Presentazione degli articoli del mese di febbraio 2018

Pieter_Bruegel_d._Ä._066Andrea Drigani dinanzi alle difficoltà e alle divergenze in cui si trova l’Unione Europa, fa memoria, a cinque anni dalla morte, di un europeista cristiano: Emilio Colombo. Dario Chiapetti dal saggio di Javier Garrido riflette su un punto della teologia francescana: la «minorità» cioè l’essere minore, che rende inseparabile la sequela di Gesù dalla chiamata ad essere fratelli. Giovanni Campanella presenta il libro-intervista di Ivan Maffeis al cardinale Angelo Bagnasco nel quale si affrontano diversi temi, tra i quali quello dell’individualismo da superarsi nella coscienza di appartenere ad una società, coscienza che rende l’uomo pienamente uomo. Mario Alexis Portella osserva sulla ripresa della vita religiosa in Cina, dove accanto al buddismo, al confucianesimo e al taoismo, emerge un ruolo significativo del cristianesimo, che il maoismo non ha potuto distruggere. Carlo Parenti riporta alcuni studi sullo stato della ricchezza del mondo che non si diffonde tra le genti ma che si ristringe nelle mani di pochi individui. Francesco Romano in margine alla recente Istruzione della Congregazione della Cause dei Santi su «Le Reliquie nella Chiesa: autenticità e conservazione» ne rammenta il loro valore storico e spirituale, nell’osservanza delle regole canoniche. Antonio Lovascio con il volume di Giovanni Momigli svolge alcune considerazioni sull’immigrazione, da non confondersi con l’invasione, anche alla luce del Messaggio di Papa Francesco per la Giornata del Rifugiato e del Migrante. Francesco Vermigli nel cinquantenario della morte di Romano Guardini inquadra la sua opera in particolare nella riflessione teologica sulla liturgia, che dovrebbe corrispondere con l’essenza dell’uomo e con la priorità dell’azione di Dio nella storia. Carlo Nardi propone, per illustrare la dottrina del Purgatorio, l’immagine platonica dell’abbaglio, un disagio per eccesso di luce, ma che guarisce ed educa. Alessandro Clemenzia dalla Costituzione Apostolica «Veritatis Gaudium» fa emergere l’indicazione di Papa Francesco affinchè gli studi ecclesiastici si sappiano sintonizzare con il cuore dell’uomo che cerca costantemente l’incontro con la Verità. Stefano Tarocchi richiama l’attenzione sul mistero della chiamata dell’apostolo Paolo, narrata diverse volte negli scritti del Nuovo Testamento. Gianni Cioli attraverso lo studio di Chiara Frugoni sugli aspetti storici, teologici ed iconografici della Cappella degli Scrovegni, ricorda come quest’ultima contribuisca ad una proficua comprensione delle virtù. Leonardo Salutati analizza la «flat tax» rilevandone la sua iniquità, secondo i principi della morale sociale, nonché la sua inefficacia riguardo alle entrate tributarie e all’evasione fiscale. Stefano Liccioli nella figura della venerabile Madeleine Delbrêl (1904-1993) mostra una cristiana che ha saputo coniugare la dimensione mistica con l’impegno attivo a favore del prossimo.




Madeleine Delbrêl: la mistica che abitava le periferie.

La chiamata di Paolo

Paul_Papyrusdi Stefano Tarocchi • È un fatto che il libro degli Atti utilizzi la strada di un triplice racconto per trasmettere ai suoi lettori quell’episodio chiave che cambiò definitivamente il cammino di Paolo di Tarso. Le altre narrazioni derivano dalle lettere, a cominciare dal racconto della lettera ai Galati, che usa lo stesso verbo perseguitare, che ritroviamo nelle parole di Gesù a Paolo sulla via di Damasco. Tra l’altro, Non possiamo dire con certezza che questo fatto – l’autorità del sommo sacerdote sulle comunità giudaiche al di fuori di Gerusalemme – sia storicamente provata, anche se un testo del primo libro dei Maccabei sembrerebbe ammettere questa possibilità (cf. 1 Mac 15,16-21).

Ma è soprattutto nella prima lettera ai Corinzi che abbiamo forse l’elemento decisivo, quando l’apostolo enumera le manifestazioni del Risorto ai discepoli: «a voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito, apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre, apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli». E così conclude: «ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto [ossia qualcuno che non hai mai raggiunto lo sviluppo pieno della vita]. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1 Cor 15,8-9).

Ancora una volta sembra essere la persecuzione devastante la cifra dell’agire di Paolo prima di ricevere la chiamata.

Nelle lettere pastorali si aggiunge un ulteriore tassello, dovuto alla ricostruzione della figura dell’apostolo all’interno della comunità primitiva: «Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede» (1 Tim 1,13).

Comunque sia non si trattò di una conversione dell’apostolo, come siamo soliti definire la festa che ricorre il 25 gennaio, ma di una vera e propria chiamata, secondo il libro degli Atti, con tutti i caratteri di una vera e propria teofania. Questa chiamata impone comunque una missione: «Va’, perché io ti manderò lontano, alle nazioni» (At 22,21). Che è poi quello che leggiamo molto bene nella lettera ai Galati, dapprima all’inizio del cammino di Paolo fra i discepoli di Gesù («Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti (Gal 1,15-16), e quindi dopo la controversia con Cefa. Così Paolo: «visto che a me era stato affidato il Vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi – poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per le genti» (Gal 2,7-8).




La “Città plurale” e i quattro verbi di Papa Francesco

Tutti d’accordo, ovviamente, nel sottolineare che il futuro non si costruisce sulla paura. Allora come possono etnie differenti coabitare in armonia, superando diffidenze e pregiudizi ? Don Momigli (responsabile dell’Ufficio Pastorale Sociale e del lavoro dell’arcidiocesi di Firenze, una militanza nel sindacato prima di entrare in seminario) porta appunto come esempio quello da lui “interpretato” come parroco a San Donino dall’ottobre 1991 al giugno 2016 con la presenza di un intenso e crescente insediamento cinese. Lì ha assunto l’interazione solidale come modalità operativa, riportando la questione della convivenza su un piano di dialogo e di azione volta a superare gli ostacoli e le difficoltà del vivere quotidiano. Creando, per evitare marginalità, “una solidarietà reciproca, che si ottiene puntando su un coinvolgimento nuovo dei cittadini e non sull’assistenzialismo”.

Romano Guardini. Riforma nella continuità

Romano Guardini fu personaggio originale nel panorama della cultura novecentesca: nato in Italia, ma ben presto divenuto cittadino tedesco, rappresenta in virtù anche della città di origine – Verona, dove l’Adige unisce il mondo teutonico con la Pianura Padana e l’Italia – la simbiosi tra due indoli distantissime, eppure nella loro storia sempre in continuo dialogo: il genio germanico e quello italiano, che fondendosi nel Guardini danno luogo ad una cultura mai inutilmente erudita, ad un linguaggio teologico sempre solare e ad un tempo preciso. Ora, pare proprio sia la cifra della riforma ciò che connota in profondità il pensiero di Guardini, un pensiero che si fa poi in maniera naturale vita e impegno educativo.

La liturgia deve essere riconosciuta come dono, come gratuità, come gioco: riformare la liturgia significa allora tornare a comprenderla in questo modo, cioè come espressione pienamente umana di qualcosa che viene donato da Dio. Rinnovare la liturgia, nell’ottica del Guardini, significa acquistare consapevolezza che essa è manifestazione dell’azione salvifica preveniente di Dio, resa in linguaggio e in gesti del tutto umani. La riforma della liturgia, dice il sacerdote italo-tedesco, come ogni riforma all’interno della Chiesa non agisce per cambiamenti di forme, di strutture e di aspetti esteriori, ma agisce in profondità: per approfondimento, cioè, di senso e di valore. Per questo lo “spirito della liturgia” non conosce né strattoni né stagnazioni, né fughe in avanti né restaurazioni: agisce per progressiva comprensione dell’interiore realtà umano-divina che la connota.

Nel 1964, a pochi anni dalla morte, in pieno Concilio, si rivolse al Congresso liturgico riunito a Magonza, domandando se la liturgia sia così legata al passato della Chiesa da doverla abbandonare, oppure se essa abbia a che fare con l’essenziale dell’uomo. Se essa ha a che fare con l’essenza dell’uomo, come pare, la misura di ogni riforma della liturgia sarà la corrispondenza all’essenza corporea e spirituale dell’uomo e alla priorità dell’azione di Dio nella storia. Ma, a ben vedere, sembra proprio che questa corrispondenza sia la misura di ogni riforma ecclesiale.




L’affare migliore di Enrico: Giotto e la cappella Scrovegni nell’ermenutica di Chiara Frugoni

chiara-frugonidi Gianni Cioli • I libri di Chiara Frugoni, celebre storica del medioevo, offrono sempre un apporto significativo al dialogo con l’ermeneutica delle opere d’arte che la teologia sta oggi imbastendo in varie forme. Fin dagli esordi della sua produzione scientifica l’autrice ha sempre preferito un metodo d’indagine capace di valorizzare in egual misura i testi scritti e le immagini artistiche. I suoi saggi, avvincenti oltre che convincenti, attenti ai risvolti teologici dell’interpretazione di un’opera nel contesto e nei particolari, uniscono rigore scientifico, chiarezza espositiva e felicità stilistica. Hanno in genere la capacità di coinvolgere il lettore con percorsi abilmente articolati e che spesso non hanno di che invidiare alla letteratura narrativa. Anche L’affare migliore di Enrico: Giotto e la cappella Scrovegni (Torino 2008) non fa eccezione. La tesi del saggio è suggestiva e appare ben sintetizzata nelle prime righe della quarta di copertina: «Dante pose tra i dannati dell’Inferno il padre di Enrico Scrovegni, Rainaldo, bollandolo come usuraio. Per molto tempo questa condanna ha portato a ritenere che il figlio avesse fatto erigere la cappella padovana per espiare i propri peccati di usura e quelli del genitore. Il libro di Chiara Frugoni capovolge questa tenace interpretazione accolta ancora di recente. Enrico, banchiere, imprenditore e uomo politico, attraverso Giotto volle proclamare il buon uso delle ricchezze, se impiegate in opere caritative, e presentarsi con il volto del mecenate». La studiosa giunge dunque a tratteggiare una biografia nuova e sorprendente di Enrico Scrovegni ponendo abilmente in dialogo le fonti testuali desunte dagli archivi e quelle iconografiche conservate sulle pareti della cappella padovana che egli volle far erigere e decorare senza badare a spese nei primi anni del XIV secolo, coinvolgendo il pittore più famoso del momento. La cappella, dedicata alla Vergine, è stata effettivamente l’affare migliore realizzato dallo Scrovegni. Con quell’investimento egli ha ottenuto al nome del proprio casato una fama che continua a sfidare i secoli, ma soprattutto ha lasciato alla città di Padova e all’intera umanità un patrimonio culturale di significato incomparabile. Fra le fonti testuali considerate dell’autrice emerge in particolare l’importanza del testamento di Enrico, rimasto inedito e pubblicato, tradotto e commentato, in appendice al libro, a cura di Attilio Bartoli Langeli. La parte più interessante del saggio è tuttavia costituita, naturalmente, dell’ermeneutica delle immagini dipinte da Giotto e dai suoi collaboratori sulle pareti della cappella. La Frugoni analizza e interpreta gli affreschi scena per scena mettendo sempre in evidenza sia la fedeltà dei soggetti ai canoni dell’arte e della spiritualità medievale, sia ogni loro tratto di originalità. Gli elementi di originalità andranno sicuramente attribuiti in buona parte al genio di Giotto ma, secondo l’autrice, meritano spesso di essere anche interpretati in funzione della peculiarità del programma iconografico e in particolare del desiderio di Enrico di affermare la possibilità di un uso corretto del denaro a servizio della giustizia e per il benessere della società civile. Così, grazie anche all’apparato iconografico, dettagliato e ben collocato all’interno del testo, che rende ragione della stampa dell’intero saggio su carta patinata, con passione e appassionando, la Frugoni riesce a condurre il lettore alla comprensione unitaria dell’opera. Il ciclo si svolge sulle pareti in una sorta di movimento elicoidale a partire dalle storie dedicate alla vita di Maria, ispirate ai racconti della Leggenda aurea (che segue il vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo), per giungere all’impressionante scena del Giudizio finale, sulla controfacciata della cappella, passando per le scene della vita di Cristo, basate sui racconti evangelici. Molti particolari che possono sfuggire a uno sguardo affrettato appaiono rilevanti per la comprensione del significato teologico delle scene, come nel caso di piccoli quadrilobi in cui vengono raffigurate le premesse veterotestamentarie ai misteri della vita di Cristo. Ma la parte più significativa di tutto il ciclo, per comprendere la peculiarità del programma iconografico della cappella, è forse individuabile nella contrapposizione di vizi e virtù (Stultitia-Prudentia, Incostantia-Fortutudo, Ira-Temperantia, Iniustitia-Iusticia, Invidia-Karitas, Desperatio-Spes) che, raffigurati nelle fasce inferiori delle pareti, fra decorazioni di finti marmi (questi ultimi indagati nel loro significato da Riccardo Luisi), concludono il percorso verso il giudizio finale. «Credo – afferma l’autrice – che le due fasce inferiori debbano essere lette come la parte più autobiografica dello Scrovegni, quella in cui egli svela il suo animo, i principî a cui mostra d’informare la sua condotta e che egli ritiene pienamente condivisibili dai concittadini il cui consenso gli sta evidentemente a cuore. Enrico, al tempo degli affreschi di Giotto, è un uomo piuttosto giovane che ha scalato rapidamente il successo, ma questo non impedisce che sia un buon cristiano, così spera che pensino i padovani» (pp. 273-274). In ogni caso, direi che nel capitolo dedicato ai vizi e alle virtù Chiara Frugoni dia il meglio di sé sia nell’analisi che nella sintesi. Il capitolo può risultare, fra l’altro, uno strumento prezioso per valorizzare anche nell’orizzonte della teologia morale, in particolare della morale delle virtù, il dialogo fra ermeneutica teologica ed ermeneutica dell’opera d’arte, più volte auspicato anche sulle pagine di questa rivista. Le raffigurazioni delle virtù cardinali e teologali e dei vizi contrapposti dipinti da Giotto si pongono in effetti in una significativa continuità ma anche in discontinuità con la tradizione teologica e iconografica del proprio tempo. Un loro studio approfondito in ambito teologico morale arricchirebbe sicuramente non solo la ricerca ma anche la didattica che potrebbe ricuperare con frutto il potere comunicativo delle immagini. In questa prospettiva, le belle analisi di Chiara Frugoni, insieme con l’eccellente apparto iconografico, gli utili indici dei nomi e l’ampia bibliografia, possono costituire uno strumento prezioso per il teologo.




La tassa piatta (flat tax) innalza la disparità di reddito.

images (1)di Leonardo Salutati • Parlando di flat tax (tassa piatta) occorre ricordare come essa sia nata ben prima di essere teorizzata dagli economisti. Già nel 1940 nell’Isola inglese di Jersey venne introdotto un sistema impositivo che presentava caratteristiche assimilabili alla flat tax, cui ha fatto seguito Hong Kong nel 1947, con un’aliquota flat del 16%. La teorizzazione della flat tax maturerà nell’ambito degli studi dell’economista Milton Friedman (1962) che, insieme a George Stigler, è il principale esponente della Scuola di Chicago o scuola neoliberista, le cui idee ispirarono le strategie economiche del Cile di Pinochet e videro Friedman consigliere della Thatcher, di Nixon e, soprattutto, di Reagan nella stagione della svolta liberista dell’economia americana, protrattasi negli anni ‘80 (1981-1989).

Alla base della flat tax vi è la convinzione dell’estrema importanza degli incentivi individuali per favorire la crescita economica, tra i quali quelli che riguardano l’aliquota fiscale sono considerati tra i più importanti.

Inoltre, effetto ricercato della flat tax è facilitare la riduzione dell’evasione fiscale, che andrebbe a compensare il minor gettito fiscale se non ad incrementarlo attraverso il recupero del sommerso. A questo si aggiunga il non meno importante intento di attrarre investimenti esteri nell’ambito di un più generale processo di concorrenza fiscale che vede, per esempio, l’Irlanda con una tassazione del 12,5% sui redditi, il Portogallo con l’imposta sulle società al 27%, l’Austria al 25%, la Germania al 15,825%, gli USA con la recente riforma fiscale di Trump al 21%. Un aspetto che però viene generalmente taciuto è il fatto che l’impatto dell’aliquota unica sulle casse pubbliche possa essere rilevante, generando deficit di bilancio importanti non sufficientemente compensati almeno nel breve periodo.

In realtà negli USA, a fronte di un intenso dibattito sull’opportunità di utilizzare modelli fiscali di flat tax, la discussione è rimasta allo stadio progettuale. Essa ha invece trovato ampia diffusione con alterne vicende nei Paesi dell’ex blocco sovietico che, caratterizzati da sistemi tributari complessi e con aliquote alte associati ad una diffusa evasione fiscale, hanno trovato in questo nuovo sistema impositivo una ricetta per incrementare il gettito tributario e, soprattutto, per attrarre investimenti esteri.

Tenendo conto che risultati economici positivi, generalmente, non dipendono solo dalla politica fiscale, in ordine ad una valutazione morale della flat tax, bisogna osservare che l’applicazione di un’unica aliquota delle imposte dirette è sostanzialmente iniqua. Infatti, se prelevo il 23%, 4.600 Euro, a chi ha un reddito di 20.000 Euro, gli restano 15.600 Euro e lo posso mettere in difficoltà. Se prelevo il 23%, 17.250 Euro, a chi ha un reddito di 75.000 Euro, gli restano 57.750, una cifra che non impedisce un tenore di vita molto più che decoroso. Inoltre insieme alla flat tax di solito si registra un aumento delle imposte indirette, che rende ulteriormente iniqua tale modalità fiscale. Senza considerare che pagare a misura della propria capacità contributiva è un dovere di solidarietà di stretta giustizia evangelica. È dunque necessario che il prelievo fiscale sia progressivo e non proporzionale al fine di tutelare le parti più deboli della società. Tra l’altro l’applicazione della flat tax è un provvedimento che rientra nell’ambito della teoria della ricaduta favorevole, che favorisce un’economia dell’esclusione e sviluppa una globalizzazione dell’indifferenza, espressamente riprovata nella Evangelli gaudium ai nn. 53-54 ed oltretutto mai confermata dai fatti.

«Veritatis gaudium»

sapientia-christianadi Alessandro Clemenzia • Dopo quasi quarant’anni da quando Giovanni Paolo II, il 15 aprile 1979, ha promulgato la Costituzione Apostolica Sapientia christiana, è uscita in questi giorni – fedelmente a quanto era stato raccomandato nel Vaticano II dal Decreto Optatam totius – la Costituzione Apostolica di Papa Francesco sugli studi accademici ecclesiastici, denominata Veritatis gaudium.

Senza entrare nelle parti normative del documento, soffermerei l’attenzione in particolare sul Proemio, dove sono offerti quegli snodi teoretici fondamentali che evidenziano la novità della proposta.

Interessante il connubio di queste due parole: la gioia della verità. Si legge sin dalle prime righe: «La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio» (n. 1). Non si tratta, dunque, di una gioia che scaturisce dal possedere una verità per poterla poi affermare, ma di una gioia che esprime il desiderio del cuore dell’uomo che vuole abitare e condividere quella verità, che non consiste in un’idea astratta, ma in un volto personale: Gesù, il Verbo di Dio.

Gli studi accademici ecclesiastici, dunque, non possono presentarsi come detentori di una verità da diffondere ai più, ma devono sapersi sintonizzare con il cuore dell’uomo che vive l’inquietudine del cercare costantemente l’incontro con la Verità.

Perché ciò si attualizzi, è necessario che gli studi accademici operino un vero e proprio cambiamento di paradigma, che consiste nell’assumere uno sguardo nuovo su tutta la realtà.

  • L’introduzione spirituale, intellettuale ed esistenziale nel mistero trinitario di Dio, da cui deve scaturire un nuovo modo di vivere la Chiesa come “mistica del noi” e di rintracciare nel cosmo quella “trama di relazioni”, ove ogni realtà tende ad un’altra.

  • Il dialogo a tutto campo come esigenza intrinseca alla fede per approfondire in modo comunitario l’esperienza della Verità. Si tratta, in altre parole, di arrivare ad una sempre più autentica cultura dell’incontro.

  • L’inter- e la trans-disciplinarietà, sul piano dei contenuti e del metodo degli studi ecclesiastici, operando un recupero di quell’indispensabile unità del sapere nel rispetto delle sue molteplici espressioni.

  • Fare rete” tra istituzioni accademiche che si ispirano a diverse tradizioni culturali e religiose, costituendo dei centri specializzati di ricerca al fine di offrire un contributo serio e rigoroso alle sfide emergenti dell’umanità.

  • È diventato urgente ormai il compito degli studi ecclesiastici di «elaborare strumenti intellettuali in grado di proporsi come paradigmi d’azione e di pensiero, utili all’annuncio in un mondo contrassegnato dal pluralismo etico-religioso» (n. 5). Per arrivare a ciò sono necessari dei centri di ricerca che offrano la possibilità d’incontro e di dialogo a studiosi di differenti competenze scientifiche e provenienza religiosa: si tratta, anche per gli studi ecclesiastici, di «vivere rischiosamente e con fedeltà sulla frontiera» (n. 5), per entrare costantemente nello spirito di una Chiesa in uscita.

    In perfetta continuità con quanto aveva già affermato la Sapientia christiana quarant’anni orsono, la Costituzione Apostolica Veritatis gaudium offre realmente la possibilità che un settore non indifferente dell’esistenza ecclesiale, quale appunto gli studi accademici, possa trovare una sua nuova regolamentazione interna, fondata certamente sulla Scrittura e sulla Tradizione, ma sempre in grado di accompagnare i processi culturali e sociali attuali, soprattutto quelli più complessi.




    La rinascita della religione in Cina – Un fenomeno imprevisto

    cina 1di Mario Alexis Portella Per decenni, la maggioranza degli occidentali ha pensato che la Cina fosse un paese in cui la religione e la fede avessero un ruolo marginale. Anzi, le varie “storie” sulla fede in Cina tendono a parlare soltanto delle vittime, come i cristiani cinesi, che sono costretti a praticare il cristianesimo clandestinamente, o i gruppi, come il Falun Gong, che ugualmente subiscono la repressione da parte del governo. Di conseguenza, come spiega Ian Johnson, collaboratore del The Wall Street Journal, l’immagine economica, politica e sociale di questo sterminato Paese che emerge dai resoconti di giornalisti e storici pressoché unanimemente, o almeno in modo preponderante, è quella di enormi città che spuntano spesso dov’era deserto, di centinaia di milioni di lavoratori diligenti sfruttati in vaste fabbriche, di nuovi ricchi che ostentano la loro opulenza, di contadini che lavorano in campi inquinati, di dissidenti che languiscono in prigione. Lo stesso Johnson, però, nel suo libro The Souls of China — The Return of Religion After Mao [Le anime della Cina — Il ritorno della religione dopo Mao] (2017), dice che oggi è da valutare, al fine di un giudizio motivato sulla Cina, un importante fenomeno che sfugge ai più: il risveglio della religione, simile al Grande Risveglio che caratterizzò gli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo.

    In tutta la Cina, sono centinaia i templi, le chiese e le moschee che ogni anno vengono aperti al culto, attirando milioni di nuovi fedeli. Le cifre dei seguaci delle varie religioni sono spesso oggetto di dibattito, ma anche un visitatore occasionale non può non notare i segni di questo risveglio tanto sono evidenti: nuove chiese che punteggiano la campagna, templi ricostruiti o ampliati notevolmente, e persino nuove politiche governative che incoraggiano i valori tradizionali. Fede e valori, insomma, stanno tornando al centro di una discussione diffusa a livello nazionale su come organizzare la vita cinese.

    E’ da tenere in considerazione che non c’è e non c’è mai stata in Cina la “religione”, se si intende per religione” un insieme di norme etiche o di credenze in un dio o in più divinità e di relative pratiche cultuali, in relazione ad una concezione del destino umano. Pur avendo la “religione”, nei limiti o connotati accennati, contribuito in modo essenziale alla crescita dell’individuo cinese, si deve affermare che essa è stata storicamente fondata sulla comunità più che sull’identità personale. Ogni villaggio aveva almeno un tempio dove i residenti onoravano un certo dio. La religione, come identità comunitaria, era il nucleo del sistema politico, offrendo assistenza pratica nella gestione dell’impero antico. Infatti, l’imperatore era chiamato “il Figlio del Cielo” e presiedeva ai rituali che sottolineavano la sua natura semi-divina.

    il confucianesimo — dal fondatore Confucio (551 — 479 a.C.), dottrina umanistica fortemente basata sui legami familiari e sull’armonia sociale tra gruppi più vasti, e quindi sulla rettitudine quale fondamento del mondo reale, piuttosto che su di una soteriologia che proietti le speranze dell’uomo in un futuro trascendente; il taoismo (circa 4° — 2° a.C.), basata sul Dao (la via): prassi filosofico-mistica dal rilevante indirizzo morale: il taoista è chiamato a dedicare la propria vita alla ricerca dell’armonia con la natura, ovvero con il Dao, per poter raggiungere la completezza e l’unione con l’essenza dell’universo.

    In gran parte queste tre religioni o discipline (insieme di pensiero filosofico, misticismo e prassi morale), ciascuna coi suoi seguaci, non funzionavano come istituzioni tra loro separate. Gli uomini “religiosi” credevano in un amalgama di queste fedi che è meglio individuata e definita semplicemente come “religione cinese”.

    a fine del sedicesimo secolo, con l’evangelizzazione del gesuita Matteo Ricci (1552-1610), che il cristianesimo si radica più decisamente nella società cinese. A differenza dell’Islam, che è entrato in Cina un millennio prima, anche se era in gran parte confinato nella periferia del paese, il cristianesimo si diffonde via via nel cuore economico della Cina e tra le classi più influenti. Però la cristianità, anche se ebbe un sicuro un punto d’appoggio nel governo imperiale, rimase un fenomeno non rilevante fino alla riforma del diciannovesimo secolo, dopo le due “guerre dell’oppio”, quella contro l’Inghilterra (1839-42) e quella contro Inghilterra e Francia (1856-60): fu in questo momento che al Cristianesimo fu riconosciuto ufficialmente il pieno diritto di predicazione, di evangelizzazione e di proselitismo.

    à furono costretti a sposarsi; i santuari di famiglia furono smantellati; i templi furono sventrati, abbattuti o trasformati in fabbriche o uffici governativi.

    é eravamo poveri. Ma ora molti di noi non siamo più poveri, eppure siamo ancora infelici. Ci rendiamo conto che manca qualcosa, e questa è una vita spirituale >>.

    ù di 70 milioni – un numero che sta aumentando così rapidamente che, stando ad alcune proiezioni, nel 2030 la Cina avrà la popolazione cristiana più nutrita del mondo.

    Questa esplosione di attività religiosa comporta rischi per il Partito Comunista. Ma i leader della Cina ne hanno tratto vantaggio e l’hanno persino incoraggiata in qualche modo. Finora il Partito ha gestito un delicato equilibrio, tollerando il risveglio spirituale, ma senza tuttavia esagerare, per non provocare una reazione popolare contro la centralizzazione del potere in atto. E mentre Pechino persegue una linea di apertura in campo sociale, economico e politico, questo equilibrio potrebbe, pertanto, diventare più difficile da mantenere. Per questo, sarebbe un vantaggio per la Chiesa e per la Cina e per tutto il mondo se essa riprendesse alacremente il ruolo svolto secoli fa.




    Emilio Colombo: un europeista cristiano. Ricordo a cinque anni dalla morte

    Essere fratello (minore): l’uomo secondo Francesco d’Assisi. Spunti da un testo di J. Garrido

    1430117769-sanfrancescodi Dario Chiapetti La relazione tra il divino e l’umano, vero e unico vulnus di tutta la teologia e della vita spirituale di ogni uomo e donna, riceve dal carisma di Francesco d’Assisi un contributo, al fine della sua comprensione sul piano esistenziale e del pensiero, quanto mai rilevante e molto da approfondire.

    Le riflessioni che vado a esporre sono state stimolate dal testo di Javier Garrido (1941), Uno sguardo fraterno (Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2017), nel quale mi sono imbattuto recentemente ad Assisi, appena uscito dalla Porziuncola, dopo aver celebrato nell’eucaristia il mistero della maternità divina di Maria, mistero che, pensando a Francesco (cf Lettera ai fedeli, 2a redazione, 53), trova un certo corrispettivo nella maternità divina propria di ogni figlio di Dio.

    Gesù fratello (cf Lettera ai fedeli, 2a redazione, 49.53).

    sguardo fraterno: uno sguardo a partire dal quale guardare tutto, uno sguardo a partire dalla fraterniformità di tutto ciò che è così come Francesco magnificamente esprime nel Cantico di frate Sole (1225).

    Tale sguardo fraterno è esplicitato nel suo fondamento trinitario-sacramentale: il Figlio, primogenito delle creature, per mezzo dello Spirito Santo, loro principio d’unità, imprime in esse il carattere sia fraterno, comunicandosi nelle loro relazioni, sia, per il fatto che così si trovano relazionate al Padre, filiale, come avviene luminosamente nell’eucaristia.

    uguaglianza, minorità, povertà.

    L’uguaglianza, intesa come uguaglianza anche sociale, non vuole significare il livellamento delle peculiarità del fratello che ne oscuri l’unicità o un principio disciplinare della comunità ma l’espressione chiara e radicale della medesima condizione ontologica di figliolanza di ogni suo membro.

    L’uguaglianza si fonda sulla minorità quale condizione ed espressione del carattere di reciprocità e kenoticità dell’amore divino-umano. L’amore e il servizio danno forza alla reciprocità e quest’ultima non sta nel verificarsi del do ut des ma, appunto, della minorità: amando il fratello, e quindi amandolo “minormente”, esso è riconosciuto e invitato a riconoscersi fratello e quindi alter, reciproco.

    alter col quale sperimentare l’amore divino, amore che di per sé è amore che si abbassa.

    Regola non bollata VII, 14).

    Conversazione con il cardinale Bagnasco

    cardinale-Angelo-Bagnascodi Giovanni Campanella • Nel novembre 2017, è stato pubblicato Cose che ricordo – Una conversazione con Ivan Maffeis dalla Edizioni San Paolo. E’ un libro intervista al cardinale Angelo Bagnasco. L’intervistatore, Ivan Maffeis, è Sottosegretario e Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana. La prefazione è del cardinale Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e Presidente della CEI.

    Angelo Bagnasco è nato nel 1943 a Pontevico, comune lombardo in provincia di Brescia. A causa della guerra, la sua famiglia è costretta a sfollare a Genova e lì Angelo e sua sorella crescono e studiano. Dopo qualche anno, il preside della scuola media di Angelo convoca sua madre e la incoraggia a indirizzare il figlio alla scuola di ragioneria con la prospettiva di un posto sicuro, considerando anche il contesto di boom economico in cui viveva l’Italia in quegli anni Sessanta. Tuttavia, Angelo desidera frequentare il ginnasio e il liceo classico presso il Seminario arcivescovile di Genova per continuare poi nella via del presbiterato.

    Lo stesso cardinale dice a Maffeis:

    «La mia scelta di entrare in seminario trovò i miei genitori sorpresi e anche addolorati, quasi nascondesse un desiderio di volgere le spalle alla famiglia. Nonostante questa loro reazione, non sono mai stato tentato di tornare sui miei passi, forte di un’intuizione – che altro poteva aver colto della vita un adolescente? – che custodivo in me da qualche anno. Mi era sorta osservando il giovane curato che condivideva gran parte della giornata di noi ragazzi, in oratorio come sulla piazza e in chiesa: il suo esserci, il suo stile, la sua disponibilità sono stati elementi che hanno contribuito a farmi riconoscere una forma di vita bella e utile agli altri» (pp. 83-84).

    Nel 1966 viene ordinato presbitero per l’imposizione delle mani del cardinale Giuseppe Siri. Laureato in Filosofia all’Università degli Studi di Genova, è stato docente di Metafisica, Etica, Logica ed Ateismo contemporaneo presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, rimanendo per trenta anni in parrocchia.

    «Ha diretto l’Ufficio Catechistico, quello per l’Educazione e l’Apostolato liturgico. Preside dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose, è stato assistente diocesano della Fuci e Assistente ecclesiastico dell’Agesci. Vicario episcopale per la vita spirituale, è stato Padre spirituale del Seminario Maggiore. Nel 1998 è nominato Vescovo di Pesaro. Nel 2003 assume l’incarico di Ordinario Militare per l’Italia e nel 2006 diventa Arcivescovo Metropolita di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Ligure. Dal marzo 2007 – anno in cui viene creato Cardinale – al maggio 2017 ha guidato come Presidente la Conferenza Episcopale Italiana. Nel 2011 è eletto Vice Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, di cui nel 2016 diventa Presidente» (copertina).

    Nonostante il titolo, nel libro in questione è assai più presente la discussione su temi di attualità rispetto all’elemento biografico, che si lega qua e là ai vari argomenti affrontati. E’ comunque dato un certo spazio al ricordo della recente visita di papa Francesco a Genova, alla fine di maggio 2017.

    Il libro tocca a volo d’uccello varie tematiche a cominciare dalla fede, in modo da “prendere il sacco in cima…” (p. 18). Filo rosso che percorre tutto il libro è la riflessione sulla minaccia dell’incalzante individualismo a cui il cardinale contrappone idee per costruire una diffusa coscienza di appartenenza a un gruppo, coscienza essenziale che rende l’uomo pienamente uomo. Si parla anche di inizio e fine vita, anche se Bagnasco tiene a sottolineare che «quando la Chiesa si interessa dell’inizio e della fine della vita, lo fa anche per salvaguardare il “durante”, perché ciò che le sta a cuore è tutto l’uomo, la cui dignità non è a corrente alterna» (p.45). Si affronta il tema del lavoro, agganciandosi anche al ricordo dei vari incontri di papa Francesco con imprenditori e operai di Genova. Si evidenzia l’importanza cruciale della famiglia e di politiche che la sostengano. Si discute di educazione e scuola. Si riflette sull’essenza del presbiterato e sulla problematica degli abusi sessuali. Viene toccato il tema della trasparenza in ambito economico e la questione dell’otto per mille. Infine, si rimarca l’importanza dell’accoglienza (a cui esorta spesso anche il papa), passando velocemente dalle questioni dell’inclusività, della cittadinanza, dello ius soli e accennando alla necessità di una maggiore coscienza di appartenere a una famiglia europea, famiglia che deve essere aperta e ospitale.