Presentazione degli articoli del mese di giugno 2016

San-Giovanni-CeramicaAndrea Drigani si sofferma sui rapporti, ormai alquanto divaricati, tra il matrimonio cristiano e quello civile, di qui la necessità di ricordare il valore primario del sacramento a prescindere dal riconoscimento statale, che tuttavia non è da escludersi. Francesco Romano richiama i principi teologici e le norme canoniche sull’uso dei beni ecclesiastici, perché la loro gestione sia sempre consona ai fini spirituali che li sono propri. Gianni Cioli ancora nel contesto dell’Anno Giubilare ripropone l’insegnamento del Beato Paolo VI sulle indulgenze e sul senso della penitenza. Dario Chiapetti presenta il libro-intervista al cardinale Georges Cottier, recentemente scomparso, che contribuisce a comprendere il Mistero della Chiesa, alla luce del Vaticano II e del successivo magistero pontificio. Alessandro Clemenzia osserva che Papa Francesco, per spiegare fenomeni complessi, quali la Chiesa e certi processi sociologici, recupera come «modelli» alcune figure geometriche. Antonio Lovascio riflette sul grave fenomeno del gioco d’azzardo, dalle molte ed inquietanti connessioni, che sembra quasi impossibile regolamentare per impedire nefaste conseguenze economiche sulla vita dei giovani e delle famiglie. Francesco Vermigli da un recente volume di Linda Pocher prende spunto per una serie di riflessioni sulla differenza tra l’uomo e la donna alla luce dell’antropologia biblica, per la quale non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo. Carlo Nardi rileva come anche la mentalità del «Galateo» sia utile per gustare e amare la liturgia. Giovanni Campanella con un saggio del gesuita Gaël Giraud ripercorre le tappe della grave e persistente crisi finanziaria mondiale, indicando alcune linee di soluzione radicate nella migliore tradizione cristiana. Stefano Liccioli indica alcuni aspetti pedagogici dell’«Amoris Laetitia» con riferimento all’approccio educativo dei genitori e alla formazione etica dei ragazzi. Leonardo Salutati annota sulla collocazione del diritto all’obiezione di coscienza nell’ambito delle libertà fondamentali dell’uomo, la cui specifica tutela non appare sufficientemente recepita nelle democrazie occidentali. Giovanni Pallanti dalla lettura di un volume del giornalista Fulvio Scaglione trae alcune considerazioni sugli ambigui rapporti commerciali ed economici tra alcuni Stati occidentali e l’Arabia Saudita che fomenta il terrorismo islamico. Stefano Tarocchi commentando una ricerca dello storico Aldo Schiavone invita a studiare la figura di Ponzio Pilato, personaggio enigmatico e mai pienamente conosciuto.




«Il patto con il Diavolo». Un libro di Fulvio Scaglione

scaglione-223x300di Giovanni Pallanti • E’ la storia documentata di come gli occidentali abbiano consegnato il medio oriente al fondamentalismo islamico e all’Isis.

Un’inchiesta da leggere piena di dati sul commercio del petrolio, delle armi e sulle trame di potere che avviluppano i paesi in preda alla guerra scatenata dai fondamentalisti dell’Isis .

Fulvio Scaglione, autore del libro, è un giornalista che dal 2000 al 2016 è stato vice direttore del settimanale “Famiglia Cristiana” ed è specializzato in politica estera.

L’analisi di Scaglione parte dalle responsabilità delle potenze coloniali, in particolare Inghilterra e Francia che tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 hanno segnato i confini dei Paesi africani e medio orientali con criteri arbitrari tagliando in più parti popoli e religioni come più gli conveniva.

Per questa ragione in alcuni Stati convivono o meglio si combattono musulmani sciiti contro musulmani sunniti ed etnie tra di loro diversi.

L’Isis è la risposta terroristica e radicale per un disegno di superamento di queste vecchie ripartizioni territoriali.

Scaglione con grande acutezza racconta nel capitolo che si intitola proprio “Il patto con il diavolo” una storiella , come la chiama Scaglione, molto istruttiva per capire chi c’è dietro l’Isis : “ c’era una volta un Paese della Penisola arabica ricco e potente. Per combattere i propri nemici cominciò a finanziare e armare un movimento estremista islamico. Per farlo, questo Paese si avvalse dell’appoggio di una grande potenza occidentale.” State pensando, chiede Scaglione, all’Arabia Saudita (il paese ricco e potente), all’Isis ( gli estremisti islamici) e agli Stati Uniti d’America ( la grande potenza occidentale)?

Vi sbagliate e fate centro allo stesso tempo . Perché i sauditi, con gli amici occidentali al fianco , il vizietto di usare l’estremismo islamico come una tigre da scatenare in casa d’altri, tenendola però al guinzaglio in casa propria, ce l’hanno da sempre “.

Infatti come è noto con queste pratiche la dinastia reale di Al-Sawd hanno conquistato l’intera penisola arabica con questi sistemi.

Gli Usa hanno fornito all’Arabia Saudita armi, equipaggiamento militare e relativi servizi per 62, 7 miliardi di dollari e costruito istallazioni militari per altri 17 miliardi. ”Con una sola firma – scrive Scaglione- Obama che otto anni fa aveva appena ricevuto il premio Nobel per la pace, a quasi eguagliato sotto la sua presidenza 56 anni di commercio di armamenti tra i due Paesi”.

Se si vuole svuotare il lago culturale e ideologico in cui nuotano i terroristi dobbiamo almeno allentare questi nodi nei paesi vittime del terrorismo . Scuole, lavoro per milioni di giovani che non sapendo come campare sono in balia dell’arruolamento da parte dell’Isis che gli garantisce un piccolo mensile e tre schiave sessuali. Lo sviluppo di questi Paesi deve andare di pari passo con un contrasto militare, privo di ambiguità commerciali e finanziarie della coalizione anti terrorista per riportare un minimo di pace e di speranza in quei paesi e in quei popoli.




Pilato tra “storia e memoria”

pilatodi Stefano Tarocchi • Nella conclusione del recente saggio sul prefetto della Giudea (Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, Einaudi, Torino 2016), Aldo Schiavone, giurista e storico, scrive di essere impressionato da «un’insuperabile ambiguità che si riproduce di continuo intorno a Pilato, appena se ne parli; quasi la sua cifra non potesse essere altro dall’indefinito, dalla nebbia; e aleggiasse su di lui l’ombra di un non detto, di un taciuto che intercetta ogni volta la luce, o la deforma» (143). Si tratta dell’uomo, non a caso, che Tertulliano definiva «un cristiano nel cuore» (pro sua conscientia christianus: Apologeticum, 21).

Pilato viene raccontato in cinque intensi capitoli dal Schiavone: 1) In una notte nel mese di Nisan; 2) La Giudea romana e il lavoro del quinto prefetto; 3) Dio e Cesare; 4) Il destino del prigioniero; 5) Nell’ombra.

A parte il breve capitolo finale, che fa pendant con la stringata introduzione, il percorso segue il cammino tracciato dai Vangeli, con l’eccezione del capitolo 3: una preziosa digressione sul ruolo del prefetto della Giudea e di Pilato in questo ruolo.

Tuttavia nessuna meraviglia se l’uomo che fu, sotto il principato di Tiberio, il quinto prefetto della Giudea, in carica dal 26 al 36 d.C. (e che aveva a disposizione un’unità di cavalleria e cinque coorti di cavalleria), non era molto amato nella terra di sua pertinenza. Peraltro anche se Tacito, usando un felice anacronismo lo chiama “procuratore”, il titolo di prefetto è testimoniato un ritrovamento di una iscrizione – usata originariamente per una delle torri del porto di Cesarea Marittima, sua residenza insieme al grosso della guarnigione, dedicata all’imperatore Tiberio, e poi riutilizzata nel rifacimento del teatro della città. Una lettera del re Erode Agrippa I (in Filone, Legatio ad Caium, 38) lo descrive come «implacabile, senza riguardi, ostinato». Sappiamo anche di stragi fatte compiere dai suoi soldati tra le folle: una, in occasione dei lavori dell’acquedotto del tempio di Gerusalemme, che Pilato voleva finanziare con il tesoro del Tempio (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XVIII, 3, 2); un’altra in circostanze ignote, come rammenta il terzo Vangelo (Lc 13,1: «quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici»), una terza a danno dei Samaritani, che si accompagna a quando, con le insegne imperiali e l’effige dell’imperatore, oltre che il suon nome divino, fece ingresso nel tempio di Gerusalemme. L’azione contro i Samaritani segnò la sua rovina: essi infatti reclamarono presso Vitellio, legato romano in Siria (per lui c’erano a disposizione quattro legioni: la VI, la X [Fretensis], la III e la XII) da cui Pilato dipendeva, e questi lo sospese dalla sua carica, inviandolo a Roma a rispondere del suo operato al tribunale di Tiberio. Prima che arrivasse a Roma Tiberio era già morto, e Pilato cadde nell’oblio.

Più che mai sembra decisiva la distinzione dell’autore tra storia e memoria: la memoria religiosa (ma anche culturale) «è più orientata al significato e alla comprensione degli eventi cui allude … che alla registrazione del passato in quanto tale». Questo perché la stessa memoria è la generatrice del percorso che conduce alla ricostruzione storica. Lo storico perciò distingue, tra i nomi: per lui Giuda e Barabba sono per sé solo figure della “memoria” che ci ha dato i Vangeli. Gli altri sono totalmente personaggi della storia: Anna, Caifa, Erode Antipa, Giuseppe di Arimatea, e soprattutto Pilato.

Ma la storia di Pilato può essere ricostruita solo a partire dalle testimonianze evangeliche dei tre Vangeli Sinottici, e soprattutto di Giovanni, nei rispettivi racconti della passione.

Tutte le fonti confermano che «l’arresto e la condanna di Gesù avevano avuto un impulso giudaico, all’interno dell’élite sacerdotale» (p. 72): l’autorità romana e quella giudaica hanno proceduto fianco a fianco. Questo è confermato dal fatto che nelle accuse mosse Gesù ci fu uno slittamento dal piano religioso a quello politico, che prevedeva il ben noto principio dell’autonomia delle regioni amministrate da Roma (suis moribus legibusque suis uti). Così il Vangelo di Giovanni: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!» (Gv 18,31) e l’apodittico: «noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio» (Gv 19,7).

Pilato venne usato per costringerlo a ratificare la condanna già stabilita dai maggiori esponenti del giudaismo: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare» (Giovanni 19,12). Era questo l’unico motivo per portare Gesù alla morte, senza invocare poter invocare a Gerusalemme la Lex Iulia maiestatis che a Roma puniva chi avesse voluto sostituirsi al potere costituito proclamandosi «re dei Giudei».

Ma Gesù, pur accusato di essere re, non ha un regno in questo mondo (cf. Giovanni 18,36). Schiavone indulge al vezzo di fare un po’ di teologia (pp. 86-87), e, per affermare il monoteismo, costruisce quasi una natura “binitaria” di Gesù, in bilico tra lui e il Padre: l’unico punto, a mio avviso, discutibile del saggio, che richiama un altro elemento binario, Dio e Cesare, e quindi la lotta dei discepoli di Cristo contro il potere del cesare di turno.

Schiavone smonta anche la memoria trasmessa dal solo Matteo del gesto per cui Pilato è giustamente famoso, l’atto di lavarsi le mani (Matteo 27,24), che a suo avviso diventa «il punto zero nella genealogia dell’antisemitismo cristiano» (p. 111), per approfondire il racconto del famoso “processo”, che l’autore nega fosse un procedimento vero e proprio, con una precisa procedura. Schiavone ha forti dubbi anche sull’invio da Pilato ad Erode, l’Antipa, come narra Luca (23,6-12), che vorrebbe addirittura costruire un’amicizia di comodo fra il tetrarca e il prefetto.

Del resto non era un processo nemmeno l’interrogatorio davanti ad Anna e poi a Caifa. Davanti a Pilato non c’era un cittadino romano, che poteva invocare una garanzia dovuta al suo stato giuridico o al suo patrimonio: c’era solo un predicatore dalle umili origini. Questo non impedisce di frapporre fra Gesù e Pilato la celebre domanda «che cos’è la verità», la cui analisi lascia trasparire anche in Schiavone una certa simpatia per il prefetto, al pari di Tertulliano e della chiesa Ortodossa Etiope che annovera Pilato tra i santi, per quest’ultimo, evidentemente affascinato dall’uomo che ha davanti (“quid est veritas?” “Est vir qui adest).

Schiavone parimenti insiste sul fatto che non solo Giovanni, ma anche Matteo e Marco finiscono per incolpare l’intero popolo ebraico dell’intera responsabilità del crimine (p. 113), scagionando (soprattutto Marco!) Pilato e il potere di Roma da ogni responsabilità sulla morte di Gesù. Se il Giudaismo ha manovrato perché Pilato pronunci la condanna, nonostante il tentativo in extremis di far appello alla consuetudine di liberare un prigioniero, non è il Giudaismo delle folle e del popolo, pur richiamate nella narrazione ma quello dell’intellighenzia del potere politico-religioso. Tutto sommato anche Pilato, nella sua ineffabile ambiguità, ne è ugualmente vittima.




L’obiezione di coscienza e le libertà fondamentali dell’uomo

cedudi Leonardo Salutati La multiculturalità e il pluralismo ideologico che caratterizza la società contemporanea hanno contribuito a incrementare i casi di rottura tra l’interesse tutelato dalla norma giuridica e il background culturale e religioso radicato all’interno del tessuto sociale, favorendo così il manifestarsi di quel fenomeno che è l’obiezione di coscienza. A questo proposito, la recente approvazione del Parlamento italiano della legge che istituisce le unioni civili anche tra le coppie dello stesso sesso, ha già aperto un dibattito sulla possibilità o meno di tale esercizio del Pubblico Ufficiale chiamato a registrarle.

È importante ricordare che il diritto all’obiezione di coscienza si inserisce nell’ambito più vasto del diritto di libertà religiosa, che è uno dei diritti dell’uomo riconosciuti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 purtroppo, oggi, non adeguatamente tutelato.

Al riguardo, per il fatto che sui diritti della dichiarazione del 1948 incombeva, fin dall’inizio, il sospetto di occidentalismo, il testo originario fu ampiamente rivisto col fine di universalizzare i suoi fondamenti, andando di fatto ad indebolire la tutela di alcuni diritti. Per esempio, per il diritto di libertà religiosa, l’articolo 18 del 1948 prevedeva: «Ogni individuo ha diritto alla piena libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, in pubblico o in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti»; 18 anni dopo il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici entrato in vigore nel 1976 asserirà che ogni individuo deve essere libero «di avere o di adottare una religione o un credo di sua scelta» (art. 18). Sparisce il «cambiare religione». In seguito, nella dichiarazione del 1981, si ribadirà soltanto il diritto di «professare… nonché… di manifestare la propria religione» (art 1). È evidente l’indebolimento della tutela del diritto rispetto alla formulazione originaria.

In questa luce non è esagerato affermare che la questione dell’obiezione di coscienza riguarda una frontiera cruciale della libertà, minacciata dalla dittatura del relativismo.

Nell’aprile 2012, nella lettera pastorale sulla libertà religiosa, i vescovi del Canada ricordavano la norma contenuta nel n. 2242 del CCC: «Il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell’ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del Vangelo. Il rifiuto d’obbedienza alle autorità civili, quando le loro richieste contrastano con quelle della retta coscienza, trova la sua giustificazione nella distinzione tra il servizio di Dio e il servizio della comunità politica. “Rendete […] a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,21). “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29)».

La lettera offriva una riflessione su un problema analogo a quello presentatosi in Francia, con la differenza che se in Canada gli ufficiali di stato civile che non volevano celebrare i matrimoni di persone dello stesso sesso dovevano dimettersi dalle loro cariche pubbliche, in Francia era prevista la prigione. I sindaci francesi prospettarono di fare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, però, il 15 gennaio 2013 aveva già dato torto alla signora Lilian Ladele in un caso analogo (2007) che la opponeva alla Gran Bretagna, sentenziando che spettava ai tribunali nazionali decidere la prevalenza tra due diversi diritti, entrambi protetti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: il diritto degli omosessuali a non essere discriminati e il diritto alla libertà religiosa. Pertanto i tribunali inglesi avevano la legittima possibilità di far prevalere i diritti degli omosessuali e il licenziamento della Ladele fu confermato.

Nel caso Ladele anche la Corte Europea ha rivelato che la libertà religiosa non è meritevole di adeguata tutela, negando il diritto all’obiezione di coscienza a pubblici funzionari ed è paradossale che tutto ciò accada in Europa come negli Stati Uniti d’America (vedi il caso analogo di Kim Davis del 2015) che, tra l’altro, si staccarono dal Regno Unito proprio per difendere e promuovere la libertà di coscienza e di religione.

In conclusione un parlamento può varare decine e decine di leggi sulla libertà di pensiero e di religione, ma affinché queste non siano solo teoria, dovrà prevedere in concreto delle fattispecie in cui è riconosciuta l’obiezione di coscienza ed è urgente, oggi, chiedersi se può uno stato definirsi effettivamente democratico, quando le proprie leggi non sono capaci di accompagnare i continui mutamenti culturali e ideologici di tutti i propri cittadini, tutelando allo stesso tempo e prima di tutto il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.




L’uomo e la donna nel disegno di Dio

2015 050 codi Francesco Vermigli • Ci sono libri che si leggono tutti d’un fiato: è il caso di quello scritto da Linda Pocher, suora della congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice (L’uomo e la donna nel disegno di Dio, Torino, Elledici, 2016, pp. 95). Sarà stato per il carattere sintetico del libro, per la passione giovanile che traspare tra le righe, per la fluidità dello stile, per la ricchezza dei riferimenti teologici, filosofici e psicologici, ma ci siamo trovati – si direbbe – a divorare il suo testo. C’è tuttavia una ragione più profonda che ci ha fatto apprezzare ancora meglio il valore di questo libro: il fatto che affronti senza timore di essere fraintesa la differenza sessuale, come dato ricolmo di significato per l’uomo d’oggi.

Ha ancora senso – si chiede l’autrice – riconoscere un valore antropologico alla differenza tra l’uomo e la donna? A ben vedere, la teologia e la Chiesa per decenni si sono affaticate a ricercare il senso di questo fatto; in modo particolare mediante la valorizzazione del femminile nella vita ecclesiale. Eppure la storia del nostro mondo occidentale sembra andare tutta da un’altra parte, come attesta l’avvolgersi della discussione pubblica – in una maniera persino ossessiva – sulle tematiche del “genere”. Alle vestali delle “magnifiche sorti e progressive” sembrerà che si tratti solo di aspettare qualche anno e certificare di nuovo il ritardo della Chiesa nel cammino della storia. A meno che la differenza sessuale uomo/donna non abbia in sé un significato talmente decisivo, che la Chiesa anche nel futuro non potrà che custodirlo, preservarlo e valorizzarlo.

Il punto su cui frequentemente l’autrice ritorna, è la possibilità – che a giudizio della nostra società dovrebbe essere riconosciuta all’essere umano – di plasmare se stesso. In quest’ottica il corpo sessuato è percepito come un limite che ostacola l’obbiettivo dell’autodeterminazione assoluta: il corpo nella sua conformazione maschile e femminile – per così dire – ricorda continuamente all’uomo faber sui uno stadio dell’umano da superare. Non è quindi un caso che tra l’esegesi di brani biblici e le citazioni di filosofi moderni, molte pagine siano dedicate a verificare il significato antropologico che ha la differenza sessuata tra uomo e donna. Ci si sofferma, ad esempio, su cosa venga scatenato nella psiche della donna dal ciclo mestruale – che, tra il menarca e la menopausa, si pone come una continua memoria della possibilità perduta e sempre rinnovata della generazione – e su come la presenza dell’uomo a fianco della donna durante la gestazione richiami simbolicamente il fatto che quello che è custodito nel grembo della madre, ha un’origine esterna alla madre. Si mostra in modo particolare il significato che ha l’atto sessuale, dal momento che nella congiunzione dei corpi si rivela la bipolarità non solo anatomica del maschile e femminile: se nell’atto sessuale al polo maschile spetta l’esteriorità e il movimento donativo dall’interno verso l’esterno, al polo femminile spetta l’interiorità e il movimento inverso, quello dell’accoglienza ricettiva di ciò che proviene dall’esterno. Il punto su cui si gioca tutto il libro è proprio quel non solo anatomicamente. Se una corretta antropologia ci ha insegnato a dover affermare che noi non abbiamo un corpo, ma che siamo un corpo, cosa si potrà affermare della differenza sessuale tra il maschile e femminile?

Si dovrà sfuggire all’idea che la differenza sia solo al livello della costituzione anatomica, e abbracciare quella che riconosce al maschile e al femminile un modo diverso di vedere l’intera realtà; modo diverso, perché radicato in una differente corporeità. Così, da un lato la donna manifesta la propria presenza nel mondo attraverso il controllo dello spazio abitato, dall’altro l’uomo tende a guardare la realtà in profondità, con lo scopo del raggiungimento di un obbiettivo; atteggiamenti che si pongono come una sorta di interiorizzazione della forma esteriore del rispettivo apparato sessuale. Ma ad entrambi spetta il compito di sfuggire ai rischi connessi con questi tratti specifici del proprio stare al mondo: per la donna il rischio di un controllo ossessivo della realtà e dell’altro, per l’uomo il rischio di un egoismo incapace di percepire l’alterità.

È la riflessione più direttamente teologica che permette di cogliere come l’uomo e la donna siano chiamati ad un cammino parallelo di purificazione del modo di pensare la propria costituzione sessuata: il Vangelo riconduce al progetto delle origini; o meglio, il Vangelo riconduce – per dirla con il titolo del libro – al disegno che Dio ha per l’uomo e per la donna fin dagli inizi. Come noto, i movimenti femministi hanno accusato la Chiesa di legittimare un rapporto tra i sessi, fondato sul potere dell’uomo sulla donna: il che non è da escludersi sia accaduto e accada tuttora. Ma è l’immagine dei sessi consegnata dai Vangeli – quella della “reciprocità asimmetrica”, per dirla con l’autrice – a presentarsi alla Chiesa come una continua provocazione. Nella memoria di quest’ultima, restano scolpite le parole del suo Maestro: “ma da principio non era così”.




Un po’ più politica e dialogo e un po’ meno soldi ed economia

trasferimentodi Giovanni Campanella • Transizione ecologica – La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia è un saggio di economia raffinato, denso e complesso. E’stato scritto da un gesuita francese, Gaël Giraud, che è stato e continua ad essere un economista assai preparato, specializzato in economia matematica e docente di teoria dei giochi alla Sorbona. Fa anche parte del Laboratorio d’Eccellenza di Regolazione Finanziaria e della Scuola di Economia di Parigi. Il libro in questione è stato pubblicato nel 2012 in Francia. E’ stato poi pubblicato con alcuni aggiornamenti in Italia dalla EMI (per la collana “Cittadini sul pianeta” diretta da Francesco Gesualdi) nel mese di novembre 2015. Ha il pregio di descrivere con precisione e profondità cause ed evoluzione della grande crisi finanziaria del 2007-2008, partendo dal sogno americano della società di proprietari di case. A questo proposito, Giraud cita un discorso di George W. Bush del 2003: «Quella che vogliamo creare è una società di proprietari, dove sempre più gente possa aprire la porta di casa e invitarvi a entrare dicendo: “Benvenuto, questa è casa mia”» (Bush come citato a p. 41). Da questo sogno scaturì poi quel vortice di debiti, su cui molti specularono e continuarono ad accrescere, che poi crollò mietendo numerose vittime tra risparmiatori e banche stesse.

L’opera di Giraud è dunque encomiabile. Tuttavia, il titolo mi sembra fuorviante: solo il capitolo quarto, intitolato appunto “La transizione ecologica”, tratta concretamente di tale tema e consta di 17 pagine su 288 dell’intero libro. A mio avviso, il filo rosso che percorre tutto il saggio è la denuncia delle malefatte bancarie unita a proposte per cambiare il sistema attuale, scendendo anche in dettaglio sui meccanismi stessi di creazione monetaria.

Ciò che ha contribuito a dare enorme potere a piccoli gruppi economici è stata la crescente diffidenza nella politica e nelle sue regole, diffidenza comprensibilmente alimentata da ferite causate da feroci totalitarismi emersi nel ‘900 e da recenti comportamenti non proprio limpidi di certa classe politica. Così abbiamo lasciato che il piano politico fosse stato quasi in toto soppiantato dal piano economico. La dimensione del dialogo e del confronto è stata sostituita dalla dimensione dei soldi. Ma, nonostante i politici, la politica rimane essenziale, deve essere recuperata. Della sua importanza ci hanno parlato anche Aristotele e San Tommaso d’Aquino. Al riguardo, Giraud scrive:

«Come trovare gusto, energia, per fare società? E’ il problema cui Giacobbe deve far fronte subito prima di ritrovare il fratello Esaù dall’altra parte del fiume (Gen 32,9-32). Giacobbe non trova di meglio – e come stupirsene? – , per tentare di addolcire la violenza del fratello che egli prevede (a torto?) di trovare in lui, che cedergli il proprio gregge e anche i servi – la sua proprietà. E’ il primo tentativo che la Bibbia registra di vincere la paura dell’altro con il commercio delle cose. L’ideale messianico della società di proprietari (cfr. cap. 1) può essere letto come il tentativo di proiettare nell’orizzonte ultimo delle nostre società questa soluzione immaginaria, per l’angoscia di Giacobbe, che è la proprietà privata» (p. 268).

In opposizione alla categoria di proprietà, Giraud suggerisce di valorizzare quella di uso, proposta da teologi e giuristi francescani a partire dal XIII secolo.




Galateo da chiesa

trasferimento (1)di Carlo Nardi • Nel ’500 il benemerito monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo non considerò le buone creanze in chiesa. Qualcuno poi ci pensò. Certo, le raccomandazioni andrebbero adattate non tanto secondo le relativamente nuove regole, ma piuttosto secondo il spirito della riforma liturgica: spirito che, a un occhio superficiale, parrebbe refrattario a regole. Eppure la riforma liturgica non è la privatizzazione selvaggia del culto pubblico.

Piuttosto, la liturgia libera da un io sempre ingombrante e un po’ ridicolo, anche quando si tratta di devozione. Anzi, più che mai quando i nostri modi ci sembrano quelli del Padreterno. Insomma, un po’ di galateo non disdice in chiesa. Sarebbe in sintonia con quanto suggerisce il Concilio: «i riti rifulgano per rilevante semplicità». Nulla di più lontano dalla pompa come dalla sciattezza. Al contrario un culto tutto essenzialità, armonia e linearità, per un primato del significativo sul decorativo, culto che ricorda l’ideale classico di «nobile semplicità e placida grandezza» (Winckelmann).

Anche al della Casa sarebbe andato a genio il proverbio toscano: i troppi amen guastan la messa. L’unica volta che rammenta la chiesa è in bocca a uno sguaiato zelante che crede di fomentare la fede altrui con l’offesa: «Non venisti meco alla chiesa. Bestia!» (Galateo, cap. 7): una correzione non proprio fraterna. Invece, per chi ambisce, fraternamente, a far gustare e vivere la liturgia, anche la mentalità del Galateo può calzare a puntino.

Può esserci una buona creanza espressione di partecipazione piena, consapevole, attiva al culto, in primo luogo alla messa? È una cosa da tentare, fin da come s’entra in chiesa e si fa il segno della croce. Un illustre teologo, Romano Guardini, con la semplicità di un catechista, raccomandava: «Quando fai il segno della croce, fallo bene. Non così affrettato, rattrappito, tale che nessuno capisce che cosa debba significare. No, un segno della croce giusto, cioè lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all’altra. […]

Perché? Perché è il segno della totalità ed è il segno della redenzione. Sulla croce nostro Signore ci ha redenti tutti. Mediante la croce Egli santifica l’uomo nella sua totalità, fin nelle ultime fibre del suo essere. […] Fallo bene: lento, ampio, consapevole. Allora esso abbraccia tutto il tuo essere, corpo ed anima, pensieri e volontà, senso e sentimento, agire e patire, e tutto diviene irrobustito, segnato, consacrato nella forza di Cristo, nel nome del Dio uno e trino» (I santi segni, in Lo spirito della liturgia, Brescia 1987, pp. 135-136).

Galateo, buona creanza, consapevolezza: è tutto questione di rispetto, senza il quale non c’è adorazione.




“Figlio, dove sei?” Spunti di pedagogia nell’«Amoris Laetitia»

Amoris-laetitiadi Stefano Liccioli • Si è parlato molto, in questi ultimi mesi, dell’esortazione apostolica di Papa Francesco, «Amoris laetitia». I media hanno valuto metterne in risalto alcuni aspetti, operando talvolta delle forzature o in altri casi delle semplificazioni eccessive, tali da non rendere giustizia al vero pensiero del Santo Padre sul tema dell’amore nella famiglia.

Quello che, a mio avviso, mi pare non sia stato messo in luce in maniera adeguata è l’intento educativo del documento o almeno di alcune parti di esso. In questa sede non posso sviluppare in maniera approfondita tutte queste riflessioni, mi soffermerò solo su alcune, quelle che ritengo più significative.

Innanzitutto Papa Francesco sembra chiarire quale debba essere l’autentico approccio educativo dei genitori nei confronti dei figli, essi devono «orientare e preparare i bambini e gli adolescenti affinché sappiano affrontare situazioni in cui ci possano essere, per esempio, rischi di aggressioni, di abuso o di tossicodipendenza» (AL, 260). In quest’ottica educare significa dare gli strumenti per affrontare le sfide della vita, evitando tutti quelli atteggiamenti di controllo ossessivo delle situazioni in cui si trovano i figli che non servono a formare, semmai a tentare di placare l’ansia dei genitori. «Quello che interessa principalmente è generare nel figlio, con molto amore, processi di maturazione della sua libertà, di preparazione, di crescita integrale, di coltivazione dell’autentica autonomia. Solo così quel figlio avrà in sé stesso gli elementi di cui ha bisogno per sapersi difendere e per agire con intelligenza e accortezza in circostanze difficili» (AL, 261).

Per quel che concerne la formazione ettca dei ragazzi e delle ragazze il Pontefice sottolinea la necessità di sviluppare in loro delle abitudini, consuetudini che si realizzano mediante l’insistenza degli adulti ed il rafforzamento della volontà: avere sentimenti socievoli e una buona disposizione verso gli altri non basta se non c’è un allenamento con la ripetizione di determinate azioni.

Particolarmente interessante è il riferimento che Papa Francesco fa all’importanza dell’empatia:«E’ indispensabile sensibilizzare il bambino e l’adolescente affinché si renda conto che le cattive azioni hanno delle conseguenze. Occorre risvegliare la capacità di porsi nei panni dell’altro e di pentirsi per la sua sofferenza quando gli si è fatto del male. Alcune sanzioni – ai comportamenti antisociali aggressivi – possono conseguire in parte questa finalità. È importante orientare il bambino con fermezza a chiedere perdono e a riparare il danno causato agli altri» (AL, 268). Il fenomeno del bullismo di cui tanto si parla ai nostri giorni nasce soprattutto, a mio parere, da questa mancanza di empatia, di mettersi nei panni di chi viene vessato.

L’educazione morale richiede un paziente realismo, occorre proporre piccoli passi perché esigendo troppo si rischia di non ottenere nulla.

Un’ultima considerazione riguarda la questione dell’educazione sessuale. Il Santo Padre si domanda:«Chi è capace di prendere sul serio i giovani? Chi li aiuta a prepararsi seriamente per un amore grande e generoso? Si prende troppo alla leggera l’educazione sessuale». Egli giudica irresponsabile ogni invito agli adolescenti a giocare con i loro corpi e i loro desideri, come se avessero la maturità, i valori propri del matrimonio:«E’ importante invece insegnare un percorso sulle diverse espressioni dell’amore, sulla cura reciproca, sulla tenerezza rispettosa, sulla comunicazione ricca di senso. Tutto questo, infatti, prepara ad un dono di sé integro e generoso che si esprimerà, dopo un impegno pubblico, nell’offerta dei corpi. L’unione sessuale nel matrimonio apparirà così come segno di un impegno totalizzante, arricchito da tutto il cammino precedente» (AL, 283).

Vale la pena osservare come Papa Francesco conduca queste riflessioni in maniera molto chiara e concreta, facendosi percepire al lettore come un vero esperto d’umanità.




La Chiesa è Concilio: l’ecclesio-selfie di Georges Cottier

Cardinale-Georges-Cottier-1-740x493di Dario Chiapetti Anche la Chiesa è entrata nel mondo dei selfie. Anzi, si potrebbe in un certo senso dire che tale moda sia stata lanciata proprio da lei, anticipandone l’esplosione di ben circa quarant’anni, ovvero dal Concilio Vaticano II. È quanto ad esempio si constatò in un’intervista a tutto campo al card. Georges Cottier (1922-2016) pubblicata, per l’appunto, col titolo Selfie. Dialogo con il teologo di tre papi.

Il fenomeno-selfie rivela significati profondi. Innanzitutto esso ha per oggetto la fotografia, il dare immagine ad immagini. La Chiesa per sua natura, “unica complessa realtà divino-umana” (cf Lumen Gentium 8b), possiede un’immagine e tende a dare immagine di sé. Ed essendo il selfie un fenomeno proprio dei social network, esso intende immortalare l’immagine e condividerla. È poi proprio del selfie il carattere di autoscatto, esattamente come quell’attività di autoriflessione della Chiesa, soprattutto dal Concilio in poi. Non solo la Chiesa ha voluto riflettere su sé ma ha voluto farlo a partire anche dalla relazione con l’altro, condividendo con questi il suo essere – per l’appunto di servizio – e così chiamarlo ad una più autentica relazione. Certo, nel selfie è il soggetto che sceglie cosa mostrare, quando e a chi, ci può essere poi autocompiacimento, compulsività, tendenza ad autovalutarsi e valutare gli “amici” in base ai “like” ricevuti e messi. Ma anche tutto ciò rivela chi siamo.

Se il selfie è una valida pista di conoscenza, quelli “postati” da Cottier, discepolo del grande ecclesiologo Charles Journet e teologo della casa pontificia dal 1990, testimone, in quanto protagonista, del corso ecclesiale dal Concilio in poi, risultano essere particolarmente eloquenti.

A ben osservare i selfie ci si può accorgere come il filo rosso che li accomuna è rintracciabile in questa acuta affermazione di Cottier: “Il catechismo della Chiesa Cattolica è Concilio, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI sono Concilio, questo papa Francesco è Concilio, e tante cose sono cambiate”. Con queste parole il porporato dice l’essenza della Chiesa come quella convocatio et congregatio in unum che riflette su se stessa a partire dalle istanze che la informano costantemente, il Vangelo e la realtà umana, si lascia interrogare da esse e cerca di rispondere ai loro bisogni. E ciò attraverso il dialogo. Nota è la profezia di Paolo VI in Ecclesiam Suam – documento che per Cottier rappresenta “l’espressione dell’essenza del concilio stesso” – al n. 67: “la Chiesa si fa dialogo”.

“Prima del Concilio – osserva il domenicano – la tendenza prevalente era insistere sull’identità cattolica che di fatto è una cosa essenziale, ma si insisteva soprattutto sulle opposizioni e spesso con toni inutilmente polemici. L’ispirazione profonda del dialogo autentico invece è rispettare il cammino spirituale dell’altro e cercare i punti di contatto per tentare un cammino insieme”. L’altro e il dialogo con esso non è un optional ma fa parte del movimento d’uscita della Chiesa per portare e sperimentare l’amore di Dio in Cristo Gesù, che la costituisce. Ciò è spiegato quando, ad esempio, a proposito della questione della desacralizzazione della figura del pontefice, nel discorso più ampio circa la nozione di Tradizione secondo il dettato conciliare “Ecclesia semper reformanda“, il porporato afferma che “una certa semplicità oggi parla meglio che l’eccessiva ricchezza dei paramenti […] Conta che il papa appaia come messaggero del Vangelo e non come un potente della storia”.

Solo entro un contatto così vitale con l’altro la Chiesa potrà ritrovare e approfondire i contenuti di fede che ha espresso e su cui si è fondata in passato la cosiddetta societas christiana. Afferma infatti Cottier: “anche i simboli, i valori che dipendono dal messaggio della fede perdono il vero senso se non c’è più la fede che li ha ispirati. Penso alla diatriba sul togliere o lasciare il crocifisso nelle scuole. La Chiesa l’ha difeso come simbolo culturale: aveva ragione, la croce è anche un simbolo, ma bisogna andare a fondo della questione”: a ben guardare, esso indica proprio impotenza, amore all’altro fino alla spoliazione di sé e in ciò il simbolo manifesta significato e credibilità. Nel recupero del significato teologico della “stoltezza” (cf 1Cor 1,21) dell’agire di Dio e nell’inserimento nella logica relazionale sottesa la Chiesa realizza quel cristianesimo conformato e conformante a Cristo. E tale processo può avvenire attraverso quella che papa Francesco chiama “conversione pastorale”, che – per riprendere le parole di Cottier in un’altra intervista, alla Civiltà Cattolica – è basata sull’assunto “la misericordia è dottrina” e connessa alla “morale della prudenza che applica in maniera esistenziale il giudizio retto al dinamismo affettivo che essa orienta”, tratteggiata da san Tommaso e alla base della prospettiva della recente esortazione di Francesco Amoris Laetitia. Tale conversione è l’atto teologico supremo che la Chiesa possa porre, manifestazione del suo volto di Chiesa-Concilio: la Chiesa che si raduna e si interroga, si accompagna, si fa accompagnare e accompagna.




Il diritto della Chiesa ai beni temporali per i suoi fini ecclesiali

chiesa-diroccatadi Francesco Romano • In molteplici occasioni Papa Francesco si è soffermato nelle omelie e nelle catechesi sul pericolo dell’uso distorto della ricchezza pronunciando la sua netta chiusura “a una Chiesa che vive attaccata ai soldi, che pensa ai soldi, a come guadagnare i soldi”. La Chiesa deve essere umile e fiduciosa in Dio, la povertà è la prima delle beatitudine e la vera ricchezza sono i poveri, non i soldi e il potere. La vera ricchezza è l’amore di Dio condiviso con i fratelli.

Questa nostra riflessione vuole richiamare l’importanza per la Chiesa di possedere beni materiali solo se orientati ai fini ecclesiali. Il can. 1254 §1 afferma in modo generale: “La Chiesa cattolica ha il diritto nativo, indipendentemente dal potere civile, di acquistare, ritenere, amministrare e alienare i beni temporali per conseguire i fini che le sono propri”. La Chiesa cattolica come tale ha il diritto ai beni temporali. Si tratta di un diritto nativo che le deriva dallo stesso suo Fondatore, Gesù Cristo. Il diritto si fonda sui fini che essa deve perseguire e che le sono esclusivi e propri. Tali fini soprannaturali in sé non possono essere raggiunti senza i mezzi temporali perché la Chiesa opera nella storia, nel tempo e nello spazio. La necessità dei mezzi temporali deriva rigorosamente dalla natura e dalla missione della Chiesa. Di fatto, come afferma il can. 1254 §2, i fini che la Chiesa considera suoi ed esclusivi sono principalmente: “Ordinare il culto divino, provvedere a un onesto sostentamento del clero e degli altri ministri, esercitare opere di apostolato sacro e di carità, specialmente a servizio dei poveri”.

Dobbiamo chiederci come si concretizza questo diritto della Chiesa ai beni temporali per il conseguimento dei propri fini. Sappiamo che la Chiesa Cattolica in quanto tale non ha intestati i beni. Ma la Chiesa Cattolica opera attraverso la Sede Apostolica mediante l’ufficio del primato del Romano Pontefice, istituito da Gesù Cristo stesso, attraverso le Chiese particolari e attraverso tutte le altre persone giuridiche pubbliche che, per la loro stessa costituzione, per definizione agiscono a nome della Chiesa per raggiungere fini ecclesiali con speciale mandato ricevuto in vista del bene comune.

I canoni successivi precisano nell’ordinamento canonico chi ha la capacità di acquistare (can. 1255) e di possedere i beni (can. 1256) per i fini della Chiesa e quali pertanto siano i beni ecclesiastici (can. 1257 §1). Se la capacità di acquistare è riconosciuta anche alle persone giuridiche private, tuttavia la nozione di bene ecclesiastico si realizza solo nei beni delle persone giuridiche pubbliche perché solo in queste e attraverso queste agisce la Chiesa come tale. Le persone giuridiche pubbliche hanno il diritto di acquistare e possedere beni in quanto la Chiesa, erigendole e abilitandole a operare a suo nome, agisce in esse e per esse concretizzando il suo diritto ai beni temporali per il perseguimento dei suoi fini. Si dicono beni ecclesiastici, cioè della Chiesa, perché in qualche modo, ma in un senso molto profondo e vero, sono beni della Chiesa. I fini hanno pertanto un’importanza fondamentale nella considerazione dei beni della Chiesa.

I beni ecclesiastici hanno, nei fini ecclesiali, una profonda unità al punto che da questa prospettiva si potrebbe parlare di un patrimonio unico dei beni ecclesiastici. Per tanti secoli i fini sono stati così importanti che non si è neppure posto il problema del soggetto di dominio dei beni ecclesiastici, in quanto tutto veniva determinato dai fini più che dal soggetto che li possedeva. La questione del soggetto di dominio si è posta soltanto più tardi e per motivi piuttosto contingenti, cioè per proteggere in modo più sicuro i beni ecclesiastici da eventuali usurpazioni.

Si è arrivati pertanto a quella molteplicità di soggetti di dominio di cui si parla anche nel Codice vigente, particolarmente al can. 1256. La molteplicità dei soggetti di dominio non toglie però l’unità dei fini per il fatto che si tratta sempre di soggetti che hanno la loro costituzione dalla Chiesa e che agiscono in suo nome e per suo mandato. Il dominio pertanto è “sotto la Suprema Autorità del Romano Pontefice” (can. 1256) che è “il Supremo amministratore economico di tutti i beni ecclesiastici” (can. 1273). Il diritto ai beni è “a norma del diritto”, cioè è nell’ambito del diritto canonico (can. 1255).

I fini fondano il diritto ai beni e ne precisano anche i limiti. La Chiesa ha infatti il diritto ai beni e in quanto tale ha “fini propri da conseguire” (can. 1254 §1). Ma i fini ecclesiali sono soprannaturali e vanno perseguiti secondo la natura e la missione della Chiesa. Ora, la missione della Chiesa non è di ordine politico, economico o sociale, perché il suo fine è religioso (GS 42). Anche se ha bisogno di beni, essa non ripone la sua speranza nei mezzi di questo mondo (GS 76) e si serve soltanto di quei mezzi che rispondono alle esigenze del vangelo e al bene di tutti secondo le circostanze di tempo e la varietà delle condizioni umane (GS 76). In particolare, ci ammonisce ancora la Gaudium et spes, “Gli Apostoli e i loro successori come pure i loro cooperatori, quando sono inviati per annunziare agli uomini il Cristo Salvatore, nell’esercizio del loro ministero si fondano sulla potenza di Dio, il quale molte volte manifesta nella debolezza dei testimoni la potenza del vangelo. Chiunque, pertanto, si dedica al servizio della Parola di Dio, deve percorrere le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono per di più dai mezzi della città terrena” (GS 76).

In questo contesto possiamo comprendere le parole di Paolo VI: “La necessità dei mezzi economici e materiali, con le conseguenze che essa comporta di cercarli, di richiederli, di amministrarli, non soverchi mai il concetto dei fini a cui essi devono servire e di cui deve sentire il freno del limite, la generosità dell’impiego, la spiritualità del significato”.

Va aggiunto che i fini della Chiesa, essendo spirituali, partecipano tale spiritualità anche ai beni ecclesiastici, benché in sé materiali e temporali. I beni della Chiesa, provenendo poi tante volte dalla volontà dei fedeli che vogliono in tal modo esprimere il loro rapporto con Dio, esprimono anche un fine religioso, conferendo un valore sacrale alla loro volontà che deve essere rispettata da chi li accetta. Così i cann. 1267 §3, 1300, 1284 §2 n. 3, ribadiscono il principio di rispettare la volontà dei fedeli destinando i beni agli scopi per i quali essi li hanno dati. E’ importante sapere chi è il soggetto di dominio dei beni (subiectum inhaesionis), ma non meno importante è sapere a chi tali beni sono destinati (subiectum utilitatis).

I beni ecclesiastici, proprio perché sono beni della Chiesa e al servizio dei suoi fini, sono sotto il suo governo e retti dalle sue leggi. Il can. 1254 §1 ricorda che il diritto ai beni come pure alla loro amministrazione non deriva alla Chiesa dal potere civile, ma dallo stesso Fondatore. Perciò il dominio e l’amministrazione di essi sono regolati dal diritto canonico (cann. 1255-1256), sotto la suprema autorità del Romano Pontefice (can. 1256). Il punto di riferimento per l’amministrazione dei beni è il diritto della Chiesa, sia quello universale del Libro V del Codice, sia quello proprio (cann. 687, 635 §2).

La Chiesa vive nel tempo e ha continue relazioni con le società politiche, tra esse c’è un’osmosi continua. Le società civili possono offrire molto alla Chiesa, specialmente dal punto di vista tecnico e culturale, come anche ricevere molto presentando loro il messaggio evangelico e i valori che esso comprende. Tale osmosi è stata particolarmente forte nel campo del diritto. La Chiesa si è sviluppata in una cultura dove vigeva e imperava il diritto romano. Tale diritto, se offrì validi supporti all’organizzazione e strutturazione della Chiesa, subì anche grandi influssi benefici da parte del messaggio evangelico. Questo influsso è stato particolarmente accentuato nel campo del diritto patrimoniale. L’affermazione “Ecclesia vivit iure romano” ha trovato una speciale applicazione nel campo del diritto privato patrimoniale. Il principio era recepito anche nel Codice del 1917. Ma nello stesso Codex 1917, particolarmente al can. 1529, trovavamo il principio del rinvio al diritto civile delle nazioni. Le ragioni sono molteplici, ma è sufficiente dire che la maggioranza degli stati moderni non riconosce il diritto canonico come fonte autonoma del diritto. Se la Chiesa lo volesse urgere a ogni costo, sarebbero frequenti le liti. Si sa poi che il diritto è molto diversificato secondo le diverse nazioni. Se la Chiesa pretendesse di regolare con un proprio ordinamento universale tutto il settore dei beni temporali, sarebbe difficile, se non impossibile, un minimo di uniformità. Infine, la regolamentazione completa dei beni temporali esigerebbe una mole tale di leggi che appesantirebbero enormemente la vita ecclesiale fino a renderla quasi impossibile. La Chiesa, pertanto, nella sua prudenza ha scelto una strada sapiente e, in linea del resto con la tradizione, ha emanato una normativa molto limitata che tocca i principi e le questioni essenziali sui beni ecclesiastici.

Il Libro V è il più breve del Codice. Per il resto ha canonizzato la legislazione civile. Mediante l’istituto della canonizzazione la Chiesa da una parte salva il principio della sua competenza esclusiva per ciò che riguarda la propria vita, e dall’altra si adatta alle situazioni locali. Le leggi recepite formalmente sono leggi ecclesiastiche, così che le leggi civili obbligano i credenti all’interno della Chiesa per disposizione della stessa autorità ecclesiastica. Si tratta di vere e proprie leggi ecclesiastiche. Materialmente, invece, cioè in quanto al contenuto, sono leggi delle nazioni nelle quali la Chiesa vive. Il can. 22 ci dà il principio generale sulla canonizzazione delle leggi civili: “Le leggi civili alle quali il diritto della Chiesa rimanda, vengono osservate nel diritto canonico con i medesimi effetti, in quanto non siano contrarie al diritto divino e se il diritto canonico non dispone altrimenti”.

Il principio generale trova ulteriori specificazioni in tutto il codice. In particolare ricordiamo il can. 197 a proposito della prescrizione: “la prescrizione, come modo di acquisire o di perdere un diritto soggettivo e anche di liberarsi da obblighi, è recepita nella Chiesa quale si trova nella legislazione civile della rispettiva nazione, salve le eccezioni stabilite nei canoni di questo codice”. Per la materia che ci interessa dobbiamo infine fare menzione soprattutto del can. 1290, per l’ampiezza delle applicazioni che esso comporta: “Le norme di diritto civile vigente nel territorio sui contratti sia in genere che in specie, e sui pagamenti, siano osservate per il diritto canonico in materia soggetta alla potestà di governo della Chiesa e con gli stessi effetti, a meno che non siano contrarie al diritto divino, oppure che non sia disposto diversamente dal diritto canonico, ferma restando la prescrizione del can. 1547”. Con tale canone gran parte della legislazione civile in campo patrimoniale entra nel diritto canonico.

Rientra in una misura di prudenza il can. 1284 §2 n. 2 che vuole che i titoli di proprietà dei beni ecclesiastici siano assicurati anche di fronte alla legge civile, e quella del can. 1284 §2 n. 3 che raccomanda di non arrecare danni alla Chiesa per l’inosservanza della legge civile. Il can. 1293 §2 a proposito delle alienazioni impone che “si osservino anche le altre cautele prescritte dall’autorità legittima per evitare danni alla Chiesa”. Il can. 1299 §2 raccomanda che “nelle disposizioni valevoli in caso di morte a favore della Chiesa si osservino, se possibile, le formalità del diritto civile”, ma precisa, se queste furono omesse, che gli eredi devono essere ammoniti circa il loro obbligo di adempiere la volontà del testatore”. Il can.1296 fa l’ipotesi di alienazioni invalide per la legge canonica, ma valide per la legge civile. La norma espressa dal can. 1286 riguardo alle leggi civili circa i lavori e la retribuzione è semplicemente un richiamo a un obbligo che già di per sé si impone in forza della stessa legge civile.

In questa prospettiva i beni ecclesiastici, proprio perché devono servire ai fini della Chiesa, conservano una destinazione che deve essere sempre ecclesiale. Da questo punto di vista i beni ecclesiastici hanno sempre un carattere comunionale ed entro certi limiti, a norma del diritto, devono essere anche comunicati, in ordini all’urgenza e alla priorità dei fini.




Rivisitando la «Indulgentiarum doctrina» di Paolo VI

paolo_vidi Gianni Cioli • Nella Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina del 1967 Paolo VI offre una definizione di “indulgenza”, del tutto in linea con la tradizione, che forse è opportuno considerare per ricordare uno degli aspetti imprescindibili, anche se meno facili da comprendere, del Giubileo: «L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi» (Norme n. 1).

Tenendo presente il documento del Papa e volendo andare all’essenziale, per cercare di capire come si possa proporre in maniera plausibile, oggi, la pratica delle indulgenze, potremmo dire che sono due i presupposti chiave da tenere presenti.

Il primo presupposto consiste nella distinzione fra colpa e pena. Tale distinzione può forse essere comprensibile se si prende coscienza del sacrificio e della sofferenza che il cammino di conversione autentico comporta per battezzato peccatore. Tale cammino non è semplicemente un avvenimento puntuale che si esaurisce nella coscienza che Dio ha perdonato la mia colpa quando ho ricevuto l’assoluzione sacramentale, ma è un processo faticoso che impegna la vita… e la vita può anche non bastare come insegna la dottrina sul purgatorio. Ogni atto che noi compiamo ha, per così dire, una forza centrifuga e una forza centripeta. La forza centrifuga è la storia delle conseguenze che il nostro agire comporta per vita degli altri. La forza centripeta è invece la ripercussione che tale agire produce nel nostro intimo, condizionando le nostre facoltà interiori. Sulla base di questi presupposti si comprende come il peccato, anche dopo il perdono sacramentale, necessiti di essere riparato sia, per quanto possibile, in ordine alle sue conseguenze “centrifughe”, sia in ordine alle sue conseguenze “centripete”. Il significato della pena temporale del peccato, distinta dalla colpa, può essere compreso e valorizzato a partire dalla considerazione di questo doppio versante delle conseguenze di tutto ciò che noi compiamo. Ma si possono fare anche ulteriori considerazioni. Il senso della vita cristiana è la carità: il sentirsi amati da Dio e lo scoprirsi capaci di riamarlo. Questo senso può tuttavia trovarsi, per così dire, velato dal peccato fino ad essere, purtroppo, anche perso di vista. Ma se si perde di vista il senso della vita, la vita stessa finisce con l’apparire assurda e insopportabile. L’impressione che la vita possa essere assurda può diventare, a sua volta, causa di peccato. Si può peccare fuggendo dalle proprie responsabilità, perché non si è sostenuti dall’amore; si può cercare nel peccato la compensazione al senso di vuoto con la ricerca del piacere, ad es. nel cibo, nel sesso, nel possesso, nella considerazione che si vorrebbe avere da parte degli altri e nel ripiegamento narcisistico su se stessi. Lo scopo della penitenza cristiana è quello di interrompere questo circolo vizioso del peccato e di rimuovere, a poco a poco, guidati e sostenuti dalla grazia, il velo che ci impedisce di vedere la bellezza dell’amore di Dio. Questa penitenza, come ha messo efficacemente in luce Paolo VI nella Paenitemini, consisterà innanzitutto nell’accettare la vita così com’è, con le sue responsabilità e con il suo inevitabile carico di croce, ma potrà consistere anche nella determinazione di precise rinunce terapeutiche in quegli ambiti di vita che il peccato tende, come si è visto, ad inquinare. La penitenza allora può essere compresa come la ricerca instancabile che il cristiano compie per ritrovare sempre più profondamente l’amore di Dio. La consapevolezza della necessità di questo cammino di conversione è il primo presupposto per comprendere il senso delle indulgenze.

Il secondo presupposto è dato invece dalla certezza che, in questo cammino di conversione, la persona non si trova sola: in Cristo s’instaura tra i fedeli uno scambio di doni spirituali in forza del quale la santità dell’uno giova agli altri. Il “tesoro della Chiesa” è l’espressione, coniata e usata dalla tradizione, per dire la ricchezza della santità di Cristo, delle preghiere e delle buone opere della Vergine e dei santi; ricchezza dalla quale il fedele attinge senso e valore con cui nobilitare il suo umile gesto, quale può essere un pellegrinaggio o una preghiera, facendo sì che tale gesto possa diventare, effettivamente, veicolo di carità: occasione per recuperare quell’amore di Dio, quel sentirsi amati da lui e quello scoprirsi capaci di riamarlo, che è il significato della vita cristiana.

Come emerge bene nella Indulgentiarum doctrina di Paolo VI, le indulgenze non vogliono assolutamente costituire una scorciatoia meccanica che banalizza il senso della conversione cristiana. Al contrario esse possono concretizzare la via di chi è consapevole della necessità di fare penitenza e si rende al tempo stesso conto che la sua penitenza non basta, per questo accetta volentieri il sostegno della Chiesa. Se ben comprese le indulgenze possono mettere a fuoco la condizione di chi desidera veramente amare Dio e tuttavia si accorge di non riuscire ad amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze e, per questo, si abbandona alla sua misericordia in un atteggiamento fiducioso e privo di pretese. L’atteggiamento di chi vuole dare comunque tutto al Signore, pur sapendo che non gli si può dare niente; si può soltanto ricevere da lui. Tale atteggiamento potrebbe trovare la propria icona nel gesto di colui che un giorno consegnò al Maestro cinque pani e due pesci: evidentemente troppo pochi per l’impotenza umana; logicamente troppi per l’onnipotenza di Dio. Prese sul serio le indulgenze sono un fatto paradossale, ma proprio per questo, nella logica della fede, sono un fatto “credibile”.

C’è una frase attribuita a s. Ignazio di Loyola che mette bene in evidenza la dimensione paradossale dell’esistenza cristiana: «Impegnati in tanto come se tutto dipendesse da Dio, ma abbi fiducia in Dio come se tutto dipendesse da te». Tale affermazione, che si riferisce alla venuta del Regno di Dio, può forse adattarsi bene anche per caratterizzare il cammino penitenziale del cristiano e della Chiesa e per illuminare il paradosso delle indulgenze all’interno di tale cammino (L’affermazione è riportata da C. Huber [Prefazione, in R. Ottone, Il tragico come domanda. Una chiave di volta della cultura occidentale, Milano 1998] e sembra essere più originale e più paradossale rispetto all’altra generalmente riferita ad Ignazio: «Impegnati come se tutto dipendesse da te, ma abbi fiducia in Dio come se tutto dipendesse da Lui»).




Il primato del matrimonio religioso

 

matrimonio-civiledi Andrea Drigani • I Codici della Chiesa Cattolica, sia quello latino (can. 1059 CIC) sia quello orientale (can. 780 §1 CCEO), affermano che il matrimonio dei cattolici, anche quando sia battezzata una sola parte, è retto non soltanto dal diritto divino, ma anche da quello canonico, salva la competenza dell’autorità civile circa gli effetti meramente civili del medesimo matrimonio. Per effetti civili s’intendono le norme sull’eredità, la dote, la pensione di reversibilità, il cognome. Lo Stato regolamenta tali effetti civili o con il cosiddetto «matrimonio civile» oppure, tramite accordi con le confessioni religiose e a certe determinate condizioni, può concedere il riconoscimento degli effetti civili ai matrimoni celebrati nelle confessioni stesse. Lo Stato comunque si riserva il diritto di revocare, su istanza delle parti, il riconoscimento degli effetti civili, dichiarandone, con un apposito atto, la cessazione. Il Codice Civile del Regno d’Italia, promulgato il 25 giugno 1865, introduceva l’obbligatorietà della forma civile del matrimonio, togliendo ogni valore ed effetto legale al matrimonio religioso. La Sacra Penitenzieria Apostolica con un’Istruzione del 15 gennaio 1866, nel ricordare che per i cattolici il matrimonio era uno dei sette sacramenti da celebrarsi secondo le prescrizioni del Concilio Tridentino, e pertanto l’inosservanza della forma canonica rendeva invalido il matrimonio, tuttavia si precisava che, dopo il matrimonio «coram Ecclesia», nell’intento di evitare sanzioni penali, per il bene dei figli e per allontanare il pericolo della poligamia si poteva eseguire la cerimonia civile. In Italia fino al 1929 vi erano, per i cattolici, due matrimoni ben distinti e inconfondibili: quello sacramentale da celebrarsi in chiesa e quello civile da contrarre in Municipio. Nel 1929, coll’articolo 34 del Concordato Lateranense, venivano stabilite le modalità per l’attribuzione degli effetti civili al sacramento del matrimonio, creando quella fattispecie giuridica che venne denominata «matrimonio concordatario», cioè un matrimonio valido sia per l’ordinamento della Chiesa che per l’ordinamento dello Stato. E’ da notare che a quell’epoca il matrimonio civile era identico, quasi da essere una copia, al matrimonio canonico, anche in riferimento all’indissolubilità del vincolo. Con la Legge 1 dicembre 1970 n.898, confermata dall’esito referendario del 1974, lo Stato Italiano introduceva il divorzio, disciplinando i casi di scioglimento del matrimonio civile e di cessazione degli effetti civili del matrimonio canonico; terminava in tal modo il riconoscimento giuridico «semel pro semper» da parte dello Stato nei confronti del sacramento del matrimonio. Il matrimonio concordatario, a questo punto, si collocava nei due ambiti (ecclesiale e statale) con una duplice e assai differente valenza. Non è esagerato ritenere che questo nuovo contesto abbia avuto una qualche influenza sul formarsi del fenomeno dei battezzati divorziati risposati civilmente. La Chiesa prese atto, e non poteva fare altrimenti, della riformata legislazione statale e all’articolo 8 dell’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana sottoscritto nel 1984, si confermavano le disposizioni per ottenere il conferimento degli effetti civili al sacramento del matrimonio, con l’ovvia constatazione che tale conferimento non è permanente, bensì revocabile ai termini di legge. Anche nelle Intese stipulate dallo Stato Italiano con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, sono indicate le modalità per acquisire il riconoscimento civile dei matrimoni confessionali. Nell’Intesa con l’Unione delle Comunità Ebraiche vi è però un’affermazione di notevole interesse laddove si dichiara: «Resta ferma la facoltà di celebrare e sciogliere matrimoni religiosi, senza alcun effetto o rilevanza civile, secondo la legge e la tradizione ebraiche». In tal maniera viene proclamato il valore primario del matrimonio religioso al di là di ogni riconoscimento civile, che comunque non è escluso. Oggi il matrimonio civile in Italia, e ancor di più in altri Stati, è divenuto un istituto flessibile e precario, perché non ha accolto i principi del matrimonio secondo l’ordine della Creazione; appare sempre più un contratto che può essere sciolto o per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge, ed è perciò molto diverso dal sacramento del matrimonio. Il ricorso agli effetti civili, come già osservava l’Istruzione della Penitenzieria del 1866, può essere utile ed opportuno, ma la dignità sacramentale del matrimonio cristiano deve avere un suo primato nella vita della Chiesa e nelle scelte dei battezzati, cercando di evitare compromessi ambigui ed equivoci che sono solo forieri di confusione e di disordine.