Sergio Zavoli: un grande investigatore della vita

WCCOR1_0KQOPQ0L-0007-kIsF-U32001339362188hKG-656x492@Corriere-Web-Sezionidi Giovanni Pallanti · Sergio Zavoli è morto a 97 anni il 4 Agosto del 2020. Era nato a Ravenna il 21 Settembre 1923. È stato intimo amico di Federico Fellini. Indro Montanelli, che è stato uno dei più grandi giornalisti di tutti i tempi, lo definì “Principe dei giornalisti televisivi”. Entrato nella Rai, la più grande organizzazione culturale dell’Italia del ‘900, diventò un giornalista-simbolo della radio: due suoi documentari radiofonici diventarono oggetto di cult giornalistico. “Notturno a Cnosso” del 1953 e “Clausura” del 1958 rivelarono l’anima di questo scrittore, poeta e giornalista, che realizzò con la collaborazione di Piero Pasini e la musica di Ildebrando Pizzetti un documentario irripetibile, con le registrazioni effettuate all’interno di un monastero delle Carmelitane Scalze, prima del Concilio Vaticano II. Questo reportage documenta la vita delle monache attraverso l’intervista della Vice-Priora del Convento. Sergio Zavoli riuscì a far raccontare la vita di queste monache completamente dedicatezavoli-clausura a Dio, facendo manifestare all’intervistata la loro totale dedizione al Creatore con appassionata gioia. Questa trasmissione ebbe talmente successo che la monaca intervistata, cui Zavoli si rivolgeva  con l’appellativo “Vostra Reverenza”, dovette abbandonare la clausura, con il consenso dell’Ordine Carmelitano, per aprire un centro di spiritualità aperto ai giovani che volevano intraprendere, provenendo da tutte le parti d’Italia, la vita religiosa. La dimensione cristiana di Zavoli si potrebbe ben sintetizzare in quel che disse Benedetto Croce “non possiamo non dirci cristiani”. In questa dimensione laica la tensione religiosa, intima e pudicamente conservata nella sua attività di scrittore e di giornalista, è una caratteristica straordinariamente importante per capire la vita e l’opera di Zavoli che si manifestarono in un documentario-intervista del 1965: Il Dottor Schweitzer, teologo, musicista, che in tarda età si laureò in medicina per andare a curare i lebbrosi in Africa e premio Nobel per la pace. Storico di grande capacità investigativa (la storia ha bisogno di grandi investigatori per essere spiegata e capita) Zavoli ha firmato alcuni capolavori come “Nascita di una dittatura” del 1973 e “La notte della Repubblica” del 1992. Soprattutto ne “La notte download (2)della Repubblica”, il racconto di Zavoli e le interviste che egli fece ai terroristi rossi e neri che insanguinarono l’Italia per due decenni, furono fondamentali per capire quello che era successo forse più dei processi che, una volta catturati, subirono i brigatisti rossi e quelli neri. “La notte della Repubblica” non è inferiore come drammaticità e come capacità di lettura introspettiva delle “ragioni” dei terroristi da poterla paragonare ai romanzi di Dostoevskij “I fratelli Karamazov” e soprattutto “I demoni”. Zavoli ebbe anche un’intensa carriera politica, fu presidente della Rai dal 2009 al 2013 e per 18 anni, per cinque legislature, Senatore della Repubblica per la Sinistra Indipendente. Per poco tempo Zavoli fu direttore del quotidiano “Il mattino” di Napoli nel 1993.




Due Papi Santi e i “Sacri Canoni”

di Andrea Drigani • Domenica 27 aprile 2014 sono stati iscritti due Papi nel Catalogo dei Santi della Chiesa Cattolica: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Papa Francesco ha voluto che questa duplice canonizzazione avvenisse insieme. Molte sono le motivazioni di questa decisione, di certo vi è quella che entrambi sono stati Romani Pontefici e che tutti e due hanno avuto una popolarità così sentita e diffusa che si è trasformata, ben presto, in una vera e propria fama di santità. Tra i diversi elementi che accumunano Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, uno, in particolare, vorrei sottolineare: il loro grande interesse per l’aspetto legislativo della Chiesa, cioè per il diritto canonico. E’ bene rammentare che San Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, nel famoso discorso tenuto presso la Basilica di San Paolo fuori le Mura, dopo aver annunciato la celebrazione di un Sinodo diocesano per l’Urbe e di un Concilio ecumenico per la Chiesa universale, aggiungeva che questi due avvenimenti avrebbero condotto all’«auspicato e atteso aggiornamento del Codice di diritto canonico». E’ evidente che Papa Roncalli collegava, in maniera stretta, lo svolgimento del Concilio Ecumenico (che lui volle denominare Vaticano II) con una nuova legislazione canonica. San Giovanni XXIII pensò che il Vaticano II non dovesse essere un concilio disciplinare, proprio questo vi era la necessità di un corpo normativo per accompagnare e coronare le indicazioni conciliari. Il Codice di diritto canonico, vigente nel 1959, era stato promulgato poco più di quarant’anni prima, nel 1917, da Papa Benedetto XV anche se la sua redazione era stata decisa, nel 1904, da San Pio X.  Il Codice canonico del 1917 rappresentava una novità nella storia della Chiesa, poiché non c’era mai stata una legislazione che avesse completamente assorbito la precedente e abolite tutte le collezioni normative anteriori. Taluni ritenevano che un «Codex» fosse in contrasto con la tradizionale flessibilità del diritto canonico attraversi gli istituti della consuetudine, della dispensa e dell’equità. San Giovanni XXIII era certamente a conoscenza delle discussioni, anche critiche, che avevano condotto alla codificazione del 1917. Il 28 marzo 1963 Papa Roncalli costituisce la Pontificia commissione per la revisione del Codice di diritto canonico, per dare inizio, come lo stesso Pontefice affermò, al terzo punto del programma enunciato il 25 gennaio 1959. Poiché il nuovo Codice doveva essere la conseguenza del Concilio, la Commissione decise di iniziare i lavori dopo la conclusione del Concilio stesso. I lavori, infatti, ripresero sotto il pontificato di Paolo VI per terminare nell’aprile del 1982 quando fu presentata a San Giovanni Paolo II la bozza del nuovo Codice per la definitiva approvazione. Papa Wojtyla, personalmente, con l’aiuto di alcuni esperti, rivide tutto il testo e decretò che il Codice fosse promulgato il 25 gennaio 1983, nell’anniversario del primo annuncio dato da San Giovanni XXIII sull’aggiornamento del Codice. Il riferimento a questa data, festa della Conversione di San Paolo, veniva ribadito e precisato da San Giovanni Paolo II nella Costituzione Apostolica «Sacrae disciplinae leges» nella quale dispose, per il 25 gennaio 1983, la pubblicazione del Codice di diritto canonico. Papa Woityła dichiarava che, così facendo, il suo pensiero si portava al medesimo giorno dell’anno 1959 quando Papa Roncalli comunicò la sua volontà di riformare il vigente «Corpus» delle leggi ecclesiastiche promulgato nl 1917.  Giovanni Paolo II si domandava, inoltre, perché Giovanni XXIII avesse avvertito la necessità di revisionare il Codice, la risposta – continuava Papa Wojtyla – forse si poteva trovare nello stesso Codice del 1917, oltreché nettamente voluta e richiesta dal Concilio Vaticano II. L’intuizione di Giovanni XXIII – scriveva Giovanni Paolo II – fu esattissima e bisogna dire che la sua decisione provvide in prospettiva al bene della Chiesa. Papa Francesco ha detto che: «Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli. Non dimentichiamo che sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa». Ed è per questo che la salvezza delle anime (salus animarum), come proclama l’ultimo canone del codice di diritto canonico, deve essere sempre nella Chiesa la legge suprema.      

 




La fatica del decidere

di Carlo Nardi • Tra i sette doni dello Spirito Santo c’è quello del consiglio. Essendo dono, è nell’ambito della grazia, della carità in senso teologale che ha Dio come origine e fine, come fonte e motivazione. Lo si riceve nel battesimo ed è rafforzato nella cresima. Si ricorda, a questo proposito, la preghiera d’invocazione, detta epiclesi, da parte del vescovo con l’imposizione delle mani prima della crismazione, quando s’invoca tra i sette doni anche quello del consiglio. Rispetto alla virtù umana, morale, cardinale, ‘classica’ – da Platone in poi – della saggezza, talora detta ‘prudenza’, definita come ‘retta ragione delle cose possibili a farsi’ (recta ratio agibilium), si potrebbe dire l’arte del possibile, c’è anche un dono del consiglio. A quale scopo? In concreto, sana la persona in carne ed ossa, perché facilmente l’accortezza umana si muta in astuzia o furbizia che a rigor di termini non sono più virtù. E non solo corregge, ma anche rafforza la vera saggezza nel soggetto concreto e la eleva da virtù umana in certo senso a divina, quella che, almeno implicitamente, opera per ragioni di fede, nella prospettiva della speranza cristiana, con quella carità che, – c’è bisogno di ricordarlo? – è innanzi tutto dono di Dio. HIC HIC
Qual è lo scopo di questo specifico dono del consiglio? Direi: vedere, giudicare e agire, qui e ora. In definitiva, dire e fare così come direbbe e farebbe Gesù al mio posto.
Il dono è ricevuto col battesimo e rafforzato nella cresima. E’ mortificato, come dire paralizzato dal peccato grave e da quell’abitudine al peccato che si chiama vizio. E’ ravvivato dallo Spirito Santo col dono della sua grazia, quell’<<amore di Dio effuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è donato>> (Rom 5,5), che è quanto si deve intendere per ‘carità’. È esercitato nel concreto consigliare.
Ma perché e dove consigliare? Consigliare per solidarietà umana e cristiana, – siamo tutti sulla stessa barca: quindi anche non richiesti, certo con discrezione -, personalmente, in sede debita, per ufficio. Il dono del consiglio lo si esercita nell’elaborazione delle decisioni, nella cosiddetta cognizione di causa che ci tocca un po’ tutti per non agire a vanvera.
Quando si consiglia bene o, almeno, per benino? Intanto, quando si consiglia senza preferenze di persone, come ammonisce più volte la Bibbia: non perché una cosa la dice quello dev’esser giusta per forza, non perché la dice quell’altro dev’essere sbagliata per forza. Poi, senza essere giudici in una causa che ci riguarda (nemo iudex in causa propria): quant’è facile darci ragione! Piuttosto, c’è meno rischio di sbagliare, quando si pensa che ‘‘ogni cosa vera da chiunque venga detta viene dallo Spirito Santo’’ (s. Ambrogio? s. Tommaso d’Aquino). In una parola, si consiglia bene, avendo davanti agli occhi solo Iddio, e Lui solo è grande, almeno molto di più del nostro cervello o dei cervelli umani.
E, per non far perdere tempo, si consigliano cose nell’ambito del possibile: un uomo non può augurarsi d’avere in moglie Venere, diceva, se ben ricordo, un poeta greco. Nel campo del possibile si consiglia ‘la  cosa più onesta e la più generosa’: è un criterio formulato dal Manzoni, quanto mai opportuno, coscienziosa applicazione umana di quel dire o fare quel che direbbe o farebbe Gesù al mio posto. Ascoltiamola, la frase del Manzoni, dalle Osservazioni sulla morale cattolica (cap. 3):
<<Si domandi a un cristiano
quale sia
in ogni caso
la risoluzione più ragionevole e più utile;
dovrà rispondere:
la più onesta e la più generosa>>.
Innanzi tutto ‘la più onesta’, perché ‘non si può fare il male perché ne venga un bene’, che poi non sarebbe generosità per tutti, ma solo per gli interessati.
E si consiglia e si sceglie in vista del bene comune, con particolare attenzione ai più deboli, a chi le proprie ragioni non le può neppure dire, perché appunto le possa dire, le proprie ragioni.




Il coraggio della gioia: le “Inchieste su Gesù” di A. Tornielli

di Dario Chiapetti • L’Autore Andrea Tornielli, vaticanista del quotidiano “La Stampa” e coordinatore del sito web Vatican Insider,  laureato in storia della lingua greca all’Università di Padova, con Inchieste su Gesù (Gribaudi, 2014), che raccoglie due suoi lavori, Inchieste su Gesù bambino (2005) e Inchiesta sulla Resurrezione (2006), scende di nuovo in campo come storico conducendo una inchiesta giornalistica per accertare la storicità dei due eventi portanti della fede cristiana: l’incarnazione e la resurrezione di Cristo. L’Autore ricostruisce nella prima sezione il quadro dell’evento della nascita di Gesù attraverso l’analisi storica degli aspetti cronologici, geografici, sociologici narrati dai Vangeli e dalle fonti extra-bibliche; nella seconda quello relativo alla passione del Signore confrontandosi con i risultati dell’esegesi moderna di matrice illuminista della quale ne mette in luce sia la radice filosofica dell’equivoco nella quale è incappata, ovvero, la scissione tra fede e ragione (già da Ockham) sia l’ermeneutica conseguente che partendo dal postulato a-priori secondo il quale i Vangeli non sono libri ispirati (Renan) mira semplicemente a trovare giustificazioni e categorie interpretative per dare significati ai racconti. Il contributo che invece l’Autore tenta di dare sta anzitutto nella ricentratura dell’oggetto di studio, non già la persona di Cristo ma la storia, categoria nella quale rintraccia indizi sui quali ricostruisce i fatti narrati e in essi ne coglie l’intelligenza storica e teologica. L’Autore concepisce tale categoria come luogo teologico, cioè come sviluppo del ‘tempo’ reso – appunto – ‘storia’ dal ‘significato’ che è il dirsi e il darsi di Dio non escludibile a-priori come possibilità della e nella storia ma anzi giustificatamente da considerarsi per non lasciare inspiegato lo sviluppo della Chiesa dopo il fallimento della croce che dal “Big Bang” della Pasqua prende inarrestabile avvio.  L’Autore mostra di sapere che per le scienze storiche, diversamente da quelle ‘esatte’, la convergenza di indizi fa una prova e che “non esiste la categoria del verosimile, ma solo quella del probabile” (Marta Sordi). La storia è l’oggetto, l’indagine storica è il metodo: l’Autore si mostra estraneo ai “narcisismi” intellettuali di cui ha parlato il Papa; egli non è l’esegeta che risente ancora degli a-priori del razionalismo; non è il dogmatico ancora tentato di staccare le sue riflessioni dal dato biblico; egli si presenta, invece, come un fedele che, a partire dall’esperienza, crede in e a Gesù; come storico che usa gli strumenti propri del suo lavoro (lettura e utilizzo di fonti bibliche e extra-bibliche, comparazione tra di esse, individuazione di criteri interpretativi, intelligenza dei segni, attenzione anche agli apparenti insignificanti particolari, ecc.); e infine come giornalista che compie uno studio sulla “notizia più grande della storia” e dalle cui tecniche del mestiere egli deriva il preciso metodo investigativo come si evince soprattutto dalla prima parte i cui capitoli rispettivamente rispondono alle “four w”: who? when? where? what? Grazie a tale accuratezza di studio e della quale si lascia al lettore il compito della constatazione, l’Autore perviene al seguente risultato: ciò che è riportato dai Vangeli è storico, i Vangeli – come il Magistero afferma – pur non essendo delle cronache traggono le mosse dalla storia. Il lettore se ne potrà facilmente rendere conto attraverso la lettura sia dei capitoli che affrontano le questioni apparentemente secondarie quali la descrizione della posizione delle bende nel sepolcro, sia dei capitoli che affrontano quelle cruciali quali il sepolcro vuoto e le apparizioni post-pasquali. Dal libro emerge che sia l’oggetto (i Vangeli quali attestazioni di un fatto storico) sia il metodo (l’indagine storica) non sono degli optional. O Cristo è esistito ed esiste storicamente e storicamente si rende incontrabile su questa terra o non c’è speranza per l’uomo. Si è passati dalla negazione della storicità dei Vangeli (Reimarus) alla messa tra parentesi della problematica perché ritenuta ininfluente (Bultmann). Ciò risponde a quella sorta di spiritualismo dell’uomo moderno che avendo perso il contatto con Dio ha perso il contatto con la realtà, per cui prima la nega, poi se ne disinteressa. Ciò risponde a quella svalutazione e a quella “vergogna” per la carne e la carne di Cristo di cui spesso parla il Papa. Ma se Egli non è entrato nella carne (incarnazione) come può l’uomo trovarLo nella propria vita? E se Egli non ci attira nella Sua carne (cristificazione) come può l’uomo compiere sé? Infine, perché questa diffidenza verso la più buona notizia mai data nella storia? Risponde l’allora card. Bergoglio nella prefazione al volume sulla risurrezione: “paura della gioia”; e indentifica il criterio ultimo di verificabilità della verità (come già s.Tommaso) quando, proseguendo, afferma che le storie apocrife “non dicono nulla all’essere e al desiderio del nostro cuore”.




Una fede all’insegna del “noi”

di Alessandro Clemenzia • «E’ impossibile credere da soli». Con queste parole si apre il n. 39 della Lettera Enciclica Lumen Fidei, inserendosi all’interno del tema sulla trasmissione della fede. L’incontro con Cristo, un evento fondamentalmente personale, tanto da segnare in modo indelebile l’interiorità del soggetto credente, avviene sempre all’interno di un processo di comunicazione, e dunque in un sistema relazionale. Già nel numero precedente dell’Enciclica (n. 38), è scritto: «La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri». L’esperienza del credente, in altre parole, avviene sempre all’interno di un contesto comunitario, ecclesiale, non soltanto come luogo di trasmissione della fede, in senso temporale («non posso vedere da me stesso quello che è accaduto in un’epoca così distante da me», n. 38), ma anche come spazio in cui il singolo “io” si auto-comprende nell’oggi, nel momento in cui si apre alla dimensione del “noi” ecclesiale: «La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità credente, non è rapporto isolato tra l’“io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al “noi”, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa» (n. 39). Particolarmente interessante è la sottolineatura fatta a proposito della fede che si apre alla comunione: «per sua natura». La comunionalità, infatti, non può significare l’obiettivo dell’esperienza cristiana, ma ne è il punto di partenza e l’orizzonte all’interno del quale è possibile recuperare il senso del proprio “io” di fronte al “Tu” di Dio. E questo ha un valore ecclesiale veramente importante: non sono i singoli “io” a generare il “noi”, ma è il “noi” lo spazio all’interno del quale i singoli “io” si appropriano della propria coscienza singolare. Questo «per sua natura», tuttavia, non si radica esclusivamente nella dimensione ecclesiale della fede, nel fatto cioè che ciascun “io” si riconosca come interlocutore del “Tu” di Dio all’interno di un “noi” già dato, ma si riferisce in particolare al ritmo trinitario che caratterizza lo stesso “Tu” divino, vale a dire l’essere, a sua volta, un “Noi”. Continua Papa Francesco: «Questa apertura al “noi” ecclesiale avviene secondo l’apertura propria dell’amore di Dio, che non è solo rapporto tra Padre e Figlio, tra “io” e “tu”, ma nello Spirito è anche un “noi”, una comunione di persone» (n. 39). Prima di entrare nel riferimento trinitario della fede cristiana, è opportuno fare una precisazione sulle cosiddette categorie personologiche che sono qui utilizzate: l’io, il tu e il noi. La categoria del “noi” non viene intesa come la somma o, peggio ancora, una sintesi anonima del rapporto tra l’“io” e il “tu” (come, ad esempio, avviene nell’uso colloquiale della lingua italiana, in cui si può tranquillamente dire: “noi due”); il “noi” non è neanche la condizione etica del fatto che uno si trova di fronte all’altro. Esso, invece, chiama in causa un terzo, non esterno né estraneo (come se fosse un “egli”), verso il quale l’”io” e il “tu” si rivolgono, guardando verso un’unica direzione. In Dio è proprio lo Spirito Santo, il terzo, che non funge da chiusura “perfetta” del rapporto tra Padre e Figlio, ma anzi lo apre, rompendo lo schema di una reciprocità duale. Il principio della “terzietà” è proprio ciò che garantisce la pienezza della relazione in quanto è la fuoriuscita e la ridondanza della relazione tra l’“Io” e il “Tu” divini. Lo Spirito Santo, infatti, è l’eccedenza dell’amore tra Padre e Figlio, che esce da Dio per raggiungere il non-Dio: l’uomo. Potremmo quasi dire, che lo Spirito è l’amore che circola in Dio fino a raggiungere, dalle sue viscere (utilizzando un termine oggi conosciuto e usato), la periferia di Dio, e cioè l’umanità, rendendola partecipe di quella dinamica intradivina, di cui Egli è la personificazione. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se la Tradizione ha conferito alla terza Persona della Trinità il nome di Amore: e l’amore è tale quando si apre verso l’esterno, generando a sua volta, nell’altro-da-sé, la stessa dinamica che le è propria. L’“io” del credente, che ha come oggetto di fede un Dio che in se stesso è un “Noi”, deve assumere (nel senso più alto del termine) dal rapporto personale che ha instaurato con il “Tu” di Dio, lo stesso ritmo trinitario, non solo riconoscendo nel “noi” ecclesiale comunitario l’origine di se stesso, ma sapendo che l’apertura all’altro, chiunque esso sia, è parte integrante della sua relazione con Dio, in quanto è la fecondità del rapporto, la sua terzietà. Si tratta di una fede  inverata e plasmata dall’oggetto cui essa aderisce.




I giovani tra la fatica della scelta e la cultura del provvisorio

di Stefano Liccioli • «Per favore, non dobbiamo lasciarci vincere dalla “cultura del provvisorio”». Incontrando, il giorno di San Valentino, i fidanzati che si preparano al matrimonio, papa Francesco ha rivolto loro questo invito a non aver paura di fare scelte definitive, di amarsi “per sempre”. Il Santo Padre ha messo così in evidenza uno dei tratti, a mio parere, più caratteristici della società odierna ed in particolar modo del mondo giovanile: il timore cioé di fare scelte per tutta la vita, in un contesto invece dove tutto cambia velocemente e niente sembra durare a lungo. Questa mentalità, tradotta nelle relazioni umane, fa sì che si sia scettici ad esempio sulla possibilità che un matrimonio possa resistere “finchè morti non ci separi”, ripiegando in un più comodo “stiamo insieme finché dura l’amore”. Recentemente già il sociologo Zygmunt Bauman ci aveva messo in guardia dai pericoli di una “società liquida” in cui i cambiamenti avvengono in fretta, in cui tutto è incerto e dunque anche i rapporti umani risentono di questa provvisorietà. In tale contesto ci attende una sfida educativa importante: aiutare i giovani a coltivare relazioni stabili e non “usa e getta”, insegnare loro che l’amore così come l’amicizia per crescere e durare nel tempo richiedono costanza, pazienza e sacrificio, una cura ed un impegno quotidiani. La felicità non starà, dunque, nel rifuggire la routine, inseguendo sempre nuove emozioni (come insegna la società dei consumi), ma nel mantenersi fedeli alle scelte fatte, nel lavorare per far crescere i legami. Legami, appunto, che per essere mantenuti vivi hanno bisogno di dedizione e fatica e che non possono essere assimilati alle semplici e comode connessioni di Facebook. Relazioni in cui non si cerca esclusivamente il bene di se stessi, ma anche quello dell’altro, storie che, se entrano in crisi, non si buttano, come si fa con qualsiasi oggetto difettoso, ma si deve fare lo sforzo di ripararle. Nella mia esperienza d’insegnante cerco di combattere questa mentalità per cui si possano raggiungere gli obiettivi (nello studio, nel lavoro ed appunto anche nei rapporti umani) senza fatica. La scuola è infatti un punto d’osservazione importante sul mondo giovanile, permette di analizzare tutte queste dinamiche, di vederle in atto. Stando a contatto con gli adolescenti si può cosi sperimentare che tendono, ad esempio, a non prendersi impegni a lungo termine, anche nelle cose più semplici, per timore che la scelta di oggi possa precludere occasioni migliori che in futuro potrebbero presentarsi. Essi preferiscono così non vincolarsi a delle proposte che li vengono fatte perché domani potrebbe subentrare qualcosa di meglio. In questo quadro capite bene come tra i giovani sia ormai considerata del tutto normale la convivenza, da preferire addirittura al matrimonio proprio perché permette di non impegnarsi fino in fondo, di poter andare a cercare in futuro qualcosa di più promettente che ancora non si è sperimentato, senza dover mettere di mezzo giudici o avvocati. Ritengo che i giovani, oggi più che mai, abbiano bisogno di figure educative autorevoli, capaci di accompagnarli nelle decisioni che devono compiere, senza ovviamente sostituirsi a loro. Accompagnando una quinta all’esame di maturità posso percepire con quale “timore e tremore” guardino al loro futuro, anche professionale, alle scelte che devono compiere. Come educatori non possiamo esimerci da questo compito di stare vicino a ragazzi e ragazze negli snodi importanti della loro vita, di farli capire, come suggerisce Kierkegaard, che il mantenersi fedeli alle proprie scelte è meglio di lasciarsi vivere e sedurre da tutte le varie occasioni che si possono presentare.




La mediazione: uno strumento per la soluzione dei conflitti dal forte valore etico sociale. (incontro di studio, Firenze 10 Aprile 2014)

di Gianni Cioli • Il 10 aprile 2014 a Firenze presso l’Aula Magna della Facoltà teologica dell’Italia centrale si è svolta la seconda edizione dell’incontro di studio su La mediazione: uno strumento per la soluzione dei conflitti dal forte valore etico sociale, promossa dall’Unione Giuristi Cattolici Italiani, dalla Facoltà teologica dell’Italia centrale e dalla Camera di Commercio di Firenze. L’intento del convegno è stato quello di offrire un percorso interdisciplinare di riflessione e di approfondimento sul significato etico e sociale della mediazione, introdotta con il Decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, quale istituto giuridico alternativo al processo civile volto alla risoluzione dei conflitti. Dopo i saluti e le introduzioni di Stefano Tarocchi, preside della Facoltà Teologica, di Laura Benedetto, segretario generale della Camera di Commercio di Firenze, e di Francesco Zini, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, si sono susseguiti gli interventi in programma: Brunella Tarli, della Camera di Commercio di Firenze, su Panoramica della mediazione ed esperienze della C.C.I.A.A. di Firenze; Mario Buzio, notaio e mediatore, su Violenza e carità nel conflitto; Gianni Cioli, della Facoltà Teologica, su Conflitto, giustizia e mediazione: riflessioni etico-teologiche; Chiara Mambelli, avvocato e mediatore, su Esposizione di un caso pratico – Santa Rita da Cascia, una Santa mediatrice – La devozione della Madonna che scioglie i nodi. Il mio intervento ha inteso offrire un contributo strettamente teologico interpretando nell’orizzonte biblico la categoria della mediazione alla luce di quelle di conflitto e di giustizia. La questione cruciale a cui è approdato il discorso si può ricondurre ad una domanda provocatoria: Per chi vale il Discorso della montagna? Ovvero, il nocciolo della morale evangelica è un messaggio rivolto solo alla comunità cristiana, anzi a una comunità cristiana particolarmente qualificata, oppure è un’opportunità per la famiglia umana in quanto tale? Una risposta ci può giungere dalle ponderate argomentazioni del teologo Klaus Demmer che riconosce nella morale improntata al vangelo la forza di orientare a un «progressivo superamento di tutte le costrizioni che nascono dalla storia della colpevolezza umana» e quindi di prospettare, nelle situazioni conflittuali, la possibilità, e pertanto la doverosa ricerca, di alternative migliori rispetto allo scontro (K. Demmer, Christi vestigia sequentes. Appunti di teologia morale fondamentale, Roma 21989, 139).

Anche il magistero della chiesa ci invita a guardare in questa direzione quando ad esempio promuove la ricerca della pace a tutti i livelli e quando afferma il valore essenziale della relazionalità per interpretare l’humanum (cf. Benedetto XVI Caritas in veritate n. 55)- Le nuove normative sulla conciliazione gestita da un mediatore, terzo e imparziale, come metodo alternativo per la risoluzione di controversie possono risultare un’opportunità per favorire lo sviluppo di una cultura di pace più prossima al significato biblico della parola. Si tratta di una cultura che anche il recente magistero della chiesa propone quale meta non ai soli cristiani ma a tutti gli uomini di buona volontà, alla famiglia umana in quanto tale e, quindi, a tutta la società e a tutte le società in genere. Certo, la “giustizia migliore” (cf. Mt 5,26) del Nuovo Testamento che si attua nella sequela di Cristo in realtà è molto di più che una migliore tutela dei propri interessi mediante vie non conflittuali: è disposizione a lasciare tutto per il tesoro del Regno e quindi a relativizzare i propri presunti legittimi interessi; a rinunciarvi in particolare a favore dei poveri coi quali Cristo ha voluto identificarsi. Tuttavia l’opportunità di tutelare i propri interessi superando il conflitto mediante la conciliazione può essere un segnale minimale ma importante nella direzione dell’ideale evangelico: un segnale particolarmente significativo nell’attuale congiuntura culturale. In effetti nella nostra società si percepisce una crescente inflazione della conflittualità. E il conflitto, se inflazionato, da potenziale stimolo alla ricerca della giustizia diventa fattore distruttivo per ogni occasione di collaborazione sociale. Il conflitto non deve essere negato, rimosso e demonizzato. Deve essere gestito. Entro una certa misura esso può essere sintomo del bisogno di giustizia che incessantemente si ripresenta nella fluidità delle relazioni umane e mezzo per affrontare e superare situazioni di ingiustizia più o meno latenti. Non la negazione, ma la corretta gestione del conflitto può contribuire a valorizzare e migliorare le relazioni umane. Quando però viene inflazionato, da mezzo rischia di diventare scopo, finendo per alimentare l’ingiustizia anziché contrastarla. Mi pare che la mediazione quale strumento offerto dalla recente riforma legislativa possa essere effettivamente uno stimolo ad orientarsi verso una migliore interpretazione e gestione dei conflitti.




Filosofia va cercando… La teologia nella crisi della ragione

di Francesco Vermigli • Sono passati oltre quindici anni dalla promulgazione della Fides et ratio e vien da chiedersi se sia realmente cambiato qualcosa rispetto al quadro tratteggiato da Giovanni Paolo II nell’enciclica stessa. Infatti, non è un anniversario che ci rimanda a quel testo (come potrebbero esserlo quindici anni e sei mesi circa dalla pubblicazione?), né la prossima canonizzazione del papa polacco (che potrebbe essere ricordato per tanti altri atti magisteriali): si tratta, piuttosto, di una sollecitazione che nasce dall’analisi dello stato attuale della filosofia e dalle conseguenze che questa situazione può recare alla teologia. Come nell’adagio “dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna” (un poco da verificare caso per caso, in verità…), si direbbe che anche alla base di una teologia che abbia la pretesa di dire qualcosa di significativo alla Chiesa e al singolo credente, c’è sempre uno sguardo sintetico sul reale e sulla sua conoscibilità; in breve, c’è sempre il recupero di una riflessione filosofica non superficiale. Di conseguenza, dove zoppica questa prospettiva complessiva sul mondo e sull’uomo, dove – in particolare – all’intelletto viene preclusa la possibilità stessa di dire qualcosa di credibile sul reale, zoppica la fede e zoppica la capacità di riflettere sulla fede e di esporla. Si direbbe che teologia e filosofia simul stabunt, simul cadent… Non si tratta – si badi – di una specifica filosofia, ma della generica riflessione razionale, che non escluda la possibilità di trovare nessi e significati nella realtà e non si opponga a ricevere un’illuminazione, a propria volta, dal pensiero credente. Ne era consapevole il papa laddove notava: «sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l’una di fronte all’altra» (Fides et ratio, 48), nella convinzione che «non le varie opinioni umane, ma solamente la verità può essere di aiuto alla teologia» (FR 69). Se volgiamo lo sguardo alla teologia degli ultimi decenni, ci imbattiamo in convergenze fruttuose tra gli sviluppi del pensiero filosofico ed esigenze rilevanti dell’intelligenza della fede. Quanto ha influito l’intensa corrispondenza con Blondel – proprio a riguardo del metodo dell’immanenza, che egli aveva elaborato con grande intuizione a partire dalla fine dell’800 – sul recupero dell’autentica tradizione tommasiana circa il desiderium naturale videndi Deum operato da de Lubac? E ancora, cosa mai potremmo capire dell’antropologia soprannaturale e dell’idea del Salvatore Assoluto di Rahner senza ritornare all’impatto esercitato sul gesuita tedesco dalla rilettura di Tommaso in chiave trascendentale compiuta da Maréchal? E, ancora, cosa capiremmo della cristologia come Assoluto nella storia e dell’analogia libertatis come rielaborazione del classico tema dell’analogia entis all’interno del pensiero di Kasper, senza conoscere del suo interesse giovanile e mai sopito per l’ultima filosofia di Schelling? E, soprattutto, quanto di tutto questo non è stato la manifestazione dello sforzo della teologia di essere fedele alla tradizione e, ad un tempo, di intercettare l’evo moderno segnato dall’importanza predominante della soggettività?Ebbene, cosa resta oggi di quelle preoccupazioni di Giovanni Paolo II? Sono pensabili ancora interazioni sul modello di ciò che è accaduto nella teologia del ‘900? Quanto la filosofia attuale si mostra inquieta nella ricerca della verità, che – per dirla con il papa – sola può essere di aiuto al pensiero credente? In realtà, il nietzschiano “non ci sono fatti, solo interpretazioni” parrebbe ancora trovarsi a proprio agio nella nostra epoca. Di più, da assioma di buona parte della filosofia degli ultimi decenni, si è volgarizzato come forza trainante della vita ordinaria, quale linfa dello Zeitgeist, come unica paradossale certezza in un mare di liquida e dissolvente incertezza. Alcuni anni fa, uno spettro s’aggirò per qualche settimana tra le pagine dei giornali che contano. Uno spettro venuto su chissà da dove e che i nostri tempi fecero fatica a riconoscere, tanto risultava singolare: era lo spettro del “nuovo realismo”. Ben presto, le forze soverchianti del mainstream lo ricacciarono indietro nelle tenebre della storia, da dove esso era risalito inopinatamente. Cosa resta, ripetiamolo, di quelle esortazioni pontificie? Il pensiero debolissimo è forse ancora tutto ciò che la filosofia dei nostri giorni pare riuscire ad offrire alla teologia. Il che poi è dire che la filosofia odierna offre alla Chiesa e alla teologia ciò che essa non può sfruttare. Sempre che il magnifico insegnamento agostiniano secondo cui «cogitat omnis qui credit, et credendo cogitat, et cogitando credit» (De praedestinatione sanctorum, 2, 5) abbia per la Chiesa ancora un valore, si capisce…




Paolo VI, Don Renzo Rossi e le torture brasiliane

di Antonio Lovascio • Il compito del Papa oggi è quello di riportare il mondo a Dio attraverso l’annuncio del Vangelo,  il dialogo con la storia, la predicazione della Giustizia, la riaffermazione dei diritti umani. Bergoglio punta spesso i riflettori sull’America Latina, da cui proviene, non sottraendosi dal  proporre una rilettura critica di quella che è stata – a partire dalla fine degli Anni Sessanta – la “Teologia della liberazione”, riaffermando il primato della fede sull’uso dell’ermeneutica marxista.  “Una Chiesa povera per i poveri”, all’insegna della concretezza, senza orpelli filosofici: il motto di Papa Francesco lo troviamo perfettamente incarnato nell’esperienza missionaria vissuta nell’ultimo mezzo secolo – senza contagi e condizionamenti dottrinali –  da tanti sacerdoti italiani. Uno per tutti, don Renzo Rossi, il prete fiorentino dell’Opera Madonnina del Grappa, approdato in Brasile nel 1965, agli inizi della dittatura, e lì rimasto per 30 anni. La sua storia, ad un anno dalla morte,  è raccontata da Mario Bertini nel volume “Un divino colpo di tosse”, edito dalla SEF. Un’ampia intervista postuma, integrata da testimonianze e documenti inediti, che indirettamente confermano quanto la Chiesa – sotto la guida di Papa Montini e dei suoi successori – ha fatto per evangelizzare i popoli latino-americani e contrastare le atrocità delle giunte militari in  Sudamerica. Discepolo del cardinale Dalla Costa, compagno di seminario di don Milani e del cardinale Piovanelli,  tante amicizie importanti (primo fra tutti La  Pira) dopo aver fatto il parroco ed il cappellano in fabbrica, don Rossi ha fatto da “apripista” – con il marchigiano don Paolo Tonucci, e poi i fiorentini don Sergio Merlini , don Alfredo Nesi e don Piero Sabatini – ad un servizio pastorale in favore dei poveri  e degli oppressi nella parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe a Salvador Bahia e in altre comunità. Un inferno di capanne precarie e di discariche  a cielo aperto; e, in quell’inferno, bambini denutriti, donne e uomini segnati dalla durezza della vita, che sicuramente ora hanno una casa serena e luccicante in Paradiso. A  loro i nostri preti, seguendo anche i consigli di monsignor Helder Camara, hanno insegnato la fierezza di essere figli di Dio. Come l’hanno insegnata ai prigionieri politici sottratti alle famiglie e seviziati dalla polizia del regime militare, durato in pratica fino al 1985. In questo campo di apostolato l’esperienza decisiva per don Renzo  arrivò nel 1970, quando ottenne di visitare in carcere il frate domenicano veneziano Giorgio Callegari (conosciuto nel ‘69 a San Paolo) rinchiuso e torturato  a Tiradentes insieme ai frati Tito de Alencar Lima,  Fernando Britto ed a Frei Betto. E quando nel 1974 venne incarcerato un suo parrocchiano, don Rossi incominciò il lungo pellegrinaggio “sotto traccia” da un penitenziario all’altro, per portare il conforto e la benedizione dell’arcivescovo di San Paolo, il cardinale francescano Paulo Evaristo Arns – in stretto contatto con Paolo VI – e di quello di Bahia, Dom Avelar, che hanno sempre sostenuto le famiglie dei “desaparecidos”. E’ stata  proprio la voce di don Renzo ad alzarsi, tra le prime, per condannare e  far conoscere in tutta Europa le nefandezze di quella giunta militare, denunciate in modo vibrante alla stampa internazionale ed alle Tv anche dal cardinale Giovanni Benelli nella visita compiuta con il missionario alle favelas e al lebbrosario, poche settimane prima di morire (1982). L’arcivescovo di Firenze (che era stato due anni in Brasile proprio agli inizi della sua carriera diplomatica)  conosceva già il “dossier desaparecidos”. Lo aveva trattato da Sostituto in Segreteria di Stato: Papa Montini  era stato infatti informato degli orrori di Tiradentes, dove le camere di tortura “lavoravano” giorno e notte, dilaniando la dignità di persone che avevano scelto di stare dalla parte dei poveri. Proprio i religiosi domenicani, a nome degli altri detenuti, avevano fatto arrivare in Vaticano un messaggio disperato accompagnato da una piccola croce in legno, da loro stessi costruita manualmente in cella come simbolo della sofferenza. Secondo la recente testimonianza dello scrittore Ettore Masina (che per la Rai seguì il Concilio e  tutto il pontificato di Paolo VI, come lui di origini bresciane, e che ha pubblicato libri e saggi sull’America Latina, grazie anche alle informazioni raccolte personalmente da don Rossi e don Tonucci), a portare nei Palazzi Apostolici quel messaggio di martirio fu Marcella Ceccacci Glisenti. Una paladina del Terzo Mondo, che ha speso le sue energie in una rete di solidarietà internazionale. Una intellettuale cattolica che nel 1947 con Dossetti, Lazzati, La Pira, Moro e Fanfani – impegnati in quel momento ad elaborare la prima parte della nostra Costituzione – diede vita alla rivista di sociologia e politica “Cronache sociali” diretta dal marito Giuseppe Glisenti. Marcella conosceva il Pontefice fin dagli anni in cui era pro-segretario di Stato e ancora punto di riferimento della Fuci e degli ex fucini. <La croce – scrive Masina, che ora collabora a “Jesus” ed a “Lettera”-  giunse alla sua destinazione finale. Lo sappiamo per certo perché, appena eletto arcivescovo di San Paolo (1970) Evaristo Arns portò ai carcerati del Tiradentes la benedizione di Paolo VI e la promessa del pontefice (poi davvero mantenuta) che avrebbe fatto tutto il possibile contro le atrocità del regime>. Dunque se il Brasile (con altri Paesi latino-americani) ha ritrovato la  democrazia e avviato lo sviluppo economico, lo si deve anche all’opera dei missionari italiani (alcuni i hanno perso la vita anche dopo la dittatura), che in quella terra hanno portato i semi dell’evangelizzazione, ma anche aiutato la gente delle favelas a ribellarsi alle violenze ed ai soprusi. Ma lo si deve anche al coraggio ed alle intuizioni di Montini, spesso richiamati da Papa Francesco. Con il Concilio Vaticano II, Paolo VI indicò alla Chiesa universale ed a quella brasiliana la strada da percorre. Essenziale, semplice. Quella contenuta nel “Credo” del popolo di Dio e nella “Populorum progressio”: custodire la fede, servire i poveri.