche una responsabilità; guai a coloro che oscurano lo spirito con mille artifici che lo deprimono, lo inorgogliscono, lo fanno errare, lo deformano. Qual è il principio di base degli uomini di scienza se non di sforzarsi di pensare rettamente? Per questo – proseguiva il Messaggio – senza ostacolare i vostri passi, senza abbagliare i vostri sguardi, noi veniamo ad offrivi la luce della nostra lampada misteriosa: la fede. Colui che ce l’ha affidata è il Maestro sovrano del pensiero, Colui del quale noi siamo gli umili discepoli, il solo che abbia detto e potuto dire: Io sono la Luce del mondo, io sono la Via, la Verità e la Vita». Dopo quasi cinquant’anni questo Messaggio continua a rivolgersi alla nostra attenta valutazione. Infatti un certo modo di svolgere attività intellettuale, più o meno consapevolmente, corre il grave rischio di essere un artificio. Mi piace rammentare che il Tommaseo nel suo Dizionario dei Sinonimi annota : «Artifiziale che è d’arte, non di natura; artificiato cha ha tale artifizio che altera e cambia la natura…Artefatto ha senso molto affine a artificiato , ma più forte. Cosa artefatta, non solo è fatta molto dall’artifizio, ma è tutta d’artificio».  Sembra, anche oggi, che alcuni pensatori favoriscono più l’oscurità che il chiarore. E non si comprende quale ne sia il vantaggio. Non si capisce perché si voglia chiudere volontariamente gli occhi alla luce per restare nel buio. Si esalta, e anche giustamente, il dubbio, che gli antichi denominavano «fluctuatio inter opposita», cioè quello stato della mente in cui la persona rimane esitante tra due o tre proposizioni che non possono essere vere contemporaneamente, perché l’affermazione dell’una è la negazione dell’altra. Il dubbio, tuttavia, non può essere una condizione permanente, stabile, fissa, ma segna l’inizio di un  moto di ricerca e di studio. Il dubbio, infatti, si deve sciogliere; sciolto un dubbio ne può sorgere un altro e anch’esso va risolto: questa è la storia di un pensiero responsabile. Scriveva, a tal proposito, Sant’Agostino: «Cerchiamo con il desiderio di trovare, troviamo con il desiderio di cercare ancora». I Padri conciliari, nel 1965, offrivano una lampada per uscire dall’oscurità e dall’incertezza: Gesù Cristo («Il Maestro sovrano del pensiero»). La Verità, infatti, non è un concetto o un idea, bensì una Persona: Gesù Cristo. E’ quanto viene riaffermato, peraltro, dal Concilio Vaticano II laddove, nella Costituzione Gaudium et spes, si dichiara che in «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro, e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando i mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». Pensare cristianamente vuol significare aver fiducia nella fede, grande amica dell’intelligenza. A ciò vuole contribuire questa rivista online che è intitolata «Il mantello della giustizia» secondo l’espressione del Libro di Isaia (61,10). Il profeta nell’esprimere la sua gioia e la sua esultanza per essere nel Signore e del Signore, è consapevole che Dio lo ha avvolto, appunto, col mantello della giustizia. La giustizia è la virtù per la quale si deve dare ad ognuno quello che è suo diritto, e tra questi diritti vi è anche quello di conoscere e di seguire l’insegnamento cristiano, nelle diverse circostanze personali, sociali e culturali. Il nostro compito è quello di aiutare a far sì che questo diritto venga sempre meglio garantito e sviluppato.

 

NUMERO DI APRILE  2014




L’inattesa pasqua di Benedetto. Sorprese di un sommesso comunicare

di Carlo Nardi •

Leggesi – di qui ‘leggenda’, ossia ‘cosa da leggere’ per edificazione – nella vita di san Benedetto abate, scritta dal papa san Gregorio Magno (+ 604) nel secondo libro dei Dialoghi (cap. 1), che, digiunando il giovane Benedetto in assoluta solitudine in una caverna tra i monti dell’alta valle dell’Aniene … Che cosa successe? Benedetto, che solo solo aveva perso la cognizione del tempo, si trovava a digiunare il giorno di pasqua. Se ne ricordava bene, dopo una rigorosa quaresima, un prete d’un villaggio di quei paraggi e, insomma, si direbbe tra l’ova omaggiate dai parrocchiani e qualcos’altro ancora, sulla sua tavola si vedeva e si annusava che era pasqua. Si mette a desinare ed ecco una visione o … contentiamoci di una vocina: «Tu ti sei preparato un pranzo delizioso, e va bene. Ma guarda: vedi laggiù? Lì c’è un mio servo che patisce la fame». Il buon pievano, senza frapporre tempo in mezzo né bubare per quel desinare raffreddato, anzi sistematolo in una gerla, si mette in cammino. E cammina cammina … cerca e ricerca, alla fine trovò Benedetto nascosto in una spelonca.

Ma a questo punto è meglio ascoltare direttamente papa Gregorio. «I due si misero a pregare e innalzarono a Dio benedizioni. Sedettero poi, insieme, scambiandosi dolci pensieri sulle cose del cielo. “Ora – disse poi il sacerdote – prendiamo anche un po’ di cibo, perché oggi è pasqua”. “Oh, sì – rispose Benedetto – oggi è proprio pasqua per me, perché ho avuto la grazia di vedere te” (…). “Ma oggi è davvero il giorno della risurrezione del Signore – riprese il reverendo –, e non è punto bello che tu digiuni (abstinere tibi minime congruit). Proprio per questo sono stato inviato, per cibarci insieme, l’uno e l’altro, di questi doni che l’onnipotenza di Dio ci ha messo davanti” Nell’innalzare a Dio benedizioni, consumarono il cibo e, dopo aver finito il pranzo e il colloquio, il prete ritornò alla sua chiesa».

Pasqua: l’incontro umano, fraterno è pasqua. Se non lo si sa cogliere, non si è in grado di far pasqua. Almeno come Cristo comanda.

A pasqua non si può digiunare. Perché la chiesa sembra vedere con sospetto un siffatto digiuno pubblicamente solitario? Perché parrebbe segno di spregio a Dio, creatore anche di quelle cosine gradevoli da mettere in tavola, né il digiuno, cristianamente inteso, può mai essere dispezzo per i doni di Dio. E non ci ha detto il Signore: «Mangiate quel che vi è messo davanti» (Lc 10.8)? Con semplicità, con serenità. Direi con trascurata eleganza. Anche papa Gregorio lo insegna con garbo mediante il paterno richiamo del parroco avveduto a quel giovanotto, Benedetto, al quale una generosa esuberanza nelle cose di Dio avrebbe potuto far dimenticare le cose degli uomini. Ma Benedetto in umiltà sa gustare la fraternità con le sue sorprese, i suoi doni, e sa gustarla in compagnia con la chiesa intera che quel giorno celebrava la risurrezione.

Narravo a mia volta, nel foglio ai parrocchiani del 23 marzo 2008, la narrazione di papa Gregorio per il gusto di raccontare qualcosa che ritenevo, e ritengo, edificante. Lo riesumo ora e lo abbellisco un po’ perché mi sembra che quel comunicare sommesso ed efficace sia rapportabile, in un modo o in un altro, al buttar giù queste poche righe che possono fare il giro del mondo. Il che fa un certo effetto. Anche trepidare. Ma i personaggi della novella, giovane monaco e prete, e l’autore, papa Gregorio, c’invitano a rischiare, mettendoci in cammino. E come dir di no? A costo di far ghiacciare il pranzo di pasqua … che però si ritrova più gustoso che mai. Quand’è e si fa Pasqua.




E se la verità accadesse nella carità? – Spunti di riflessione sulla Lumen Fidei

di Alessandro Clemenzia •

Spesso, quando ci si trova davanti ai termini “verità” e “amore”, scatta, in chi legge, una sorta di antinomia, vale a dire una vera e propria contrapposizione logica tra parole “contrarie”. Non si tratta, in realtà, di una contrapposizione morale o etica, come, per esempio, buono e cattivo, in quanto sia l’esperienza dell’amore sia quella della verità sono la realizzazione del senso di pienezza che alberga nel cuore di ogni uomo. Ogni persona, infatti, aspira tanto al raggiungimento della conoscenza della verità, quanto alla piena realizzazione di se stessa nell’amore.

Queste due parole, messe vicine, generano, tuttavia, una contrapposizione logica, anche se riferite ad un unico soggetto, come a Dio. Egli è in Se stesso e amore e verità; ciò nonostante, è come se una delle due andasse a perfezionare l’altra, non come aggiunta, ma come forza avversativa di equilibrio: per cui Dio è amore “ma” nella verità, ed è verità “ma” rimanendo amore. In questo linguaggio, tipico di una mentalità diffusa, la verità viene compresa come se fosse una semplice messa a nudo dell’umanità; l’amore, invece, viene interpretato come la possibilità di recupero e di perdono (in altre parole, il “nonostante tutto” della situazione).

Papa Francesco, nell’Enciclica Lumen Fidei, parla di una verità che scaturisce dall’amore, e scrive: «La luce dell’amore, propria della fede, può illuminare gli interrogativi del nostro tempo sulla verità» (n. 34). L’amore qui non solo non è considerato avversativo alla verità, ma viene addirittura presentato come luce attraverso cui vedere, leggere, cercare e interpretare la verità. È la luce dell’amore a illuminare, e dunque a rendere visibile la profondità della verità.

«La verità oggi – continua il Papa – è ridotta spesso ad autenticità soggettiva del singolo, valida solo per la vita individuale. Una verità comune ci fa paura, perché la identifichiamo con l’imposizione intransigente dei totalitarismi» (ibid.). La verità, se vista come “messa a nudo” della situazione, diventa l’arma tagliente contro il proprio “io” in mano all’avversario o la possibilità che ci viene offerta, sempre attraverso di essa, di colpire l’altro.

In questo gioco di “difesa” e “attacco” la veritas viene fatta propria da ciascuno e ridotta alla misura della propria esistenza, e dunque limitata all’orizzonte che, se segnato dalla paura dell’altro, è veramente ristretto e chiuso. Secondo questa logica, spiega il Papa, una verità comune significherebbe una collettiva sottomissione a chi che sia.

Continua l’Enciclica: «Se però la verità è la verità dell’amore, se è la verità che si dischiude nell’incontro personale con l’Altro e con gli altri, allora resta liberata dalla chiusura  nel singolo e può far parte del bene comune» (ibid.). Qui non si parla dell’amore per la verità, ma della verità dell’amore, una verità che viene generata dall’incontro personale con l’Altro e gli altri. Interessante osservare come secondo questa interpretazione la veritas non precede l’incontro, come se essa fosse il criterio oggettivo di valutazione della realtà, ma scaturisce da e nell’incontro, non soltanto con l’Altro (Colui che è in se stesso la Verità), ma anche con gli altri, tutti coloro che, pur nascondendoli, conservano i segni delle ferite causate dalla propria contraddizione.

E questo dice una cosa fondamentale: la verità non è a-priori,,, né in un soggetto né nell’altro, ma nella relazione che si istaura “tra” loro. Perché la verità accada nella relazione, quest’ultima deve essere caratterizzata dall’amore: «Essendo la verità di un amore, non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo» (ibid.). L’amore qui non è un atteggiamento pacifico o un sentimentalismo, ma è il contesto, lo spazio del darsi della verità, che non costringe o schiaccia l’altro, ma, anzi, lo libera e rigenera alla relazione. Lì dove i rapporti sono all’insegna dell’amore reciproco, fuoriesce la verità.

Ma allora, di quale verità si sta parlando? In effetti non si può intendere semplicemente una corrispondenza tra l’opinione e la realtà; essa deve spostare l’attenzione di chi la guarda da sé a qualcosa (o qualcuno) che è oltre e altro da sé. Sembra qui fare da sfondo un motivo scritturistico di straordinaria importanza e bellezza: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Lì dove tra due o più persone l’amore è genuino, puro, autentico, disincantato e disinteressato, si invera la presenza di Colui che, solo, è la Verità. Le relazioni vere, dunque, quelle all’insegna dell’amore, hanno la capacità di generare Dio tra gli uomini.

NUMERO DI APRILE  2014




Le caratteristiche del lavoro umano

di Leonardo Salutati •

Nel corso di questi ultimi anni abbiamo assistito all’esasperazione di due fenomeni riguardanti il lavoro umano: il “nomadismo lavorativo” e la “flessibilità lavorativa”, che, se da un lato hanno consentito di contenere il problema della disoccupazione, dall’altro hanno generato insicurezza, precarietà e conseguenze negative di tipo relazionale. Pertanto se nel passato in epoca di “posto fisso”, l’accento era posto sul dramma di perdere quel posto; oggi, in tempi di nomadismo lavorativo, l’idea del posto fisso di tipo tradizionale è ridimensionata, nasce piuttosto il problema del governo della flessibilità del lavoro. Nell’attuale società globalizzata prevalgono interpretazioni dell’attività lavorativa di tipo meccanicistico ed economicistico che però si rivelano inadeguate a interpretare i concreti e pressanti bisogni umani che si estendono ben oltre le categorie soltanto economiche. La Chiesa sa bene, e da sempre insegna, che l’uomo, a differenza di ogni altro essere vivente, ha bisogni non limitati soltanto all’«avere» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n. 318). La «persona umana» lavora per soddisfare necessità e bisogni innanzi tutto materiali, ma lo fa seguendo un impulso che la spinge sempre oltre i risultati conseguiti, alla ricerca di ciò che può corrispondere più profondamente alle sue ineliminabili esigenze interiori. Nel lavoro è impegnata tutta la persona, fin nelle pieghe più profonde del suo essere. Non si lavora con la mano o col cervello, con la ragione o con la passione, si lavora con tutta la complessa ma unitaria realtà della propria persona (Laborem exercens n. 6). Per questo la dottrina sociale, nel registrare il cambiamento delle forme storiche in cui si esprime il lavoro umano, ricorda che non cambiano le sue esigenze permanenti. Esse si riassumono nel rispetto dei diritti inalienabili dell’uomo che lavora, vale a dire la tutela della dignità del lavoratore; il diritto al riposo; il diritto ad ambienti di lavoro ed a processi produttivi che non rechino pregiudizio alla sanità fisica dei lavoratori e non ledano la loro integrità morale; il diritto che venga salvaguardata la propria personalità sul luogo di lavoro, senza essere violati in alcun modo nella propria coscienza o nella propria dignità; il diritto a convenienti sovvenzioni indispensabili per la sussistenza dei lavoratori disoccupati e delle loro famiglie; il diritto alla pensione nonché all’assicurazione per la vecchiaia, per la malattia e per incidenti collegati alla prestazione lavorativa; il diritto a provvedimenti sociali collegati alla maternità; il diritto di riunirsi e di associarsi; il diritto all’equa remunerazione (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa nn. 301-304). Tale complesso di diritti esige l’ideazione di nuove forme di solidarietà in una prospettiva che consenta di orientare le attuali trasformazioni nella direzione della complementarità tra dimensione economica locale e globale; tra economia «vecchia» e «nuova»; tra innovazione tecnologica ed esigenza di salvaguardare il lavoro umano; tra crescita economica e compatibilità ambientale dello sviluppo (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n. 319). Tutto questo è reso ancora più urgente dagli attuali scenari di profonda trasformazione del lavoro che rendono necessario uno sviluppo autenticamente globale e solidale (Giovanni Paolo II, Discorso all’Incontro giubilare con il mondo del lavoro, 1º maggio 2000). In definitiva, la Dottrina Sociale indica la necessità di tutelare la sicurezza del lavoratore e della sua famiglia non solo per i lavori tradizionali ma anche per i nuovi lavori. Questo richiede che non si rimanga troppo legati alle vecchie forme di garanzia del lavoro ma che si sappia anche intravederne di nuove e confacenti ai tempi, perché anche il fenomeno della globalizzazione, in tutti i suoi aspetti, trae origine dal fondamento antropologico dell’intrinseca dimensione relazionale del lavoro. Gli aspetti negativi della globalizzazione del lavoro, pertanto, non devono mortificare le possibilità che si sono aperte per tutti di dare espressione ad un umanesimo del lavoro e ad una solidarietà del mondo del lavoro a livello planetario, impedendo la realizzazione della vocazione umana unitaria, solidale e trascendente (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n. 322).

NUMERO DI APRILE 2014




Papa Francesco, l’Europa e l’Italia dei corrotti

di Antonio Lovascio •

Papa Francesco ha fatto chiaramente intendere che non vuole immischiarsi nelle vicende politiche italiane, impegnato com’è a rinnovare la Chiesa e a riformare la Curia Vaticana, per renderla un “motore” moderno, efficiente e credibile al servizio di una missione universale.  Ma il suo sguardo è attento a cogliere i segni dei tempi, e, pur affrontando sempre i problemi emergenti in un’ottica mondiale, con coraggio e lungimiranza denuncia e indica la strada per  vincere alcune sfide, affrontare alcune “piaghe” fisiologiche che affliggono l’Italia.  Prendiamo uno dei mali correnti: la corruzione.  Che aumenta l’ingiustizia sociale e la povertà. Papa Francesco con i suoi “anatemi” contro la “dea tangente” ha anticipato addirittura l’Europa, che in questi giorni con un severo Rapporto della Commissione (il governo Ue) ha messo il nostro Paese sul banco degli accusati, prendendo per buone la stima fatta nel 2012 dal nostro Ministero della Funzione Pubblica. Dopo la maglia nera dell’evasione fiscale (180 miliardi di euro all’anno) , ora ci è stata assegnata anche quella delle “mazzette”. Sessanta miliardi di “fatturato”, la metà di quella globale europea. Quattro punti di Pil, l’indice che misura la crescita economica. Dati pesantissimi : negli appalti ben il 40 per cento andrebbe via in “spese” per “bustarelle”, e a rischio sarebbero grandi opere come le opere i post sisma dell’Aquila, l’Expo Milano 2015, la Tav Torino Lione.

Papa Francesco, con la rapidità del  Pastore di razza, ha “fiutato” l’entità e la pericolosità di questo fenomeno italiano. E fin da novembre, durante la quotidiana messa nella Casa di Santa Marta, ha cominciato a tuonare contro la corruzione, che “toglie dignità, è un peccato grave “. Pregando per i tanti giovani che ricevono il «pane sporco» dai genitori, vale a dire i guadagni frutto di  malcostume. «Perché si incomincia forse con una piccola bustarella – sottolinea Bergoglio – ma è come la droga, non si smette. E’ un seme infetto del demonio>. Per rendere ancor più completo e stimolante il pensiero del Papa, la casa editrice Emi ha appena pubblicato  un libro snello ma incisivo (64 pagine, 6 euro), scritto proprio da Bergoglio prima di diventare Pontefice, dal titolo significativo: “Guarire dalla corruzione”.  Una mala pianta che ha invaso la politica, l’economia, la società, e che minaccia anche la Chiesa. Il tema non è trattato dal punto di vista economico o sociologico, bensì scendendo alla radice: il cuore umano, che si attacca a quello che crede essere il suo tesoro. È lì che si annida il cancro della corruzione, che è qualcosa di diverso dal peccato. Tanto che l’illustre autore invita il lettore a una «scelta» di fondo: «Peccatore, sì. Corrotto, no!». Tanto da far dire a Papa Francesco che per il peccato c’è sempre perdono, per la corruzione, no. O meglio: dalla corruzione è necessario guarire. Ed è un cammino faticoso, dove persino la parola profetica stenta a far breccia. Una meditazione morale profonda, alla luce della parola di Dio e della spiritualità di sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei gesuiti (l’ordine cui appartiene il nuovo Papa), che mette tutti noi davanti ad alcuni aspetti del deterioramento morale su cui meno si riflette. E ci scuote evidenziando l’urgenza di una decisione: quella di non rimanere complici di una vera e propria «cultura» della corruzione, dotata di una sua «capacità dottrinale, linguaggio proprio, modo di agire peculiare».

Questa la “diagnosi”  e la conseguente “ricetta” di Papa Francesco. Ora tocca alla politica italiana trovare nuove  concrete soluzioni. Perché l’Europa boccia anche la legge anti-corruzione del 2012,  giudicata “insufficiente”, a parte le norme sull’incandidabilità che hanno portato alla decadenza  “di un ex premier” (Berlusconi). E con essa censura tutto il sistema delle leggi “ad personam” – lodo Alfano, ex Cirielli, depenalizzazione del falso il bilancio,  legittimo impedimento, espressamente citati nel Rapporto Ue, salvo la legge sulla prescrizione (troppo corta!) tante volte richiesta dalla Ue – che ha frenato il varo di “buone leggi” . Indispensabili per far camminare la macchina della Giustizia e accelerare i processi in attesa di giudizio (9 milioni):  si contano infatti 5.257.693 “fascicoli” pendenti in campo civile e quasi 3 milioni e mezzo in quello penale!  Con le (tanto promesse) Riforme, bisognerà eliminare una fin troppo palpabile anomalia italiana: i legami tra politica, criminalità e imprese. Confermati   dai numerosi amministratori pubblici indagati, dai 201 consigli comunali sciolti (di cui 28 per mafia), dai  30 deputati sotto inchiesta per corruzione e finanziamento illecito. Poi non dobbiamo stupirci se il 97 per cento degli italiani considera la corruzione il male del Paese e il 42% dichiara di “incontrarla” personalmente ogni giorno.

 

NUMERO DI APRILE 2014




L’assoluzione dai peccati senza la confessione è possibile? È opportuna?

di Gianni Cioli •

Di recente mi è stata posta la seguente domanda: perché la celebrazione dell’eucaristia non potrebbe essere considerata di per sé una forma di remissione dei peccati? Più esattamente: perché non conferire all’atto penitenziale con cui inizia la messa il valore di una vera e propria assoluzione sacramentale generale per tutti coloro che partecipano al rito. Non si risolverebbero così diversi problemi?… dalla mancanza di tempo dei preti, all’imbarazzo dei penitenti… nessuno si accosterebbe più in modo indegno alla comunione.

In realtà, l’idea che la celebrazione dell’eucaristia possa essere considerata di per sé una forma di remissione dei peccati non è per niente nuova ma è un fatto già riconosciuto dalla tradizione cristiana fin dalle sue origini. Nell’ambito della riflessione teologica si discute tuttavia su quali siano le modalità con cui l’eucaristia può rimettere i peccati e sul rapporto che questa remissione debba avere con quella realizzata dal sacramento della penitenza.

Basilio Petrà nel suo libro Fare il confessore oggi (Bologna 2012, pp. 73-74) offre un punto di vista chiaro ed equilibrato sulla questione: «Nella scolastica la consapevolezza che l’eucaristia è per la remissione dei peccati è ben presente; traccia di ciò è nel concilio Tridentino (sess. XIII, Decr. de Eucharistia, c. 2: DS 1638) ove si dice che essa va vista anche come antidoto “che ci libera dalle colpe quotidiane e ci preserva dai peccati mortali”. Sempre sulla base del concilio di Trento, e sulla base della consuetudine che trova il suo fondamento biblico in 1Cor 11,28, si ritiene che nessuno possa accostarsi, tuttavia, all’eucaristia con peccato grave senza confessarsi».

Anche l’eventualità di un’assoluzione sacramentale generale dei peccati nell’ambito di un’assemblea non è affatto un’idea nuova. È un’opportunità prevista, a discrezione dei vescovi d’intesa con le proprie conferenze episcopali nazionali, laddove non sia possibile o agevole celebrare la confessione individuale, con l’impegno tuttavia, da parte di chi ha ricevuto il perdono, di «confessare a tempo debito i singoli peccati gravi, di cui al momento non può fare l’accusa» («Premesse», in Conferenza Episcopale Italiana, Rito della penitenza, Roma 1974, 32). In Italia, comunque, la Conferenza episcopale non ha per ora ritenuto necessario permettere questa modalità di celebrazione del sacramento del perdono.

Si deve prendere dunque atto che la chiesa riconosce all’eucaristia la prerogativa di rimettere i peccati ma, distinguendo fra peccati lievi e gravi, afferma la necessita di ricorrere, per questi ultimi, al sacramento della penitenza. Sebbene poi sia contemplata la possibilità di una celebrazione comunitaria della penitenza con confessione e assoluzione generale si richiede comunque di confessare individualmente i peccati gravi allorquando sarà possibile.

Anche alla luce di queste puntualizzazioni mi pare di poter rispondere che un’abolizione della confessione come via ordinaria per l’assoluzione dei peccati gravi non sia la via da percorrere per affrontare l’attuale crisi del sacramento della penitenza. Eliminare la necessità della confessione dei peccati gravi per ottenerne il perdono non aiuterebbe il cammino di conversione e rischierebbe, invece, di mascherare alla coscienza del credente la bellezza del perdono di Dio riducendolo ad un evento automatico e, in sostanza ad una «grazia a buon mercato».

La necessità di chiamare i peccati per nome allena la coscienza ad esercitare il proprio esame e a maturare progressivamente nella capacità di discernere il bene e il male.

Lo stesso imbarazzo che il penitente può sperimentare di fronte alla confessione, e che qualcuno potrebbe giudicare una ragione in favore dell’assoluzione generale, mi pare piuttosto un indicatore della serietà dei peccati “seri” che non sarebbe saggio risolvere con un indistinto “colpo di spugna”.

Infine direi che il confronto franco con il ministro della chiesa, possibile nella confessione, è la strada più opportuna per elaborare un percorso penitenziale adeguato a risanare le ferite prodotte dai peccati dentro e fuori di noi.

Sono consapevole che il sacramento in questione presenta oggi molti aspetti problematici, per esempio la difficoltà a qualificare adeguatamente la gravità dei peccati di fronte alle nuove acquisizioni antropologiche, oppure la non adeguatezza di parametri di giudizio che la prassi della confessione ha ereditato a risolvere questioni umane e tendenze sociali nuove. Tuttavia non ritengo che l’abdicare alla sfida di riconoscere e confessare i nostri peccati ci possa davvero rendere cristiani migliori.

NUMERO DI FEBBRAIO 2014




Educare i giovani al tempo di internet

di Stefano Liccioli •

E’ indubbio che ragazze e ragazzi di oggi sappiano usare con dimestichezza i nuovi media. Molti di loro non ricordano un mondo senza Internet: sono i cosiddetti “nativi digitali”. La loro abilità nell’utilizzare questi strumenti informatici non ci deve però far trascurare un problema, quello cioé di una corretta educazione al modo in cui essi adoperano tali mezzi al fine di renderli pienamente consapevoli delle conseguenze che ha l’uso dei nuovi media. La scuola in questo senso è un osservatorio prezioso dei fenomeni in atto nel mondo giovanile. I nuovi media hanno rivoluzionato la maniera in cui le persone si rapportano tra loro, accorciando le distanze e rendendo possibile la comunicazione in ogni momento della giornata con chiamate e messaggi. In questo contesto i nostri ragazzi come si muovono? Grazie agli smartphone, ad esempio, sono sempre connessi ad Internet, sempre pronti a comunicare, dando vita a relazioni del tutto peculiari all’era digitale. Non è insolito vedere ragazzi che seduti accanto invece di parlare tra di loro usano il cellulare per parlare o “messaggiare” con qualche amico lontano.  Altri inoltre preferiscono relazionarsi attraverso chat o social network piuttosto che incontrarsi di persona. I nuovi media infatti hanno permesso di comunicare, senza doversi necessariamente ritrovare. Come educatori non possiamo non vedere in questa tendenza un problema da affrontare, quello cioé della “smaterializzazione” delle relazioni personali. E’ importante insegnare agli adolescenti che la Rete è utile perchè ci aiuta a coltivare le amicizie anche a distanza, ma non dobbiamo perdere la dimensione concreta dell’incontro, quella che ci porta a guardare negli occhi il nostro interlocutore, a stringergli la mano: il ritrovarsi a parlare, il dialogo a due o in gruppo è estremamente più arricchente e formativo di una conversazione via computer.

Un’altra questione connessa a questi aspetti è quella dell’autenticità delle relazioni nell’era digitale. In alcuni casi infatti si approfitta del mezzo digitale e dell’inevitabile distanza che c’è tra gli interlocutori per mostrare e far conoscere solo una parte di se stessi, quella che ci piace di più. Facebook in questo senso è paradigmatico, permettendo di “mettere in vetrina” solo quello che interessa far vedere ed a volte a farsi vedere anche diversi da quelli che si è.

Vale la pena dunque educare i ragazzi ad essere autentici in Rete, a costruire relazioni in cui non si ha paura di essere pienamente se stessi, con i propri difetti ed i propri pregi, senza nascondersi dietro a un profilo che non rappresenta veramente la propria identità. Per usare uno slogan potremmo dire che è necessario formare all’autenticità al tempo di Internet.

Allo stesso tempo la Rete ci offre tutta una serie di “luoghi da abitare”, in cui possiamo e dobbiamo essere presenti dando il proprio contributo. Come cristiani questo non ci può lasciare indifferenti, ma anzi ci chiama in causa: non possiamo infatti non vedere in Internet uno spazio in cui incontrare le persone ed annunciare loro il Vangelo. Per far questo non basta inserire sulle varie piattaforme contenuti esplicitamente religiosi, ma occorre soprattutto avere nel mondo digitale uno stile cristiano che si concretizza con un modo di comunicare onesto, contraddistinto dalla verità e dalla carità, in linea con il messaggio di Gesù. Anche in Internet quindi non ci può essere un annuncio del Vangelo, senza che sia accompagnato da una coerente testimonianza. A questo riguardo perciò la comunità ecclesiale deve educare i giovani a guardare al mondo digitale come un’occasione che essi hanno per portare Gesù ai propri coetanei: le strade della fede si snodano anche su Internet.

Ho messo in luce solo alcuni aspetti che come educatori è significativo, a mio avviso, tenere presenti nel rapportarci ai giovani. Fondamentale è secondo me prendere sul serio la vita dei ragazzi, anche quella che si sviluppa sui nuovi media, senza operare classificazioni che essi in realtà non fanno: per loro c’è un’unica esistenza che si articola sul piano della realtà e su quello del mondo digitale. Con queste accortenzze potremmo essere educatori non in nome di un passato che non c’è pi, ma al passo con i tempi. Educatori 2.0.

NUMERO DI FEBBRAIO 2014




La Chiesa ha ancora bisogno della teologia?

di Francesco Vermigli •

Sembrerà forse eccessivo chiedersi se la Chiesa abbia ancora bisogno della teologia. Alla fine, anche il teologo più geloso del proprio ruolo ecclesiale riconoscerà – almeno, ce lo auguriamo – che di una sola cosa la Chiesa ha realmente bisogno: della relazione vitale con il Dio Trino, che l’ha voluta, la sostiene e la conduce alla consumazione finale (Lumen gentium 2-4).
Tuttavia il quesito mi è sorto a partire da una recente intervista, rilasciata ad un quotidiano tedesco da un cardinale tra i più in vista della Chiesa cattolica. Alla domanda del giornalista “la cura delle anime viene prima di tutto?”, ha risposto: “Sì, più cura pastorale che dottrina. L’insegnamento ecclesiastico, la teologia sono dati ormai assodati”. Che è poi dire: la dottrina e la teologia sono sì da tenere in considerazione, ma devono essere piegate alle esigenze pastorali più impellenti del momento. Non mi pare allora illegittima la domanda iniziale: non si lascia spazio ad un’ulteriore riflessione teologica, se la si definisce come ormai “assodata”.
Ora, il teologo che una volta si diceva “sistematico”, tanto quanto lo storico della teologia, noterà alcune aporie in tale risposta. Ad essa va concessa l’attenuante della semplificazione tipica dei moderni mezzi di comunicazione, che nella precisione somigliano alle sottigliezze delle dispute della teologia bizantina, quanto nello stile le mie filastrocche ai sonetti del Petrarca.
Quest’intervista suscita alcune considerazioni. Innanzitutto, “dottrina” e “teologia” non sono sinonimi, poiché non coincidono; talvolta possono toccarsi e sovrapporsi, ma sempre sono da considerare distinte. Il grande teologo gesuita ottocentesco Carlo Passaglia, ad esempio, distingueva tra un “metodo dogmatico” e un “metodo teologico”: se il primo si appella all’autorità della Rivelazione e ha l’obbiettivo di confermarci nella fede, il secondo si appella alla ragione e ha l’obbiettivo di comprendere la fede.
Inoltre, nella sopra citata risposta si dice anche della dottrina che è un dato ormai “assodato”. Che la Rivelazione sia un dato ormai “assodato” è affermazione che diremmo – se ci è permesso – “dogmatica”. Ma che la dottrina sia in sviluppo e che sempre chieda un’ulteriore precisazione, senza potersi dire mai “assodata” – quasi fosse qualcosa di cui non è più necessario discutere – ce lo insegna il grande Ottocento dei Möhler, dei Rosmini, degli Scheeben e dei Newman e la “nouvelle théologie” dei Daniélou e dei de Lubac alla metà del secolo successivo. Il dogma si sviluppa, senza mai mettere in discussione le acquisizioni precedenti, come i simboli o le definizioni cristologiche dei primi concili. Esso è come la progressiva cristallizzazione storica, sotto l’assistenza dello Spirito, della definitiva Rivelazione in Cristo.
Infine, pare necessario dire qualcosa anche sulla distinzione – che nella vulgata cattolica tende alla separazione – tra teologia e dottrina da un lato e pastorale dall’altro. Eppure, si dovrebbe sapere che i dogmi della Chiesa e la riflessione teologica che li ha accompagnati sono sempre nati come risposta a esigenze pastorali e spirituali del popolo di Dio. A Nicea, ad esempio, si comprese cosa avrebbe significato per la Redenzione ritenere Cristo un mezzo-Dio: se il Cristo non è vero Dio, non salva. A Costantinopoli si percepì, a seguito della riflessione dei grandi Cappadoci (simbiosi teologia-dogma…), che se lo Spirito non è Dio, il battesimo non ha alcuna ragion d’essere. Il dogma dell’Immacolata, addirittura, fu definito nonostante il silenzio di tante epoche della storia della teologia: ma fortissima è stata la spinta data dal popolo di Dio nel senso della definizione dogmatica. Tutto questo non fu forse la risposta della Chiesa sia sul piano dottrinale sia su quello teologico ai bisogni pastorali e spirituali? Che cosa sarebbe stato della nostra fede se i Padri, i pontefici e i grandi teologi della storia avessero ritenuto “assodate” dottrina e teologia?
Credo che la Chiesa abbia ancora bisogno della teologia; anzi, che ne abbia bisogno tanto più ora. Il nostro tempo presenta sfide inimmaginabili all’intelligenza credente; e questa deve farsi trovare all’altezza di questo tornante storico. In verità, è lo stesso modo della trasmissione della Rivelazione che chiede alla Chiesa di continuare a fare teologia. Come Dio ha scelto di comunicare agli uomini la salvezza attraverso la carne di un figlio del popolo di Israele, così la trasmissione della Rivelazione avviene attraverso la carne degli uomini di ogni tempo. Ma dire uomo significa dire, inevitabilmente, pensiero. Finché ci sarà la Chiesa, ci sarà la necessità della riflessione teologica. Ogni risposta alle grandi problematiche dei nostri tempi che voglia prescindere dalla teologia, è destinata semplicemente al fallimento. In questo, historia [Ecclesiae] magistra vitae.

 

NUMERO DI FEBBRAIO 2014