San Raimondo di Peñafort patrono dei giuristi. Dalla cattedra all’altare

S.Raimondodi Francesco Romano • Il 7 gennaio la Chiesa fa memoria di San Raimondo di Peñafort, patrono dei giuristi e delle facoltà di diritto canonico. Il Santo nacque intorno al 1175 a Villafranca del Penadès, presso Barcellona dove vi morì centenario il 6 gennaio 1275. Fu beatificato da Paolo III nel 1542 e canonizzato da Clemente VIII il 29 aprile 1601.

Dopo aver studiato le arti liberali del Trivium e Quadrivium e insegnato a Barcellona retorica e logica, nel 1210 Raimondo si recò a Bologna attratto dallo studio del diritto, conseguendo dopo otto anni la laurea in ius canonicum e nel 1219 la licentia ubique docendi. A Bologna Raimondo respirò il clima culturale della città entrando in contatto con insigni giuristi del tempo come Sinibaldo Fieschi, futuro Innocenzo IV, Accursio, Tancredi, Pier delle Vigne. Un tratto particolare di Raimondo come professore fu il disinteresse per la remunerazione, come poi si teorizzerà nella Summa de poenitentia sotto il Titolo “De magistris, et ne aliquid exigant pro licentia docendi” (L. I, Tit. III).

A Barcellona, dove era rientrato per insegnare nel seminario, nel 1222 Raimondo lasciò il canonicato della Cattedrale per entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori. Nel 1223 aiutò Pietro Nolasco a fondare l’Ordine dei Mercedari per il riscatto degli schiavi. Il suo spirito di umiltà lo spinse a chiedere ai Superiori penitenze per le sue colpe commesse nel mondo. Per risposta gli fu imposto di comporre una Somma che descrivesse casi di coscienza a uso dei confessori. Dal 1224 al 1231 pubblicherà la Summa Raymundi includendo più titoli: Summa de iure canonico, Summa de poenitentia, Summa de Matrimonio. Sotto il titolo Responsiones ad dubitalia vengono raccolte numerose consultazioni giuridiche che Raimondo scrisse per risolvere problemi di coscienza nel foro interno che venivano presentati al Papa.

Il nome di Raimondo in breve ebbe molta risonanza per essersi speso alacremente in Spagna nella predicazione della crociata al seguito del Card. Giovanni d’Abbeville, Legato Pontificio. Stesso impegno lo profuse nella predicazione che Gregorio IX nel 1229 gli affidò per le province francesi di Arles e di Narbonne a favore della spedizione in Maiorca contro i Mori. L’anno successivo il Papa lo nominò cappellano e penitenziere con il preciso compito di expeditor petitionum pauperum a favore delle suppliche dei poveri.

Sempre sottomesso alla volontà dei Superiori e del Pontefice, una sola volta Raimondo vi si sottrasse quando il Papa gli propose in segno di stima e riconoscenza di diventare arcivescovo di Tarragona, dimostrando con questa rinuncia il più alto significato di gratuità con cui si era impegnato nel servire la Chiesa con generosità e competenza.

Raimondo accolse la richiesta del Papa di raccogliere e ordinare le decretali pontificie rimaste fuori dal Decretum Gratiani. Per questo la collezione delle Decretales Gregorii IX è detta anche Liber Extra. In quattro anni Raimondo portò a termine il lavoro secondo la metodologia illustrata da Gregorio IX nella bolla Rex Pacificus con cui il 5 settembre 1234 pubblicò la Collezione e la inviò alle Università di Bologna e Parigi quale diritto ufficiale da insegnare.

L’opera di Raimondo in cinque libri (iudex, iudicium, clerus, connubium, crimen) è consistita nel raccogliere le costituzioni e le decretali dei papi precedenti eliminando le contraddizioni e le parti confuse, introducendo le decretali di Gregorio IX e chiedendone a lui di nuove in caso di dubbi insolubili.

L’ingegno giuridico di Raimondo risalta dalla sua opera non meramente di raccolta. Il Pontefice la promulgò, quale ius novum il cui uso esclusivo nei tribunale e nelle università per decreto del Papa determinerà il superamento del ius antiquum. Entrate a far parte del Corpus iuris canonici, le Decretali di Gregorio IX resteranno in vigore fino alla promulgazione del Codex Iuris Canonici del 1917.

L’animo di Raimondo fu lontano dalla gratificazione che può giungere dai titoli e dalle onorificenze e la sola idea di diventare arcivescovo di Tarragona si narra che gli avesse scatenato una febbre per tre giorni. Suo malgrado, non riuscì a sottrarsi nel 1238 all’elezione a Maestro Generale dell’Ordine, il terzo dopo Domenico di Guzmán e Giordano di Sassonia, ma dopo soli due anni con grande umiltà Raimondo supplicò i Provinciali riuniti in Capitolo di essere sollevato dall’incarico per le crescenti infermità. La fragilità del corpo non gli impedì di visitare tutte le Province dell’Ordine e di completare l’opera di revisione della Regola in armonia con la mente di San Domenico. La codificazione raimondiana divenne la base delle Costituzioni e della legislazione di tutto l’Ordine fino al 1924.

Lo zelo missionario per Raimondo non fu solo un anelito, ma si tradusse in iniziative concrete come l’aver istituito a Tunisi la scuola per preparare nella conoscenza della lingua araba i missionari in Spagna, Marocco, Egitto, Siria e Asia. Uno Studium Haebraicum venne aperto a Murcia per facilitare i missionari nell’opera di conversione degli ebrei di Spagna. Si deve a Raimondo se Tommaso d’Aquino compose su sua richiesta la Summa contra Gentiles destinata alla scuola per i missionari.

Il desiderio di una vita solitaria e contemplativa accompagnò costantemente Raimondo, ma le rinunce che fu costretto ad abbracciare per l’alternarsi di varie responsabilità divise tra lo studio, il governo e la pastorale, hanno reso ancor più esemplare la figura di questo Santo che seppe anteporre alle sue aspirazioni il disegno provvidenziale, facendo della sua intera esistenza un dono che si tradusse in autentico servizio alla Chiesa.




Il seno di Abramo nella teologia e nella iconografia medievali

Mosaici_del_battistero,_paradiso_06_gerusalemme_celestedi Gianni Cioli • L’immagine del seno di Abramo come dimora escatologica ha goduto di una singolare fortuna nella riflessione patristica come pure nella teologia e nell’iconografia medievali. Essa si fonda unicamente sul brano evangelico di Lc 16,19-31 che parla del povero Lazzaro, portato nel seno di Abramo dopo la morte, e del ricco che avendo ignorato i bisogni di Lazzaro durante la vita sarà tormentato invece tra le fiamme infernali.

L’espressione ‘nel seno di Abramo’ (eis tòn kólpon Abraám: Lc 16,22) non trova paralleli nella Scrittura e neppure nella letteratura giudaica precristiana. La moderna esegesi non la interpreta in genere come l’indicazione di un luogo escatologico contrapposto all’Ade dei dannati, quasi che Luca avesse inteso fornire una sorta di geografia dell’aldilà. ‘Nel seno di’ indicherebbe piuttosto una posizione di vicinanza affettiva o di onore. A Lazzaro sarebbe dunque spettato dopo la morte un posto di peculiare intimità con Abramo, padre dei credenti e protettore dei giusti, con un rovesciamento dell’ingiusta condizione patita durante la vita terrena.

L’interpretazione di Lc 16,22 come precisa indicazione di una dimora per i giusti defunti e il bisogno di armonizzarla con altre nozioni escatologiche ha comunque trovato ampio spazio nella riflessione cristiana. Il seno di Abramo è stato inteso in modo vario nel corso dell’evoluzione del pensiero teologico. Se ne possono schematicamente mettere in evidenza quattro significati.

Quando lo si considera prima della discesa di Cristo agli inferi, come nella parabola lucana, è l’equivalente del limbo dei patriarchi.

Considerato dopo l’evento pasquale, appare talora quale refrigerio intermedio (interim refrigerium), luogo d’attesa sotterraneo per le anime dei giusti cristiani. È l’opinione di Tertulliano che tuttavia non ha avuto molto seguito.

Collocata in cielo, questa sorta di ‘sala d’aspetto’ della risurrezione e del giudizio finale acquisisce un carattere paradisiaco. Così è inteso di solito il seno del patriarca sino alla conclusione del XII secolo.

Esso verrà infine identificato con il luogo degli eletti che godono della visione di Dio. La piena identificazione col regno dei cieli, suggerita dalla liturgia e assunta dalla speculazione monastica a partire dai primi del XII secolo, appare la logica conseguenza della dottrina, in via di diffusione, della visione beatifica già goduta subito dopo la morte, dottrina che si affermerà sul finire del secolo e diventerà comune nella scolastica.

La resa iconografica del seno di Abramo attraverso la raffigurazione sovradimensionata del patriarca che tiene in grembo gli eletti, sebbene possa apparire ingenua rispetto alla riflessione teologica, costituisce una cifra simbolica che, mediante il riferimento al testo lucano, intende richiamare alla speranza di una condizione ineffabile ma reale e desiderabile. La rappresentazione artistica risulta infatti intimamente legata alla riflessione teologica e ai significati maturati dall’immagine del seno del patriarca nel contesto della spiritualità e della predicazione.

Si possono rilevare tre ambiti iconografici in cui l’immagine è presente. Uno è quello della rappresentazione della parabola del povero Lazzaro nelle miniature di testi evangelici o di libri liturgici e nei rilievi decorativi delle chiese, sulle facciate, sui portali e sui capitelli soprattutto di epoca romanica. Anziché illustrare alla lettera la parabola rappresentando il limbo dei patriarchi, si tende piuttosto ad attualizzarla, sottolineando il carattere paradisiaco e celeste del seno di Abramo.

La sottolineatura emerge più spiccatamente quando il seno di Abramo viene rappresentato in modo autonomo, come meta della speranza cristiana, ancora nella scultura e nelle miniature.

Un altro ambito è quello del Giudizio finale. È questo anche il caso dei mosaici della cupola del Battistero di Firenze, attribuiti all’ambito di Meliore e di Coppo di Marcovaldo e databili intorno al 1260-1270, dove però la figura di Abramo è affiancata da quella di Isacco e di Giacobbe.

Nei rilievi di numerose chiese, dal XII al XIV secolo, l’immagine di Abramo che tiene ‘in seno’ gli eletti appare in basso a destra del Cristo giudice, sempre in relazione alla risurrezione dei morti, e sta a significare – quasi metafora della paternità di Dio – la dimora definitiva dei beati.

Come ha potuto rilevare J. Baschet («Anima: Iconografia», in Istituto Della Enciclopedia Italiana, Enciclopedia dell’arte medievale, I, Roma 1991, 809) mediante un’analisi attenta dei Giudizi e studiando in particolare il movimento delle figure nei cortei, in questo contesto gli individui tenuti in seno dal patriarca non rappresentano, come spesso si è ritenuto, le anime dei giusti in attesa di riacquisire il proprio corpo, bensì i risorti dotati di corpo spirituale. Anche nel mosaico del Battistero di Firenze il seno dei tre patriarchi, verso cui si dirigono gli eletti che si dipartono dal gruppo in contemplazione del giudice divino, andrebbe quindi inteso, con tutta probabilità, come dimora beata dei risuscitati e non delle anime in attesa.




Cuba, l’America e il papa. Piccole considerazioni storico-teologiche sulla diplomazia vaticana

topicdi Francesco Vermigli • Sia chiaro che ricostruire le vicende che hanno condotto alcune settimane fa a quella che è stata salutata come la riappacificazione tra i grandi e storici nemici del mondo caraibico – Stati Uniti e Cuba – appare impresa assai ardua. Alla fine se di diplomazia si tratta, è inevitabile che ciò che arriva alla luce del sole sia solo una parte di ciò che è stato messo sul tappeto. Il non detto della diplomazia, ciò che si pone come presupposto su cui è necessario convergano i contendenti e l’eventuale mediatore, è che le ragioni e i modi che hanno condotto all’accordo e talvolta anche i termini dell’avvenuta concordia siano tenuti – almeno negli aspetti più profondi – nel silenzio. La diplomazia vaticana non può sfuggire a questa regola di riservatezza, che sorregge la stessa possibilità di un dialogo tra gli Stati.

Quello che di questa vicenda sappiamo è che – nel periodo del Sinodo straordinario sulla famiglia nello scorso ottobre – rappresentanti cubani e americani si sono incontrati in Oltretevere; che questo ruolo di mediazione riconosciuto alla Santa Sede si deve all’attrazione del mondo per la figura di papa Francesco; che esso in realtà ha radici ben più risalenti nel tempo (la storica visita di Giovanni Paolo II nel 1998 e quella più recente di Benedetto XVI nel 2012); che in quest’opera di mediazione un ruolo presumibilmente decisivo debbono aver svolto il cardinale Segretario di Stato Parolin e il Sostituto alla Segreteria Becciu, per la loro conoscenza del mondo latinoamericano (quest’ultimo, nunzio nella stessa Cuba per due anni); che infine non poco si deve al paziente lavoro del clero cubano, tutto teso ad un’opera di riconciliazione interna tra il regime castrista e i dissidenti. Opinionisti di ogni sorta si sono esercitati nel tentativo di mostrare il carattere “inaudito” di questa concordia e hanno riflettutto su cosa essa possa significare per il futuro del comunismo cubano. Non avendo conoscenze dirette sui fatti, lasciamo ad altri le elucubrazioni geo-politiche; ci accontentiamo di fare alcune brevi considerazioni di natura storica e teologica sulla diplomazia vaticana.

La dottrina sociale della Chiesa – confermata vieppiù da dichiarazioni magisteriali recenti – riconosce agli organismi internazionali la centralità assoluta nella risoluzione dei conflitti tra gli Stati. Non pare, però, casuale il fatto che l’accordo cubano-americano sia stato condotto a termine non solo all’esterno delle aule che accolgono le riunioni dei rappresentanti degli Stati membri delle Nazioni Unite, ma anche al di fuori dei modi di confronto tra gli Stati abituali agli organismi internazionali. L’accordo raggiunto con la “benedizione” della Santa Sede può essere pensato come la vittoria di un modo forse più tradizionale – certamente sottotraccia – della diplomazia. Un modo, forse, in cui anche si possono esprimere al meglio le potenzialità di una diplomazia che assomiglia a tutte le altre, ma il cui elemento dirimente è l’ispirazione cristiana. Lo stesso fatto per cui ci si rivolge ad uno staterello il cui capo manca di divisioni militari (Stalin, do you understand?) in ultima istanza mostra che la pacificazione tra gli Stati, la ricerca persino ostinata di accordo non passa necessariamente attraverso strutture internazionali dalla storia anche rilevante, ma soprattutto mediante modalità diverse sulle quali è opportuno soffermarsi.

È talmente evidente che se la Santa Sede non fosse la Santa Sede, nessuno si rivolgerebbe ad essa alla ricerca di mediazione per la risoluzione dei confilitti. Se la Santa Sede non detenesse quel sovrappiù di credibilità che le deriva dalla stessa ispirazione cristiana, essa non avrebbe alcuno spazio diplomatico. La diplomazia vaticana è credibile perché cristiana, cioè perché tende a riprodurre nei rapporti tra gli Stati il modo che il cristiano è chiamato a realizzare nelle relazioni umane. Principi base della diplomazia more Vaticano sono il rispetto della dignità del singolo, la difesa del povero e dell’indifeso, la promozione sociale… Quando la contesa tra gli Stati o all’interno di essi mette in pericolo tali principi, entra in campo quello che piuttosto che principio chiameremo lo “stile” della diplomazia vaticana. Si tratta di quella tenace capacità tutta cristiana di ricercare con pazienza spazi di riconciliazione e di pace, dove essi non paiono sussistere. Si tratta della creatività credente che cerca soluzioni prima impensabili, vie nuove che sbloccano la situazione e aprono nuovi orizzonti. Si tratta di quel contatto personale con coloro che detengono il potere di far pendere la bilancia dalla parte della riconciliazione. Tutto questo, perché la diplomazia non è una scienza astratta, ma è fatta da uomini e agisce su uomini che possono scegliere in favore del bene comune. Nella ricerca paziente di nuovi equilibri e forme di convivenza tra gli Stati, alla diplomazia vaticana spetta un ruolo non piccolo nella lenta costruzione del Regno di Dio.




Samaritani nelle periferie violente

ap86174523107101613_bigdi Antonio Lovascio • Pare di vivere nell’età dell’odio. E’ la sensazione che condividiamo con le analisi pungenti  di uno scrittore giovane, ruspante e mai banale come Aldo Cazzullo, e di un editorialista più maturo come Pierluigi Battista, che sul “Corriere della Sera”  hanno invitato a non sottovalutare le tensioni sociali nei quartieri multietnici ed i sabotaggi alle linee dell’Alta Velocità all’insegna del terrorismo fai-da-te. Viene da lontano il vento di rabbia che spira nelle stazioni e nelle periferie delle nostre città, sempre più simili – così le ha “fotografate” anche il Censis – alle banlieu parigine. È un vento che si è annidato, negli ultimi anni di crisi, nei cantieri della modernizzazione ferroviaria  e – su più vasta scala, con effetti ancor più dirompenti – nei “campi”  e negli spazi occupati dagli extracomunitari,  negli antri scuri delle case popolari; e dopo che sono iniziati gli sgomberi degli appartamenti  stipati come i pollai dai cosiddetti abusivi, è sceso lungo le scale di cemento scarabocchiate di graffiti, ha percorso i marciapiedi sbrecciati e ha bloccato le strade sporche in segno di protesta.  Protesta dilagante in un’Italia che si appresta, paradossalmente, ad ospitare l’Expo. Nelle piazze si riversa non solo la disperazione e frustrazione dei giovani in cerca di lavoro (demoralizzati, a volte neppure lo cercano!) o di chi non può fare a meno di gridare il proprio disagio e l’avversione a progetti imposti dalla globalizzazione dell’economia e dei trasporti  (la TAV),  ma soprattutto lo “scatto” di dignità di intere famiglie lasciate nel più indecoroso degrado (“come una cosa posata in un angolo e dimenticata”,  se vogliamo citare Giuseppe Ungaretti)  in quartieri  in cui si vive in condizioni di extraterritorialità  e dove di urbano non è rimasto più nulla. Anzi, dilaga lo spaccio della droga, la delinquenza, la prostituzione, le strade sono dissestate, pericolose e non illuminate, i servizi pubblici scarsi, e soprattutto non esistono presìdi che garantiscano legalità e sicurezza. La gente ha paura di uscire di casa, è a dir poco esasperata.

Mentre monta la sommossa, scorrono immagini impressionanti. Giornali e televisioni parlano degli scontri come se fossero qualcosa di alieno al corpo delle città: eppure Tor Sapienza è a pochi chilometri dal Campidoglio ( a sua volta travolto da uno scandalo mafioso che mostra tutta l’intensità e l’ingordigia della corruzione capitolina)  il quartiere Corvetto o il Giambellino sono a pochi minuti dal Duomo di Milano. La risposta del governo finora è stata debole e inconcludente, quella dei partiti (la Lega ed i Grillini in particolare) troppo condizionata da tornaconti elettorali.  E l’immigrazione senza controllo (16 mila sbarchi negli ultimi due mesi!) ha acceso una guerra tra poveri, generando negli stranieri estraneità e frustrazione, che, sommate al senso di impunità che lo Stato italiano spesso trasmette ai nuovi arrivati, minacciano di innescare tensioni già esplose ai margini delle metropoli europee. In questi mesi sono state dedicate migliaia di ore di dibattiti pubblici alle tragedie dei migranti in mare. Ma continuiamo a non avere uno straccio di schema politico-amministrativo efficace per gestire il fenomeno dentro il territorio nazionale e fuori dai Cie. Ogni Paese in ogni secolo ha un suo Medioevo, che si manifesta quando improvvisamente un futuro imprevisto diventa presente, e non si ha alle spalle un passato di esperienze per affrontarlo. In Italia capita con l’immigrazione. Le statistiche parlano da sole.  A metà degli Anni Novanta avevamo un numero di immigrati di poco superiore a 500 mila unità, mentre oggi sono 5 milioni e mezzo, un milione e trecentomila famiglie di soli immigrati, e un milione di minori. Un milione di romeni, mezzo milione di marocchini, mezzo di albanesi. Mentre la popolazione straniera è cresciuta in media ogni anno del 103,3 per mille, quella italiana si è invece ridotta progressivamente dello 0,7 per mille. Nel 2014 il fenomeno apicale sono stati gli sbarchi: 150 mila solo da gennaio a ottobre, rispetto a poco più di 40 mila nell’intero 2013. E di qui le richieste insistenti di Renzi ed Alfano perché l’Europa con Frontex sostituisse, o per meglio dire integrasse, la nostra missione Mare Nostrum.

Ma, mare a parte, restiamo totalmente sprovvisti di politiche e risposte organiche quando l’immigrazione, nelle grandi città e nei tenitori, dal 9% scarso oggi la media sul totale della popolazione italiana diventa tre, quattro e addirittura cinque volte maggiore rispetto agli italiani che vivono  in un quartiere o in un piccolo centro.  Anche per questo fatichiamo a considerare  i lavoratori venuti dall’estero come una risorsa! Di fronte al moltiplicarsi dei nostri problemi di vita quotidiana, diventiamo sempre più intolleranti . Ci risulta difficile comprendere che, la società attuale – a maggior ragione nelle zone periferiche, ma non solo – è caratterizzata da una forte compressione temporale e spaziale. Persone da aree geografiche diverse si trovano in situazioni di grande vicinanza le une alle altre. Attualmente nel  Pianeta sono circa 200 milioni i cittadini migranti: i costumi, i comportamenti, le abitudini, le situazioni economiche e sociali di ciascuno si trovano in situazioni di stretta vicinanza fra loro. E spesso il contrasto arriva a livelli insopportabili. Dunque siamo in piena emergenza. Lo ha ben compreso Papa Francesco (“non imprevisto, ma imprevedibile” per dirla con Vittorio Messori) che da vescovo ha percorso in lungo e in largo le periferie multiculturali argentine.  Ricevendo la delegazione di Pastori e laici che a Barcellona hanno preso parte al Congresso internazionale della pastorale delle grandi città, ha sollecitato la Chiesa ad un cambiamento di mentalità, ad uscire nelle strade e nelle piazze , “per incontrare Dio che abita nelle metropoli e tra i poveri”. Un dialogo senza relativismi, ha spiegato, è quello che “non negozia la propria identità cristiana, ma che vuole raggiungere il cuore dell’altro, degli altri diversi da noi, e lì seminare il Vangelo”. Quindi, senza rifiutare “l’apporto delle diverse scienze per conoscere il fenomeno urbano”, bisogna scoprire “il fondamento delle culture, nel profondo “assetate di Dio”, conoscendo “gli immaginari e le città invisibili, cioè i gruppi o i territori umani che si identificano nei loro simboli, linguaggi, riti e forme per raccontare la vita”.  Papa Bergoglio, indicando un modello di “Chiesa samaritana”,  chiede “una testimonianza di misericordia e di tenerezza” anche alle comunità ecclesiali italiane , che attraverso la Caritas e le sue strutture radicate sul territorio stanno comunque già sostenendo chi ha più bisogno. Un invito ad andare oltre: a  promuovere la cultura dell`incontro tra le diverse componenti sociali nelle parrocchie, nei circoli culturali e ricreativi, per vivere un cristianesimo non individualista o intimista.

Una spinta – le parole del Pontefice – a tuffarsi nelle “periferie violente”  sorte alla meglio dagli anni Sessanta in avanti, senza un piano regolatore intelligente e anticipatore di futuro sviluppo, sull`onda dell`abusivismo edilizio, con le case costruite grazie a immensi sacrifici delle famiglie per lo più venute da fuori, oppure con rioni di alloggi popolari e ultrapopolari, veri alveari umani, spesso accanto a residence privati e recintati. In questi quartieri, per lo più dormitori, la gente non si conosce, non socializza, non sente di appartenervi più di tanto. Nelle città divenute multietniche, creare una cultura dell`accoglienza e dell`integrazione, soprattutto quando si avvertono sempre più i morsi della grave crisi economica, è una sfida, che però va affrontata sapendo che è orientata al bene comune e non ammette speculazioni. La  politica, se vuole sopravvivere e riscattarsi dagli scandali trasversali che a getto continuo stanno emergendo, deve ripristinare un minimo di legalità e di coesione sociale; ristabilire almeno il rispetto reciproco. Deve impegnarsi – in un Parlamento sempre più rissoso e subalterno – perché il governo italiano e quello europeo mettano in campo azioni concrete che attenuino la sofferenza e generino opportunità per i giovani. Il rogo dell’odio va spento, prima che ci avveleni l’aria e bruci le nuove generazioni.
 

 

 

 




Cinque «sì» per una nuova evangelizzazione. Note su un discorso del cardinale Schönborn

SCHÖNBORN Christophdi Andrea Drigani • Il Codice di Diritto Canonico al can.211 dice: «Tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di impegnarsi perché l’annuncio divino della salvezza si diffonda sempre di più fra gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo» («Omnes christifideles officium habent et ius allaborandi ut divinum salutis nuntium ad universos homines omnium temporum ac totius orbis magis magisque perveniat»). Questa norma ci rammenta che partecipare all’evangelizzazione, che costituisce l’opera primaria della Chiesa, non è, per ogni battezzato, qualcosa di opzionale, bensì di obbligatorio, ovviamente, ciascuno, secondo le proprie capacità e competenze. Il cristiano sa di essere nella storia (il «tempo») e nella geografia (il «luogo»), per aiutare a far sì che ad ogni persona possa giungere il messaggio di Gesù Salvatore. Queste riflessioni mi sono ritornate alla mente leggendo il discorso che il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, ha tenuto il 10 dicembre 2014, nel Duomo di Milano, invitato dal cardinale Angelo Scola, per un incontro dal titolo: «La Chiesa nella società secolarizzata». L’arcivescovo di Vienna ha esordito accennando alla situazione della sua diocesi, osservando che la decrescita dei cattolici è drammatica («Siamo sotto il quaranta per cento e tra non molto arriveremo al trenta per cento»). Tutto ciò, ha aggiunto, non può non provocare umiliazione e scoraggiamento. Ha altresì notato che a Vienna quasi il sessanta per cento di matrimoni finiscono in divorzio e la famiglia cristiana non rappresenta oggi la normalità, bensì l’eccezionalità. «Penso – ha detto il cardinale Schönborn – che il Signore ci abbia condotto su un cammino in cui chiede di non concentrarci su problemi, ma di ricordarci ciò che Dio fa per noi». Ha, inoltre osservato che la condizione della nuova evangelizzazione sia cambiare lo sguardo, guardare altrove. L’essere deboli, cioè l’essere una minoranza, non vuol dire essere una setta. Ed ha, pertanto, formulato cinque «sì» per delineare una nuova evangelizzazione. Il primo «sì» è all’oggi del nostro tempo, lasciando da parte la nostalgia degli anni Cinquanta e Sessanta, quando chiese ed oratori, erano pieni. La nostalgia, come si sa, è quello stato d’animo corrispondente al desiderio pungente o al rimpianto malinconico (prossimo alla depressione)  di quanto è trascorso o lontano; talvolta, però, si ha la sensazione che qualcuno abbia addirittura un’impossibile nostalgia per una Chiesa che non è mai esistita. Il secondo «sì», ha continuato l’arcivescovo di Vienna, è un «sì» consapevole deciso a quella che è la nostra realtà: il lasciare tante cose, il veder morire cose che amiamo. Molte cose moriranno, ma Dio ci ama nel nostro contesto. Lo studio sulla storia del popolo d’Israele in esilio diviene una scuola tremenda e formidabile per noi. Dobbiamo, perciò, essere capaci di vedere i segni buoni nel nostro tempo. Il terzo «sì» è alla nostra vocazione comune di battezzati, come ci rammenta la Costituzione «Lumen Gentium» del Concilio Vaticano II. L’evangelizzazione la fanno i veri cristiani, perchè la loro vita è una testimonianza. San Francesco diceva: «annunciate a tutti il Vangelo, se necessario anche con le parole». Affermava questo perché era un vero cristiano, cioè uno che è di Cristo. Il quarto «sì» è per una Chiesa che impara gradualmente a essere in diaspora, ma in una diaspora feconda. La diaspora vuol significare la dispersione, non necessariamente provocata da una forza esterna, di un popolo e delle sue istituzioni nel mondo. La vita cristiana in diaspora – ha osservato il cardinale Schönborn – è una vita di rappresentanza, nel senso di vivere la fede non solo per noi, ma anche per gli altri. Essere cristiani nella città secolare è essere rappresentanti. Il quinto «sì» è al nostro ruolo per la società, anche se siamo minoranza. Nonostante siamo pochi – ha sostenuto l’arcivescovo di Vienna – abbiamo il ruolo del sale. Le nostre parrocchie, le nostre comunità, i nostri movimenti, le nostre associazioni, sono una grande rete di carità, di misericordia, di coscienza sociale. Quanto più la rete della società civile diventa debole, tanto più importante diventa la testimonianza cristiana nel nostro mondo. Il realismo, sembra essere la conclusione del cardinale Schönborn, non può originare il pessimismo (che è ciò che di più lontano possa esistere dal cristianesimo), bensì lo slancio per un rinnovato annuncio della Buona Novella agli uomini di ogni tempo e di ogni luogo, secondo quello che la migliore tradizione della Chiesa ci ha sempre insegnato.




I cinquant’anni dalla Dei Verbum. Il gusto della parola di Dio

dei-verbumdi Carlo Nardi • «Soave e piana» è Beatrice nel suo dire, accoratamente premurosa per la sorte eterna dell’amante poeta (Inferno II, 56. cf. 52-117). In modo simile i Detti greci dei Padri del deserto riportano «detti e fatti dei santi vegliardi», monaci in Egitto tra quarto e quinto secolo, per trasmettere la sapienza spirituale «in forma di racconto con un linguaggio semplice e senza pompa» (prologo, 3: SCh 387,94). E “soave”, “piana” e “semplice” dev’essere la parola della predicazione cristiana, dignitosa nella sua schietta umiltà popolare, perché parola umana della Parola eterna.

La cordialità di un linguaggio cristiano emerge particolarmente nella Costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina rivelazione, quest’anno nel suo cinquantesimo, la Dei Verbum, com’è suona l’incipit del testo latino. Sono parole significative, Già dicono di che cosa si tratta: del Verbo di Dio e della sua parola. Dei Verbum è il Verbo in persona, la Parola che è Dio fattosi uomo, nostro Signor Gesù Cristo, e nel contempo è la sua parola umana, ma anch’essa parola di Dio per noi.

La Dei Verbum mise, come non mai prima, nelle nostre mani la Bibbia con coraggio e fiducia. Si volle che fosse nelle orecchie e sotto gli occhi del battezzato come tale, perché la senta leggere comprensibile in chiesa nella sua lingua, sia invogliato a leggerla per conto suo, e meditarla e studiarla e – perché no? – volerla conoscere nelle lingue in cui fu scritta, quasi tutta in ebraico e in greco. La Dei Verbum invita a pregare la Bibbia, e a leggerla in compagnia fraterna, e magari con chi cattolico non è. L’intento è che questo libro o, meglio, raccolta di libri sia letta e riletta. Che le carte della Bibbia siano strapazzate.

Pagine divine, perché ispirate da Dio, sono memoria, riflessione, gioia, grido di una storia di salvezza divina e altrettanto umana, tant’è che quei libri sono umani, scritti da uomini nel pieno possesso delle facoltà mentali, ognuno col suo cervello, grande o piccolo che sia, ed anche con le sue fisime.

Lettera di Dio all’umanità – diceva san Gregorio Magno – non resti al fermo posta, ma raggiuga il destinatario che è ogni uomo. Non è una lettera che cade bell’e scritta dal cielo: è scritta invece nell’ambito del popolo dell’antica alleanza con i profeti, i saggi e i narratori, e nel nuovo popolo del Vangelo, “bella notizia”, che è Gesù in persona, Dio che dice le nostre parole umane. Ed è la bella notizia che gli apostoli dicono con la parola, la vita e la morte. Anche la scrivono nelle lettere indirizzate a chi stava loro a cuore. Intanto, qualcuno – par di vedere san Marco, mentre san Pietro predica – prendeva appunti, e poi, forse prima Marco e poi Matteo e Luca e infine Giovanni, prendono la penna in mano, anche dopo aver raccolto quegli appunti e, con ricordi propri e altrui, buttano giù con un piano ben strutturato i quattro Vangeli.

Solo più tardi qualcuno volle colmare quelli che riteneva dei vuoti e novellare su quello che successe prima o dopo il racconto di Matteo e Luca. Erano pie curiosità in un discreto ventaglio tra “buone cose di pessimo gusto” e fine e dotta devozione, ed erano scritti non considerati ispirati né entrati nella lista o “canone” dei libri santi, quelli buoni per tutti e da leggere in chiesa. Gli altri erano i cosiddetti apocrifi, libri più o meno in disparte, talora sotto chiave, con racconti che tuttavia erano letti e come: appaiono in pitture e nella liturgia con i santi Anna e Gioacchino e la loro Bambina offerta al tempio.

Nel frattempo c’era già chi spiegava quello che gli apostoli avevano detto e fatto, e gli evangelisti avevano scritto: erano vescovi e poi preti che predicavano, insegnavano, si direbbe la domenica e le feste comandate, e ammonivano a non prendere lucciole per lanterne; c’erano laici e anche laiche che meditavano, riflettevano, discutevano. Saranno i cosiddetti Padri della Chiesa, e forse anche madri, com’erano state la mamma e la nonna di san Timoteo (2 Tim 1,5) e due secoli dopo in Cappadocia mamma e nonna di Basilio, Gregorio e Macrina e non solo – e tutti santi in famiglia! –, nonna a sua volta figlia spirituale di san Gregorio il Taumaturgo, pupillo di Origene, nell’ambito della grande Alessandria d’Egitto, il cui cristianesimo pare raccordarsi a san Marco e questi a san Pietro e l’apostolo al Signore.

Come in una staffetta un testimone passa di mano in mano, di consegna in “consegna”, in latino traditio, da cui tradizione, quella stessa parola viva, detta e vissuta, già tutta nella parola degli apostoli: Tradizione apostolica, ambito in cui furono scritte le pagine della Bibbia. La medesima tradizione della Chesa affida a noi quelle pagine da leggere, studiare, pregare, vivere; e la Dei Verbum ci incoraggia a consegnarle a nostra volta, impreziosite dalla nostra stessa lettura, studio, preghiera e vita.




“Custode, non tiranno. Per un nuovo rapporto tra persona e creato” di P. Sequeri

Sequeri-300x300di Dario Chiapetti • Il teologo milanese Pierangelo Sequeri, nel suo testo Custode, non tiranno. Per un nuovo rapporto tra persona e creato (Emi, Bologna, 2014), sviluppa una riflessione sulla teologia biblica della creazione che recuperi le linee essenziali e originali che la costituiscono, in modo da rintracciare i tratti di Dio e, di conseguenza, i tratti dell’uomo, del creato e del rapporto tra questi due ultimi e rispondere così alle obiezioni che sono state mosse al cristianesimo di aver avallato l’azione di sfruttamento da parte dell’uomo della terra, una visione della storia come progresso, di aver desacralizzato la natura.

Da una lettura dei racconti biblici di creazione e del loro significato nel contesto della storia di Israele, Sequeri giunge a propugnare la visione dell’atto creatore di Dio come già vera e propria “figura” di rivelazione e non come momento propedeutico ad essa. La creazione è mostrata sì come origine assoluta ma non come quella di un prestigiatore che tira fuori oggetti dal cilindro,  bensì come auto-manifestazione di Dio come vita e bellezza.

L’Autore mette in luce l’interessante analogia tra Dio e uomo: mentre nel primo racconto genesiaco il generatore e custode del creato è Dio, nel secondo è l’uomo, proprio in virtù del suo essere creato a immagine e somiglianza di quel Dio generatore e custode. Ma non è tutto: l’uomo – argomenta Sequeri – non è soltanto un essere riflettente Dio ma anche fronteggiante, capace di mettersi in dialogo con Dio, di accogliere ciò che gli viene affidato e di affidarlo a sua volta. Antropologicamente se ne deduce un’importante notazione, ovvero che la dottrina dell’immagine e somiglianza non è evincibile o sostenibile solo e innanzitutto per creazione ma per esistenza; la creazione dell’uomo come essere generatore e custode e la consegna del creato nelle sue mani, pur essendo due sue dimensioni, sono tuttavia aspetti sostanziali dell’atto creatore stesso: l’uomo, proprio perché creato maschio e femmina, è generato generatore. “E vide che era cosa bella/buona” (Gen 1,12): anche l’uomo, come creatura a immagine e somiglianza di Dio, è perciò un essere a immagine e somiglianza della signoria e della cura di Dio che crea e mantiene bellezza e bontà.

L’atto creatore è essenzialmente “dono” e, in quanto auto-rivelazione divina e rivelazione dell’uomo, dice la natura del Creatore e della creatura, soggetti-donanti; e tale atto del dono divino mette alla prova le affezioni umane – termine centrale della riflessione dell’Autore. Dio affida il creato all’uomo e l’uomo lo riaffida a Dio: un “reciproco benché radicalmente asimmetrico atto di affidamento di Dio e dell’umano”, soprattutto per la pretesa d’autosufficienza di Adamo. Dio vuole essere scelto da un soggetto in grado di riconoscerlo, di accoglierlo, di essere signore e custode e questo è un miracolo ancora più grande della creazione ex nihilo soprattutto se si pensa che Egli partecipa la Sua signoria nella finitezza della natura umana. Da un tale sguardo alla teologia della creazione si evince che non è dispotica né la signoria di Dio (perché affida all’uomo il suo atto d’amore), né quella dell’uomo (perché naturaliter corrisponde al divino atto d’amore); oggi tuttavia – prosegue Sequeri – su un’interpretazione fondata sulla logica dell’amore ha prevalso un’altra, fondata invece su una morale della redenzione dal peccato.

Teologia, antropologia e cosmologia trovano il loro punto di convoglio nella cristologia: in Cristo Dio sigilla eternamente il suo patto con l’uomo e col creato e lo realizza attraverso l’evento della croce, che non dice tirannia ma alleanza che passa attraverso la cura nel dolore, e dell’Ascensione, in cui avviene “l’insediamento del corpo-mondo di Gesù nell’intimità divina-trinitaria del Figlio”. La teologia della creazione è così per l’Autore il culmine della visione della fede neotestamentaria: “in principio era il Verbo” (Gv 1,1).

In risposta all’attuale interpretazione della teologia della creazione, secondo l’Autore, è necessario riconsiderare l’uomo nella sua dimensione affettiva: l’uomo si è spostato dalla pro-affezione all’auto-affezione e in tale spostamento, senza Dio e senza gli altri, ha perso anche il senso della realizzazione di sé. Occorre “andare contro il monoteismo del sé” in quanto, spiega Sequeri, il desiderio dell’uomo si compie in realtà nel generare e custodire, nell’essere nell’altro e per l’altro. Per tale ragione è importante che l’uomo riordini gli affetti, curando le ferite ma anche creando bellezza, quella bellezza che commuove e muove gli uni verso gli altri.




Quando trinitario è anche il pensare …

Hemmerle-von-Bild1127di Alessandro Clemenzia • In occasione dei 20 anni dalla morte del filosofo e teologo Klaus Hemmerle, il Dipartimento di Ontologia trinitaria dell’Istituto Universitario Sophia, in collaborazione con altre realtà accademiche, ha organizzato a Trento un Seminario internazionale dal titolo: L’ontologia trinitaria tra filosofia e teologia. Sulle orme di Klaus Hemmerle pensatore di frontiera (14-16 dicembre 2014). L’incontro, luogo di dialogo tra docenti e studenti impegnati in quest’ambito di ricerca, ha voluto recuperare, approfondire e sviluppare la portata teologica, filosofica e transdisciplinare del vescovo di Aquisgrana, a partire dalle intuizioni più originali contenute nella sua più celebre opera Thesen zu einer trinitarischen Ontologie, Tesi di ontologia trinitaria (1976), scritta in onore del settantesimo del collega e amico Hans Urs von Balthasar.

L’espressione “ontologia trinitaria”, pur avendo avuto in Hemmerle la sua rilevanza più profonda, è a lui precedente; e, soprattutto a partire dagli anni ’70, essa ha conosciuto una rapida diffusione ben oltre il territorio tedesco. Ciò nonostante, essa rimane una novità nell’attuale paesaggio teologico.

Ma cosa si intende per “ontologia trinitaria”? Non si tratta, come si potrebbe pensare, di un concetto-sintesi a metà strada tra filosofia e teologia. L’“ontologia” ha di mira la scoperta del senso e della verità che abitano tutto ciò che “è”, al di là di una sua possibile funzionalità. “Ontologia” significa più precisamente dare la parola all’essere, lasciare che sia esso stesso a comunicarsi. Il secondo lemma, “trinitaria”, proprio perché non funge da sostantivo ma da aggettivo, è in qualche modo la qualificazione di ciò di cui si sta parlando, e allude al ritmo stesso del dirsi e del darsi dell’essere. Ma per cogliere tale dinamismo nella realtà è necessario che il soggetto si inserisca all’interno del ritmo trinitario, che “abiti” quel “luogo”, che è Dio stesso, all’interno del quale unicamente egli può arrivare ad una comprensione nuova di tutto ciò che è; ciò avviene perché tale sguardo è intriso delle stesse caratteristiche del luogo da cui guarda: in tal modo è possibile leggere e interpretare la realtà trinitariamente.

In un senso più stretto, teologicamente inteso, l’ontologia trinitaria vuole argomentare l’“unità” di Dio alla luce della sua trinità. Nei diversi dizionari il termine “unità” viene presentato in modo monocromatico, tanto da risultare, nella sua interpretazione, il contrario di “molteplicità”, “differenza”, “diversità”, “distinzione”, e, contemporaneamente, un sinonimo di “identità”, “semplicità”, “singolarità”, arrivando addirittura a dar vita ad altri termini come “univocità”, “uniformità”, “universalità”. Teologicamente inteso, invece, il concetto di unità non può non tener conto del dato prettamente relazionale, e dunque plurale: di quella unità trinitariamente differenziata in sé. Una tale operazione concettuale richiede di pensare l’unità e la trinità di Dio nella loro più feconda inter-relazione e compenetrazione.

Nonostante la plurisecolare chiarezza dogmatica sull’unità della natura e la trinità delle Persone, si possono scorgere tuttavia, ancora oggi, tentativi teologici che argomentano il rapporto tra unità e distinzione in modo così differente tra loro da giungere, spesso, a conclusioni discordanti (senza per questo andare minimamente a intaccare il fondamento dogmatico).

L’“ontologia trinitaria”, pur essendosi sviluppata nella seconda metà del XX secolo, ha una prospettiva logica e teoretica che trova i suoi prodromi nei grandi pensatori della tradizione; basti pensare ad Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino, Dionigi l’Aeropagita, Bonaventura, che sono stati dei pilastri interpretativi per l’odierna riflessione teologica; oltre loro, anche altri pensatori, all’interno dell’ortodossia, possono essere considerati fautori dell’ontologia trinitaria, come P.A. Florenskij e S.N. Bulgakov.

Una caratteristica degna di nota riguarda il fatto che l’ontologia trinitaria, proprio per rispecchiare la realtà più profonda che esprime, non può presentarsi riducibile ad un unico modo di riflettere, con categorie univoche, all’interno di un sistema concettuale chiuso, definitivo ed escludente: ciò infatti non la farebbe essere ciò che è! Essa invece è se stessa nel momento in cui la sua identità rimane aperta, dinamica, non si fa scuola di pensiero strutturalmente omologato, ma sempre orizzonte interpretativo dialogico. Proprio per questo, paradossalmente, non si può parlare di “ontologia trinitaria” al singolare.

Attraverso questa stretta interazione tra filosofia e teologia, l’ontologia trinitaria si presenta oggi, con tutta la sua portata, come proposta che non vuole offrire “qualcosa” di nuovo rispetto al già dato, ma desidera rivolgere l’attenzione al “come” si guarda la realtà nella sua interezza: in altri termini, è un vedere il vedere stesso.




La recente visita di Papa Francesco a Istanbul

francesco e bartolomeodi Stefano Tarocchi • La recente visita del papa Francesco ad Istanbul, dal patriarca ecumenico Bartolomeo, in occasione della festa di S. Andrea, il 30 novembre scorso, è solo l’ultimo di una serie di incontri fra i due. Cominciò Bartolomeo per l’inizio del ministero petrino di Francesco, la prima volta che un patriarca ecumenico, partecipava di persona a tale evento. Poi l’incontro nel viaggio di Francesco a Gerusalemme, lo scorso maggio, seguito a breve dalla partecipazione alla preghiera indetta da Francesco per la pace in Medio Oriente con Abu Mazen e Shimon Perez, ma anche dalla presenza a Roma per la festa dei Santi Pietro e Paolo.

Bartolomeo ha commentato l’incontro del 30 novembre come «un fatto storico e ricco di buoni auspici per il futuro. Esso costituisce un ulteriore tassello nel ponte tra Occidente e Oriente costruito poco a poco dalle visite di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI». E ha aggiunto sottolineando la testimonianza della volontà Vostra del papa e della «Santissima Chiesa di Roma, di proseguire il fraterno costante cammino con la nostra Chiesa Ortodossa, per il ristabilimento della completa comunione tra le nostre Chiese».

Lo stesso desiderio è espresso da Papa Francesco nella stessa celebrazione quando, con animo colmo di gratitudine, dice che «Dio mi concede di trovarmi qui a pregare insieme con Vostra Santità e con questa Chiesa sorella». «Il Signore ci ha donato ancora una volta il fondamento che sta alla base del nostro protenderci tra un oggi e un domani, la salda roccia su cui possiamo muovere insieme i nostri passi con gioia e con speranza».

E «sento – afferma Francesco – che la nostra gioia è più grande perché la sorgente è oltre, non è in noi, non è nel nostro impegno e nei nostri sforzi», ma «nel comune affidamento alla fedeltà di Dio». «Questa pace, questa gioia, il mondo non la può dare – sottolinea il Papa – invece il Signore Gesù l’ha promessa ai suoi discepoli, e l’ha donata loro da Risorto.

«Andrea e Pietro hanno ascoltato questa promessa – prosegue il Santo Padre -, hanno ricevuto questo dono. Erano fratelli di sangue, ma l’incontro con Cristo li ha trasformati in fratelli nella fede e nella carità. E in questa sera gioiosa, in questa preghiera vorrei dire soprattutto: fratelli nella speranza».

La radice di questa affermazione del papa sta nel testo del Vangelo secondo Giovanni, caro alla chiesa orientale, che così racconta la chiamata di Pietro ad opera del fratello Andrea, chiamato dal Signore prima di lui: «Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro (Gv 1,40-42). E appunto Andrea è chiamato il “protóclito”, ossia il “primo chiamato” come lo ebbe a definire lo stesso papa emerito ancora nel giugno 2006.

Questa sorta di primogenitura della chiamata, che muove Andrea, insieme ad un altro discepolo che resta anonimo nel racconto del Vangelo di Giovanni (lo stesso autore?), dalla sequela di Giovanni il Battista a quella di Gesù, è indirizzata alla chiamata di Simone. Il racconto del Quarto vangelo è assai diverso da quello della tradizione sinottica (vedi Mc 1,16-20), in cui è Gesù stesso a chiamare alla sua sequela due coppie di fratelli, Pietro e Andrea, appunto e Giacomo e Giovanni.

Gli eventi di queste ultime settimane sono a dirci che Pietro è andato da Andrea, nella speranza che i due possano «essere fratelli nella speranza del Signore Risorto!». Così, colmo di «gratitudine e trepidante attesa», il papa conclude l’indirizzo di risposta augurando a Bartolomeo e alla Chiesa di Costantinopoli il “fraterno” augurio per la festa del Santo Patrono. In cambio chiede – inaspettatamente – «il favore di benedire me e la Chiesa di Roma», chinando il capo in attesa che il “fratello” gli imponga le mani. E Bartolomeo, senza esitazioni, gli dona affettuosamente un bacio sulla testa. Il fratello ha chiamato il fratello sulla via della sequela di Gesù; il fratello accoglie il fratello sulla strada della comunione.

Se questa, fatta di gesti e di segni emblematici, è la strada per il ristabilimento di una comunione completa fra la chiesa di Roma e quella di oriente, ce lo dirà il tempo. Oggi possiamo dire che è sicuramente una delle vie su cui insiste il ministero petrino di Francesco, pur nella consapevolezza della complessità delle situazioni in cui la seconda (Istanbul) e la terza Roma (Mosca) si dibattono.




Il cristiano davanti ad un nuovo anno tra ottimismo e pessimismo

spesdi Stefano Liccioli • L’inizio di un nuovo anno porta con sé, come al solito, una serie di interrogativi tra cui: “Cosa ci dobbiamo aspettare da questo 2015? Andrà tutto bene? Quali difficoltà incontreremo?”.

Domande che toccano tutti, cristiani compresi, chiamati anche in questa circostanza a rendere ragione della speranza che è in loro. La speranza, appunto. Non dunque quella sorta di atteggiamento pessimista che Giacomo Leopardi attribuisce al protagonista del “Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere” e che ribadisce nello “Zibaldone”:«Se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti».

Neppure però un mero ottimismo che ci rassicura sul fatto che qualunque cosa accada sarà un successo.

Il cristiano guarda al futuro forte di quella speranza che nasce dalla fede nel potere di Dio e della Sua  Grazia, capace di far “germogliare i fiori tra le rocce”. Una fiducia che non si fonda sul senso di autosufficienza umana, ma che sa invece che il futuro è realmente di Dio: questa è la grande certezza della nostra vita.

A tal riguardo mi sono sembrate illuminanti le parole di Papa Francesco pronunciate, alcuni mesi fa’, durante l’omelia della Messa presieduta presso Casa Santa Marta, con cui il Pontefice ha precisato che la speranza cristiana non è un sereno buon umore oppure l’atteggiamento di chi di solito guarda al “bicchiere mezzo pieno”: questo è semplicemente “ottimismo”, e “l’ottimismo è un qualcosa di umano che dipende da tante cose”. «La speranza è un dono, è un regalo dello Spirito Santo – ha affermato Papa Francesco – e per questo Paolo dirà: “Mai delude”. La speranza mai delude, perché? Perché è un dono che ci ha dato lo Spirito Santo. Ma Paolo ci dice che la speranza ha un nome. La speranza è Gesù. Non possiamo dire: “Io ho speranza nella vita, ho speranza in Dio”, se tu non dici: “Ho speranza in Gesù Cristo, Persona viva, che vive nell’Eucaristia, che è presente nella sua Parola”». Per un cristiano, la speranza è Gesù in persona, è la sua forza di liberare e rifare nuova ogni vita. E questa speranza non delude, perché Lui è fedele. Non può rinnegare se stesso.

Nella vita quotidiana di un cristiano tutto ciò si traduce, ad esempio, in uno sguardo sulla realtà che sa riconoscere i germogli di vita nuova, si concretizza nel comportamento di colui che non si rassegna di fronte agli eventi negativi del mondo, ma che cerca di vincere il male con la sovrabbondanza del bene.

Spingendoci un po’ oltre, riflettendo, ad esempio, sul destino della Chiesa dobbiamo tenere presente che essa, nonostante i due millenni di storia, non è come un albero morente, ma una pianta che rinasce sempre e si rinnova. Ce l’ha ricordato Benedetto XVI in uno dei suoi ultimi discorsi da papa regnante:«Dobbiamo essere sicuri che se qua e là la Chiesa muore a causa dei peccati degli uomini, a causa della loro non credenza, nello stesso tempo, nasce di nuovo. La Chiesa è l’albero di Dio che vive in eterno e porta in sé l’eternità e la vera eredità: la vita eterna». Il tempo del Cristianesimo e della Chiesa non è dunque finito.

Un’ultima considerazione. Abbiamo da poco celebrato il Natale, la nascita di Gesù. La speranza cristiana è anche l’attesa fervente del ritorno di Gesù, quando tutti i popoli saranno insieme nella “Gerusalemme celeste”, senza distinzioni di alcun genere  – di natura sociale, etnica o religiosa -, ma saranno tutti una cosa sola in Cristo, nella pienezza della Sua comunione e della Sua pace. La Chiesa, ha detto recentemente sempre Papa Francesco, «ha allora il compito di mantenere accesa e ben visibile la lampada della speranza, perché possa continuare a risplendere come segno sicuro di salvezza e possa illuminare a tutta l’umanità il sentiero che porta all’incontro con il volto misericordioso di Dio». Ecco allora che, come cristiani, insieme a tutti i soliti interrogativi, anzi, prima di tutti questi, per il nuovo anno dobbiamo anche domandarci:«Sapremo essere testimoni credibili di questa attesa, di questa speranza, senza cedere sotto il peso della fatica e della rassegnazione?».




Una via per uscire dalla crisi

rivolution-industrialdi Leonardo Salutati • Vorrei riprendere una considerazione di Papa Giovanni Paolo II quando nella Centesimus annus, al n. 35 osserva che nel riconoscere la giusta funzione del profitto come indicatore del buon andamento dell’azienda e del fatto che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti, è necessario anche considerare che il profitto non è l’unico indice delle condizioni dell’azienda. Infatti può succedere, e di fatto succede, che i conti economici siano in ordine ma che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Questo, oltre ad essere moralmente inammissibile, in prospettiva produce conseguenze negative anche per l’efficienza economica dell’azienda. La funzione dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Per cui alla considerazione del profitto come regolatore della vita dell’azienda va aggiunta anche la considerazione di altri fattori umani e morali che, nel lungo periodo, sono egualmente essenziali per la vita dell’impresa. In particolare tra i fattori umani e morali da considerare, Giovanni Paolo II al n. 34 aveva richiamato con forza la considerazione della dignità dell’uomo, sottolineando che «Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia, che le son proprie, esiste un qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità. Questo qualcosa dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un contributo attivo al bene comune dell’umanità» (CA 34).

Sulla linea di queste considerazioni si muove anche Papa Francesco quando, riflettendo sulle attuali difficoltà economiche che ormai si protraggono dal 2008, richiama la necessità dell’esercizio della solidarietà per uscire dalla crisi. Lo ha fatto in particolare nel maggio del 2014 in occasione dell’incontro con i membri della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice dove, di fronte ai tanti imprenditori che sentono la responsabilità della vita di altri lavoratori, ha chiesto con forza di seguire la via della solidarietà. Al riguardo Papa Francesco rilevava che nell’attuale sistema economico, e di conseguenza nella mentalità che esso genera, la parola solidarietà è diventata scomoda, persino fastidiosa anzi, addirittura «una parolaccia per questo mondo», osservando inoltre che: «La crisi di questi anni, che ha cause profonde di ordine etico, ha aumentato questa “allergia” a parole come solidarietà, equa distribuzione dei beni, priorità del lavoro… E la ragione è che non si riesce – o non si vuole – studiare veramente in che modo questi valori etici possono diventare in concreto valori economici, cioè provocare dinamiche virtuose nella produzione, nel lavoro, nel commercio, nella stessa finanza». Per questo proprio mentre la crisi mette a dura prova la speranza degli imprenditori è fondamentale non lasciare soli quelli che sono più in difficoltà ed è importante portare «non solo parole, discorsi, ma … l’esperienza di persone e di imprese che cercano di attuare concretamente i principi etici cristiani nell’attuale situazione del mondo del lavoro».

Queste considerazioni mantengono tutta la loro validità se ci spostiamo su un altro ambito problematico che è quello della attuale crisi dei debiti sovrani, che riguarda anche alcuni paesi europei tra cui l’Italia e in particolar modo la Grecia. Riteniamo che ancor di più, a questo livello, valgano le parole di Giovanni Paolo II che ricordano il valore assoluto della tutela della dignità dell’uomo, oggi in modo particolare offesa proprio per la mancanza di possibilità di lavoro. Come pure l’esercizio della solidarietà internazionale può realmente generare dinamiche virtuose in ordine alla crescita economica come auspica Papa Francesco e come insegnano i risultati del piano Marshall per l’Europa e del Piano Dodge per il Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Nell’attesa dell’affrancamento dal fondamentalismo economico-finanziario che sta fortemente condizionando non soltanto gran parte della popolazione europea ma ancora tanti paesi in via di sviluppo sparsi nel mondo, è senza dubbio necessario e urgente, come cristiani, raccogliere l’invito di Papa Francesco alla preghiera,«perché c’è bisogno di pregare, e di pregare molto quando le sfide sono più dure», in particolare l’imprenditore, ma anche il politico, il professionista, il sindacalista, che nella preghiera e all’interno della comunità cristiana nelle sue diverse articolazioni, possono attingere la linfa per alimentare la loro testimonianza e il loro impegno nel mondo per la solidarietà e la priorità del lavoro sul profitto.