«Laudato sì»: Papa Francesco e la cura della casa comune

download (1)di Stefano Liccioli • Una prolungata riflessione, gioiosa e drammatica insieme. E’ con queste parole che lo stesso Papa Francesco definisce «Laudato sì», la sua nuova enciclica dedicata alla cura della casa comune e presentata in Vaticano lo scorso 18 giugno. Papa Francesco con questo testo si rivolge non solo ai cattolici, ma anche a tutti quanti al di fuori della Chiesa Cattolica, le altre Chiese e Comunità cristiane, come pure le altre religioni, sono uniti dalla stessa preoccupazione per le sorti di questo pianeta e degli esseri viventi che ci abitano.

La prima parte dello scritto il Santo Padre fa un quadro preciso e dettagliato della situazione del mondo: l’inquinamento ed i cambiamenti climatici, la questione dell’acqua, la perdita della biodiversità, il peggioramento della qualità della vita umana e degradazione sociale. Afferma il Pontefice:«Basta guardare la realtà con sincerità per vedere che c’è un grande deterioramento della nostra casa comune». La responsabilità di questo peggioramento deve essere attribuita alla società planetaria, accusata di avere un comportamento suicida. Il Papa precisa che lo sfruttamento selvaggio della natura e la relativa immagine dell’essere umano come dominatore e distruttore non possono essere fondati sull’invito del racconto genesiaco a “soggiogare la terra” (cfr Gen 1,28). La Bibbia non giustifica dunque un antropocentrismo dispotico che si disinteressa delle altre creature. La Scrittura chiama, bensì, l’uomo alla responsabilità di fronte alla Terra che è di Dio, una responsabilità che implica il rispetto delle leggi della natura e degli equilibri tra gli esseri di questo mondo. Trascurare una relazione corretta con il prossimo, verso il quale abbiamo il dovere della cura e della custodia, distrugge il nostro rapporto anche con noi stessi, con la terra e con Dio. Occorre ricordarsi che l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti, chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Purtroppo troppo spesso non è così e le risorse naturali sono sfruttate da pochi, condannando gli altri alla fame ed alla povertà.

Il Santo Padre individua nel paradigma tecnocratico la radice umana della crisi ecologica, un paradigma che porta le persone ad estrarre tutto quanto è possibile dalle cose, dimenticando la realtà stessa di ciò che hanno dinanzi, con l’idea infondata di una crescita illimitata e di una disponibilità infinita dei beni del pianeta.

Dal momento che tutto è intimamente relazionato, la risposta a questi problemi è un’ecologia integrale che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali. Infatti i motivi per cui un luogo viene inquinato richiedono uno studio del funzionamento della società, della sua economia, del suo comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà. Ecologia non vuol dire solo cura del patrimonio naturale del pianeta, ma anche delle ricchezze culturali dell’umanità nel loro significato più ampio, significa fare attenzione alle culture locali quando si analizzano questioni legate all’ambiente, mettendo in relazione il linguaggio tecnico-scientifico con quello popolare.

L’ecologia integrale è inseparabile poi dalla nozione di bene comune inteso, secondo la Gaudium et spes, come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente».

Il cambiamento delle sorti del pianeta passa da ognuno di noi, occorre, sostiene Papa Francesco, compiere una conversione ecologica:«Invito tutti i cristiani a esplicitare questa dimensione della propria conversione, permettendo che la forza e la luce della grazia ricevuta si estendano anche alla relazione con le altre creature e con il mondo che li circonda, e susciti quella sublime fratellanza con tutto il creato che san Francesco d’Assisi visse in maniera così luminosa».




Il fanatismo del dubbio. Rileggendo Maritain

maritain_jacquesdi Andrea Drigani L’idea che il relativismo etico sia una condizione della democrazia, in quanto solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali, considerate oggettive e vincolanti, porterebbero all’autoritarismo e all’intolleranza, è stata giustamente contestata dal recente magistero pontificio, basti ricordare San Giovanni Paolo II, nell’Enciclica «Evangelium vitae», ai numeri 68-72. La contestazione al relativismo etico quale fondamento del sistema democratico era già presente, più di cinquant’anni fa, nel pensiero del filosofo cattolico Jacques Maritain (1882-1973) che, nel 1957, alla Princeton University (USA) tenne una conferenza sul tema: «Truth and human Fellowship» («Verità e comunanza umana»), pubblicata in lingua francese, nel 1960, col titolo «Tolérance e vérité», che è stata poi tradotta in italiano ed inserita nel volume, curato da Piero Viotto, Jacques Maritain. Elogio della Democrazia, stampato nel 2011, dall’Editrice La Scuola. Maritain esordisce osservando che molti opinano che per liberare l’esistenza umana dalle passioni e far vivere gli uomini in pace, il miglior mezzo è sbarazzarsi di qualsiasi zelo per la verità; in tal modo dalle guerre di religione si è passati allo scetticismo, ma può accadere che lo scetticismo ritenga coloro che non sono scettici degli esseri barbari, infantili o subumani e può succedere che li tratti male, così come lo zelota tratta il non credente. Allora lo scetticismo – annota Maritain – appare altrettanto intollerante come il fanatismo, divenendo il fanatismo del dubbio. Passando alla vita della comunità politica, c’è chi pensa che la prima condizione da esigere per i cittadini in democrazia sia quella di non credere ad alcuna verità o non aderire ad alcuna asserzione incontrovertibilmente vera in se stessa. Per liberarsi dal fanatismo ci si taglia fuori dalla verità. Ma questo – scrive ancora Maritain – è il suicidio della democrazia. Una società democratica che si fondi su uno scetticismo universale si condanna da sé alla morte per inedia, entrando in un processo di autoannientamento, poiché nessuna società democratica può vivere senza una fede pratica comune in quelle verità che sono la libertà, la giustizia, la legge e gli altri valori fondamentali. Maritain aveva già precisato che una falsa filosofia della vita che faccia della libertà l’unica regola di tutto l’ordine morale e sociale, nonché di tutti i valori umani, confonde la «democrazia» col «democratismo». Per questo criticava fortemente la teoria della pretesa giustificazione relativistica della democrazia, sostenuta da Hans Kelsen (1881-1973) per il quale chiunque conosce o pretende di conoscere la verità assoluta o la giustizia assoluta non può essere un democratico, perché non può ammettere la possibilità di un punto di vista diverso dal proprio, che si dà come punto di vista vero. Per Kelsen soltanto quando siamo coscienti della nostra ignoranza riguardo a ciò che è il Bene, solo allora possiamo rimetterci al popolo per decidere. Dobbiamo concludere – si chiede Maritain – che per sfuggire all’oppressione o al dirigismo dobbiamo rinunciare alla verità e rifugiarci nell’ignoranza? E’ la verità, non l’ignoranza, che ci fa umili. In un solo senso vi è vera sapienza nel fare appello alla nostra ignoranza: cioè all’ignoranza di quelli che sanno, non all’ignoranza di quelli che sono nella notte. L’uomo che, come Pilato, dice: «Che cos’è la verità?», non è un uomo tollerante, ma un traditore del genere umano. Non c’è tolleranza reale e autentica se non quando un uomo è fermamente e assolutamente convinto di una verità, e quando, nel medesimo tempo, riconosce a quelli che negano questa verità il diritto di contraddirlo, non perché siano liberi nei confronti della verità, ma perché cercano la verità a modo loro, e perché rispetta in essi le risorse dell’intelligenza e della coscienza che li rendono capaci, anche loro, di attingere alla verità. E’ sbagliato – sostiene Maritain – prendere il fanatismo come conseguenza della religione. Il fanatismo, infatti, è una tendenza naturale radicata nel nostro egoismo e della nostra volontà di potenza. Il solo rimedio contro il fanatismo religioso è la luce del Vangelo e il progresso della coscienza religiosa nella fede e in quell’amore fraterno che è il frutto dell’unione dell’anima con Dio. Più la fede diventa forte e profonda – dice Maritain – più l’uomo s’inginocchia non davanti alla propria ignoranza della verità, ma davanti all’imperscrutabile mistero della verità divina e davanti alle vie segrete con le quali Dio va incontro a coloro che lo cercano.




Zoltán Alszeghy e il futuro della teologia

teologia3di Francesco Vermigli Cent’anni fa, il 12 giugno del 1915, nasceva a Budapest – al tramonto dell’Impero austro-ungarico – Zoltán Alszeghy, gesuita e teologo. Fu autore di numerosi trattati di dogmatica, scritti assieme al confratello milanese Maurizio Flick, con il quale venne a creare una simbiosi teologica forse senza paragoni nel mondo accademico ecclesiastico novecentesco: ancora oggi, un medio studioso di teologia non saprà pensare all’uno, senza richiamare alla memoria anche il nome dell’altro. La loro collaborazione condusse alla redazione di opere quali Il Creatore (1961), Il vangelo della grazia (1964), Lo sviluppo del dogma cattolico (1967), Fondamenti di un’antropologia teologica (1970), Il peccato originale (1972), Come si fa la teologia (1974), Il mistero della croce (1978). Alszeghy sopravvisse a Flick per oltre un decennio; eppure la sua produzione teologica più significativa può dirsi conclusa con il 1979, l’anno della morte di Flick.

Apparteneva ad una colta famiglia di tradizione magiara. Entrato nel noviziato dei gesuiti a Budapest, venne ben presto inviato a completare la propria formazione a Roma. Dopo il dottorato sull’amore di Dio in Bonaventura, accolta all’interno della prestigiosa collana «Analecta Gregoriana» (Grundformen der Liebe: die Theorie der Gottesliebe bei dem hl. Bonaventura, Romae 1946), Alszeghy nello stesso anno della pubblicazione della tesi iniziò la docenza alla Gregoriana, che concluderà nel 1989, dopo oltre quarant’anni. Quell’anno l’Europa centrale e orientale conosceva il tracollo dei regimi comunisti e il gesuita ungherese fu chiamato a partecipare alla ricostituzione della provincia nella terra di origine. Rientrato a Roma per la preparazione del viaggio apostolico di Giovanni Paolo II in Ungheria dell’autunno del 1991, non poté vedere i frutti della propria opera, morendo nel maggio di quello stesso anno.

Nella vita di Alszeghy si riflettono le vicende della Chiesa e della teologia del secolo scorso. All’interno de’ Il peccato originale, assieme a Flick non ha timore (nel capitoletto «Il nostro itinerario», pp. 220-226) a riconoscere di aver mutato prospettiva rispetto ai corsi dati prima del Concilio. In questo, l’opera di Alszeghy (e di Flick) può considerarsi come il segno di ciò che accadde alla teologia cattolica a cavallo dell’evento conciliare: un costante colloquio con la filosofia moderna la condusse a rivedere le coordinate entro cui porre il tema di Dio e dell’uomo in relazione a Dio. Non sorprende, allora, che coloro che manifestarono una sensibilità tutta speciale – segno di grande onestà di pensiero – nel senso della revisione dell’orizzonte all’interno del quale collocare i singoli problemi di dottrina, abbiano dedicato un libro a Lo sviluppo del dogma cattolico. Questo libro e quell’introduzione metodologica al mestiere di teologo che va sotto il titolo di Come si fa la teologia, paiono avere un’attualità ancora permanente. Ma là lo sguardo sui problemi della teologia non è solo rivolto al futuro, a dove potrà condurre lo sviluppo del dogma. In entrambe le opere – ancora prima di volgersi a «L’apertura alle nuove situazioni», come recita il titolo del quarto capitolo di Come si fa la teologia – si pone a tema la ricerca delle ragioni per le quali e delle modalità con le quali accade quel fatto che ognuno può sperimentare: la teologia si rivolge al passato. Perché e come la teologia si rivolge al passato? Non potrebbe farne a meno, volgendosi solo al presente dell’uomo? Il ricorso al passato – se si parla di sviluppo – non sarà una zavorra, che impedisce al pensiero teologico di muoversi con agilità tra i problemi dei nostri tempi? La teologia non rischierà di rimanere irrilevante? La risposta di Alszeghy e Flick è semplice e pienamente teologica, anzi profondamente trinitaria: per la teologia è ineludibile il ricorso al passato perché così fa anche la Chiesa, nell’assistenza dello Spirito Santo.

In effetti, a ben vedere non esiste solo l’irrilevanza dovuta alla sordità alle richieste dell’uomo di oggi: può esistere anche un’irrilevanza che potremmo definire contraria. È ciò che accade quando la teologia scambia come segni dei tempi tutto ciò che si presenta sulla scena del mondo, che con san Paolo dovremmo sapere come destinata a passare (1 Cor 7,31; secondo la vecchia traduzione italiana). Nel gran teatro del mondo (per dirla invece con Calderón de la Barca) la teologia può recitare un ruolo da comprimaria non solo se si rifiuta di ascoltare le richieste di questa nostra epoca, ma anche se si dimentica di passarle al vaglio esigente del Vangelo. In quel momento la voce della teologia si perderà tra i mille rumori che si accavallano indistinti nelle nostre piazze e tra i nostri crocicchi. In fondo è una questione che dovremmo già conoscere: qualcuno aveva parlato di un sale, che se non è salato non servirà a salare, ma dovrà essere gettato. Un destino inevitabile questo, si direbbe, anche per una teologia insipida.




Jürgen Moltmann “Etica della speranza”

downloaddi Gianni Cioli • L’enciclica di Francesco, Laudato si’, sulla cura della casa comune, può trovare, a conferma della sua profonda indole ecumenica, interessanti corrispondenze con un recente libro Jürgen Moltmann, uno dei più grandi teologi protestanti del secondo novecento, ancora attivo e produttivo. Mi riferisco a Etica della speranza, pubblicato in italiano nel 2011 a un anno di distanza dall’edizione originale, e ritengo particolarmente interessanti le critiche mosse, nel terzo capitolo, all’«antropocentrismo del mondo moderno» (p. 175 cf. Laudato si’ 115-136).

Il libro è articolato in cinque capitoli di differente carattere e ampiezza.

Il primo, di carattere fondamentale, offre un’approfondita riflessione teologica sul nesso esistente fra Escatologia ed etica.

Il secondo, intitolato Un’etica della vita, prospetta una prima concretizzazione dell’etica della speranza affrontando il delicato ambito della bioetica. Il capitolo si divide a sua volta in due ampi paragrafi: a) Una cultura della vita, che pone dialetticamente a confronto il messaggio neotestamentario circa la vita con la cultura della morte e del terrore, oggi globalmente diffusa; b) Etica medica, che tenta di comporre l’ideale dell’amore alla vita, che l’etica della speranza è chiamata a promuovere, con la tragicità di alcune situazioni concrete contrassegnate dal dilemma morale.

Il terzo capitolo, Etica della terra, certamente il più vicino alle tematiche dell’enciclica Laudato si’, parte dalla suggestiva considerazione che la «teoria di Gaia» proposta da James E. Lovelock, secondo la quale la terra deve essere concepita come una realtà “viva” e feconda in se stessa, non conduce necessariamente a una mistificazione o addirittura a una divinizzazione della terra, ma è affatto componibile con significative prospettive bibliche che, partendo dalla creazione (Gen 1), passando per l’alleanza post-diluviana (Gen 9,13) e per la teologia del sabato (Lv 25,1), giungono a contemplare il compimento escatologico della vita della terra (Ap 21; 2Pt 3,13). Moltamann delinea «un processo unitario dell’attività creatrice di Dio, processo che ha un inizio, compie un cammino e perviene a un traguardo, e processo nel quale anche noi ci troviamo coinvolti unitamente alla storia del cosmo e all’evoluzione della terra» (p. 154). Un’interpretazione inadeguata della destinazione biblica degli uomini al dominium terrae (Gen 1,28) ha favorito in seno alla modernità l’esasperarsi d’una visione antropocentrica e il conseguente sfruttamento del pianeta fino all’attuale crisi ecologica.

È necessario, secondo Moltmann, che la teologia corregga oggi questa visione inadeguata riflettendo più profondamente sull’immanenza dello Spirito trascendente di Dio nella creazione; sulla presenza di Dio in tutte le cose; sulla cristologia cosmica e, non da ultimo, impegnandosi ad elaborare un’antropologia non antropocentrica: «L’antropocentrismo del mondo moderno presuppone una cosmologia sbagliata e una teologia abbandonata. Esso pensa perciò che la tecnosfera umana debba sostituire la biosfera naturale e che l’uomo debba diventare il dio e padrone del proprio mondo. La conversione effettuata nell’antropologia vedrà di nuovo gli uomini e il loro mondo inseriti nei più grandi contesti cosmici delle condizioni di vita della terra e dell’evoluzione di tutti gli esseri viventi e porrà in risalto la dipendenza dell’esistenza umana dalla natura» (p. 175). L’etica della terra passa attraverso il riconoscimento dei diritti della natura e si concretizza in stili alternativi di vita radicalmente orientati alla sobrietà e alla solidarietà. Uno stile di vita improntato all’amore e al rispetto per la natura avrà sicuramente una ricaduta positiva sulla qualità della vita umana favorendo la felicità e la libertà personale.

Il quarto capitolo s’intitola evocativamente – e felicemente a fronte di tanti trattati di morale sulla guerra giusta – Etica della pace giusta.

Il punto di partenza della riflessione di Moltmann è che «la pace consiste politicamente nella presenza della giustizia, non solo nell’assenza della violenza» (p. 205). Il contributo che la teologia e poi la comunità cristiana può offrire per una comprensione sempre più adeguata della giustizia deve partire dalla considerazione della giustizia di Dio che si è rivelata pienamente in Cristo.

L’antica dottrina della guerra giusta, se applicata con rigore e alla luce delle esperienze storiche, mostra in realtà l’incompatibilità del concetto di guerra con quello di giustizia. E, sebbene in un mondo irredento non sia pensabile l’ipotesi di totale rinuncia all’uso della forza da parte degli stati per difendere il bene comune da minacce interne ed esterne, la pace fra i popoli non può essere perseguita se non con la promozione di quella cultura della convivenza che trova la sua più compiuta espressione nell’amore dei nemici prospettato dal vangelo (cf. Mt 5,44).

Il libro si conclude con un quinto capitolo intitolato, Gioia a motivo di Dio – contrappunti estetici. L’estetica, afferma Moltmann, è l’altra faccia dell’etica, e qualsiasi etica del bene proviene dall’estetica del bello e conduce ad essa. «Nell’etica cristiana deve infatti essere chiara una cosa: Non utilizziamo Dio per cambiare il mondo, ma cambiamo il mondo per gustare Dio» (p. 285).

In questo tempo in cui la Chiesa italiana si prepara a parlare di “nuovo umanesimo” l’invito di Moltmann e di Francesco a guardare all’umano superando le prospettive limitate dell’antropocentrismo moderno potrebbe risultare una pista di lavoro assai feconda.




La solennità dei SS. Pietro e Paolo, ci riporta alla memoria l’istituzionalizzazione della missione degli apostoli nell’azione fondazionale di Cristo

imagesdi Francesco Romano • La solennità che la Chiesa ha celebrato il 29 giugno ci presenta due figure unite da una stessa missione affidata dal Signore agli apostoli, ma attuata con differenti ministeri. Gesù dopo aver fondato la Chiesa scelse tra i suoi discepoli i dodici apostoli conferendo loro il sacerdozio ministeriale e la missione di pascere il popolo di Dio istituzionalizzata mediante la creazione di vari ministeri

Con la creazione del collegio apostolico la Chiesa ha ricevuto l’ordo cioè un’organizzazione fatta di uffici, organi e funzioni ministeriali, che comporta la relazione con i fedeli, cioè la plebs. La struttura costituzionale ordo-plebs si riconosce nel vincolo della communio hierarchica, cioè nella relazione tra il popolo cristiano sotto la guida dei sacri pastori.

Pertanto, la struttura ecclesiale è gerarchicamente organizzata in vari ministeri assumendo la missione che Cristo ha affidato agli apostoli e ai loro successori nel collegio episcopale. Di questo corpo indiviso e gerarchicamente organizzato il Papa è il principio visibile di unità della comunione gerarchica. I presbiteri e i diaconi vi sono inseriti come “cooperatori” dei vescovi.

La missione consegnata da Cristo agli apostoli deve durare fino alla fine dei tempi. Da qui si riconosce la sua volontà fondazionale che si compie attraverso l’istituzionalizzazione della missione con la creazione di vari ministeri come elemento permanente e oggettivo. Solo l’istituzionalizzazione del ministero permette che ci sia successione propriamente detta tra i titolari della missione, ma senza di essa ci sarebbe solo partecipazione o continuità. Rispetto alla missione di Cristo può esserci solo partecipazione e non successione perché la titolarità della sua missione è strettamente personale.

L’azione fondazionale del Signore ha visto tra i vari uffici l’istituzionalizzazione del ministero petrino, un ministero specifico e soggetto a successione nella titolarità, concesso a Pietro in modo strettamente personale, dove i suoi successori nell’ufficio primaziale vengono scelti tra i membri del collegio episcopale come avvenne in origine.

Il collegio apostolico è il gruppo istituzionalizzato dal Signore chiamato a svolge unitariamente la missione ed è il soggetto di attribuzione della stessa, in cui non esiste una titolarità personale, ma solo nel suo insieme ne è il soggetto di attribuzione, da svolgere unitariamente. Si pensi al completamento del collegio apostolico con la sostituzione di Giuda di cui quella di Mattia non fu per successione, bensì per sostituzione mettendo in evidenza la dimensione istituzionale transpersonale del collegio di cui ciascun membro singolarmente preso non è una figura istituzionalizzata.

Il collegio apostolico, in quanto costituito da apostoli, sorse come unità istituzionale già destinato ad estinguersi con la loro scomparsa. Non esistono dodici linee di successione. Al collegio apostolico, in forza della sua istituzionalizzazione, è potuto succedere il collegio episcopale come insieme di persone che vi entrano a far parte senza linea di successione personale rispetto a ciascun apostolo, perché ciascun vescovo singolarmente preso non è il soggetto di attribuzione della missione che resta di pertinenza del collegio. A un collegio ne succede un altro.

L’istituzionalizzazione delle funzioni permise agli apostoli di conferirle ad altri fedeli, senza costituirli apostoli, scelti come loro collaboratori, dando vita a un’organizzazione formata dagli stessi apostoli, vescovi, presbiteri e diaconi. Il decentramento delle funzioni non snaturò l’unità originaria perché tra il centro originario di attribuzione delle funzioni e i nuovi collaboratori si stabilirono rapporti gerarchici e di subalternità.

Cessando di esistere il collegio apostolico permane l’organizzazione decentrata delle funzioni, formata dai vescovi con i loro cooperatori presbiteri e diaconi, per portare avanti la missione istituzionalizzata affidata agli apostoli. In forza dell’istituzionalizzazione delle funzioni i vescovi ricevono la successione apostolica nel ministero di presidenza e di governo della comunità

Le funzioni pubbliche dell’organizzazione ecclesiastica risalgono al Signore e furono consegnate agli apostoli in forma istituzionalizzata con il mandato di svilupparla. Attraverso questa via essa ha potuto crescere con un processo di decentramento delle funzioni per via sacramentale in cui l’ordo clericorum costituisce un’unità organica, principio stesso di organizzazione e non solo un coetus di persone in cui i vescovi succedono agli apostoli come titolari delle funzioni di presidenza e di governo delle singole comunità, mentre i presbiteri e i diaconi restano in un rapporto di subordinata cooperazione. Quindi, la missione di Cristo permane e si proietta nella storia attraverso l’istituzionalizzazione delle funzioni come il ministero ecclesiastico, dei titolari come i corpi o gruppi stabili, e delle forme di attribuzione come l’ordine sacro e la missione canonica.

San Paolo con la sua conversione e la sua vita spesa fino all’atto supremo del martirio ci ricorda la sua partecipazione alla missione degli apostoli per successiva aggregazione al collegio apostolico, accogliendo il mandato missionario di Cristo nell’assumere le funzioni pubbliche dell’organizzazione ecclesiastica affidate agli apostoli con il compito di svilupparla.

San Pietro ci ricorda la sua presenza tra i dodici scelti dal Signore a formare il collegio apostolico, ma anche l’istituzionalizzazione dell’ufficio di caput visibile Ecclesiae, concesso singolarmente a lui, da trasmettersi ai suoi successori.




In margine al convegno di Volos tra cattolici e ortodossi (giugno 2015)

bapt_02di Stefano Tarocchi È un fatto ben noto che gli studiosi biblici ortodossi non sono accompagnati da strumenti magisteriali paragonabili alla Dei Verbum del Concilio Vaticano II dai documenti della stessa Pontificia Commissione Biblica, come la Sancta Mater Ecclesia, 1964 [sulla storicità dei Vangeli, preludio alla stessa Dei Verbum]; L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa,1993), fino all’esortazione post-sinodale Verbum Domini di Benedetto XVI (2010). Naturalmente senza dimenticare l’enciclica Divino Afflante Spiritu di Pio XII (1943), che segnò uno spartiacque decisivo per l’esegesi cattolica, che avrebbe puntato dritto al Vaticano II. Divino Afflante Spiritu fu pubblicata cinquant’anni dopo l’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII (1893). Aggiungo che Lo stesso Leone, non va dimenticato, costituì la “Pontificia Commissione Biblica” nel 1902, nove mesi avanti la morte, e nel 1909 Pio X fondò il Pontificio Istituto Biblico. Un autorevole studioso delle scienze bibliche ebbe a scrivere qualche anno fa che “per noi oggi è difficile renderci conto in un modo realistico della nube scura di atteggiamento reazionario che pendeva sopra l’interpretazione cattolica della Bibbia nella prima metà del ventesimo secolo” (J.A. Fitzmyer).

Anche se il mondo ortodosso non ha alle spalle questo consolidato movimento, è possibile registrare una certa enfasi sulla materia, soprattutto nel clero più alto in grado. Si tratta comunque di una condizione che è piuttosto vaga riguardo il suo contenuto.

Tuttavia, anche la Chiesa ortodossa – che tra l’altro non ha respinto in epoca moderna la critica biblica – fino dalle primissime fasi della sua storia ha sviluppato la sua teologia sulla Bibbia. Non è senza significato, inoltre, che nella sua lunga storia essa ha rifiutato di accettare qualsiasi dogma che non fosse basato sulla Bibbia, per non parlare del fatto che tutte le dottrine conciliari del primo millennio della Chiesa hanno avuto una chiara fondazione biblica.

L’interpretazione della Scrittura è compresa come una spirale continua di lettura e rilettura dove tre differenti realtà interagiscono: il testo stesso nel suo stabilirsi storico e sociale, la tradizione teologica della sua ricezione, e le sfide moderne che un testo deve affrontare e a cui deve rispondere. È un terreno molto promettente da esplorare.

Semmai le difficoltà si registrano nel rifiuto di usare una traduzione moderna del testo neotestamentario, usato invece nella sua lingua originaria, il greco della koinê, di difficile comprensione alla maggior parte dei greci contemporanei.

In questo percorso si è inserito il Secondo Meeting Internazionale (Thessalia Conference Center, Melissatika, Volos, Grecia) dall’11 al 13 giugno: «The Baptism in the New Testament from an Orthodox and Roman Catholic perspective», che ha visto come protagonista la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e l’Accademia Teologica di Volos, del patriarcato greco ortodosso di Demetriade (Tessaglia). Questa conferenza è stato sostenuto, rappresenta un contributo per l’enorme sforzo – qualcuno ha usato la parola “titanico” – della Chiesa cattolica e di quella Greco-Ortodossa verso la loro unione sacramentale.

Al proposito, secondo la tradizione l’Eucaristia e il Battesimo sono considerati come i due sacramenti che Gesù Cristo ha istituito per la Chiesa; perciò la “teologia eucaristica” e la “teologia battesimale” non sono né di valore diverso per quanto riguarda la ricerca dell’unità della Chiesa, né si escludono a vicenda, ma la prima è un elemento costitutivo e la condizione dell’altra.

Tuttavia, nonostante i progressi compiuti nel Concilio Vaticano II, finora il fondamento biblico della «nostra fede comune» – sono parole usate da uno dei relatori ortodossi – non è ancora considerato in molte riflessioni teologiche contemporanee dell’ortodossia come «prerequisito per interpretazioni più recenti» ed attualizzanti.

Al termine del Meeting gli studiosi cattolici e greco-ortodossi intervenuti si sono dati appuntamento a Firenze per il 2017, come già era avvenuto in occasione del Primo Convegno Internazionale di Studi Biblici («The present and future of Biblical Studies in the Orthodox and Roman Catholic Churches» – Aula Giovanni Benelli, 6-7 giugno 2013): «Testimonianze del Nuovo Testamento sul mistero della divina Eucaristia».





Sulla teologia dell’amicizia

coverdi Dario Chiapetti • Una delle esperienze più universali dell’uomo, sia a livello diacronico (lungo tutta la storia) che sincronico (che coinvolge giovani e adulti, ricchi e poveri, orientali e occidentali) è l’amicizia. Ogni cultura e religione fornisce una sua peculiare, ma sostanzialmente simile, visione: l’amicizia è una relazione di intimità tra persone, di condivisione di interessi, pur permanendo quel suo carattere di misteriosità, come si constata nella difficoltà di definirne i connotati in base ai quali si può appropriatamente parlare di essa. In tale situazione appare degno di nota e illuminante l’evento cristiano che svela la natura profonda, il fondamento, la dinamica e il telos di tale esperienza. Stefano Zamboni ha esposto alcune riflessioni a riguardo in Teologia dell’amicizia (EDB 2015), a partire dai cui snodi principali si cerca ora di offrire alcune suggestioni.

Scrive P. Florenskij in La colonna e il fondamento della verità: “Per vivere tra i fratelli bisogna avere un amico, anche lontano; per avere un amico bisogna vivere tra i fratelli, per lo meno essere tra loro in ispirito. Infatti per poter trattare tutti come se stessi, bisogna vedere e sentire se stessi almeno in uno, bisogna in quest’uno percepire la vittoria, anche se parziale, sull’aseità. L’amico è proprio quest’uno e l’amore agapico per lui è conseguenza dell’amore di filìa per lui. D’altra parte perché l’amore di filìa per l’amico non degeneri in una specie d’amore di se stessi […] è indispensabile che si manifestino e aprano all’esterno le energie che dà l’amicizia […] l’amore agapico per i fratelli”.

Riguardo all’amicizia vi è – nota Zamboni – un’evidente polarità: quella tra le immagini di fratello e di amico; ma, in che relazione esse stanno nel loro riferimento al concetto di amicizia, dato che, come si constata anche dal gergo comune, si è soliti combinarle, tanto da dire all’amico: “ti voglio bene come un fratello”? Ebbene, amico dice elezione, fratello dice legame naturale dato. La nozione che maggiormente dice libertà, quella di elezione, sembra, a ben guardare, avvertire la necessità, per inverarsi, di vivere di un legame inalienabile: l’amicizia è connotata dal per sempre e rivela che non è frutto di una scelta tra persone ma di una – afferma J. Caillot – reconnosaince (che è sia riconoscimento che riconoscenza); scrive infatti J.-L. Chrétien: “io non scelgo l’amico, mi scelgo in lui”.

Ciò permette di approfondire quel ‘sentire se stessi almeno in uno per poter amare tutti’ di Florenskij, ovvero quella tensione tra i termini dimensione particolare e universale, legati tra di loro secondo un nesso causale. L’amico è questo uno che fa spazio in sé per accogliere l’altro, dargli dimora e quindi identità.

La dinamica su descritta richiama nient’altro che quella intra-trinitaria e quella relativa alla missione ad-extra di Figlio e Spirito Santo: la kenosi, lo svuotamento che assume l’altro e dal di dentro lo informa della propria natura agapica. Si capisce così come l’amicizia sia immagine del dinamismo trinitario, fatto di unità e distinzione, distanza e intimità, raccoglimento e irraggiamento, e, soprattutto, luogo-di-partecipazione ad esso. In ciò si differenzia l’amor concupiscientiae dall’amor amicitiae: “perdere – scrive Florenskij – la propria anima […], il sacrificio della propria figura personale, della propria libertà, della propria vocazione” per dar la vita all’altro, per farlo essere.

Il contenuto di tale dinamismo di entrata-uscita, di venire-da e andare-verso è il mistero della Trinità. Gesù Cristo, scegliendo i discepoli, li costituisce come suoi amici; e tale costituzione si esplica nel venir messi a parte del segreto più inaccessibile: la vita del Padre. L’amicizia – osserva Zamboni – è communicatio, è comunicazione della parte più profonda e costitutiva di sé.

L’amicizia è perciò il luogo per la giusta comprensione del rapporto io-tu: vedendosi nell’altro, l’io scorge – afferma Florenskij – “la vittoria sull’aseità”. L’amico è il più perfetto alter ego, non nel senso di una proiezione narcisistica di sé nell’altro, in cui si ama sé; ma come colui nel quale la propria eccentrica identità massimamente risalta; colui che, nell’accoglienza amorosa in sé, getta luce sull’altro, presentandosi così come “norma e regola” (Gregorio Nazianzeno).

L’introduzione della norma, che l’uno è per l’altro, rimanda alla polarità che il Signore stesso stabilisce: dono e comandamento (cf. Gv 15,14). Tale risvolto di ordine morale non rappresenta un cambio di prospettiva ermeneutica su quanto detto fin ora ma la sua condizione di possibilità e verifica: come il Figlio è tutto per e nel Padre, i discepoli devono essere tutti per e in lui; solo nella pericòresi kenotica l’amicizia può sussistere.

Ma come intendere l’amore verso i nemici, coloro che certo non corrispondono all’attesa di bene che un’amicizia porta con sé? E se l’amicizia è elettiva, l’amore ai nemici non rischia di uccidere tale connotazione? Tante risposte sono state date dalla storia; certo è che l’amico è insostituibile, ma è nella verità dell’amore tra i due, nel tertium, il sommo bene che lo fonda, che si gioca l’apertura di esso affinché nessuno ne resti escluso.




Se l’Italia (primatista in Europa) scopre che la corruzione è mondiale

 

blatter5di Antonio Lovascio Cosa gli italiani pensano della corruzione lo hanno dimostrato alle ultime elezioni. Sull’onda lunga e disgustosa degli scandali, lo schieramento del “non voto” è ingrassato a dismisura. Oggi è il vero, unico partito di maggioranza. Anzi, come ha fatto notare qualche acuto editorialista, i numeri dell’astensionismo ormai surclassano la vecchia Dc dei tempi d’oro, pur senza ottenerne in cambio seggi, ministeri e posti di sottogoverno. Già alle Politiche del 2013 gli astenuti erano il primo partito, con 11 milioni di tessere fantasma. Alle Europee del 2014 l’affluenza si è fermata al 58%, in calo di 8 punti rispetto alle consultazioni precedenti. Dopo che è venuta alla luce “Mafia capitale”, alle Regionali del 2015 c’è stato un altro salto all’indietro: 54%, ma sono sotto la metà degli elettori in Toscana e nelle Marche. Infine i ballottaggi delle Comunali, con il sorpasso degli astenuti (53%) sui votanti.  Ne hanno tratto vantaggio solo i movimenti populisti come “Cinque Stelle” di Grillo e la Lega di Matteo Salvini, che ha infiammato le piazze e toccato le corde dei nostri connazionali psicologicamente più fragili, strumentalizzando senza scrupoli lo spauracchio dell’immigrazione.

Disertando le urne, c’è chi ha voluto mandare un chiaro segnale al governo Renzi, alla politica, al sistema dei partiti. Non ne possono più di leggere i nauseabondi “dettagli” del malaffare che – fin dai tempi di Alemanno sindaco – è germogliato attorno al Campidoglio e ora rischia di travolgere pure la giunta di Marino. Con cooperative coinvolte, dietro al dramma dei migranti, in loschi traffici orchestrati da personaggi a dir poco inquietanti come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati , quest’ultimo con un passato a tinte fosche nelle file dei Nar. Non ne possono più – gli italiani – di sapere che purtroppo il nostro Paese in Europa conserva saldamente il primato della corruzione, davanti a Romania, Grecia e Bulgaria; mentre a livello mondiale naviga a metà classifica con Francia, Cina e Turchia. Come invidiamo gli abitanti delle nazioni più virtuose, Danimarca, Nuova Zelanda e Finlandia!

Cosa ha fatto il governo per frenare la piaga della corruzione ed evitare che la “marea” sommerga le istituzione con gli effetti devastanti di una alluvione ? Ha varato un provvedimento che prevede pene più severe e termini più lunghi perché scatti la prescrizione. Decisione sacrosanta, anche se la sua efficacia è tutta da dimostrare. Auguriamoci che non avvenga quello che si è appena registrato sul “falso in bilancio “. Una sentenza della Cassazione, annullando la condanna per bancarotta a 6 anni e 9 mesi dell’ex sondaggista di Berlusconi, Luigi Crespi, avverte in controluce che la nuova legge non solo non sarà in grado di punire quasi più alcun serio caso di falso in bilancio, ma purtroppo per i suoi meccanismi falcerà – arriva già conferma da diversi i Distretti Giudiziari – importanti processi in corso. Con il paradosso, quindi, che la norma riformata – rivendicata dal governo Renzi come ripristino della portata penale del reato depotenziato nel 2002 da Berlusconi – ha invece l’effetto pratico contrario di cancellare anche quel poco che era rimasto.

Il premier non può certo consolarsi del fatto che della “questione morale” se ne è dovuto occupare anche l’ultimo G7 tenutosi in Baviera. Sul tavolo dei Grandi i dossier dell’inchiesta americana sulle presunte tangenti per milioni di dollari pagate dal Sudafrica per ottenere il mondiale di calcio 2010 – che misero fuori gioco il Marocco – e in generale tutta l’attività degli ultimi 24 anni della FIFA, tanto che il presidente-monarca Seep Blatter, accerchiato, è stato costretto ad annunciare le proprie dimissioni. Nel 2002, per arrotondare, la “cupola del calcio” assegnò i Mondiali addirittura a due Paesi, Giappone e Corea, così da prendere due tangenti al prezzo di una come le offerte del supermercato. Sempre secondo una delle ipotesi accusatorie, il governo tedesco avrebbe regalato addirittura un carico di armi all’Arabia Saudita in cambio del voto per l’assegnazione dei Mondiali del 2006 alla Germania. E proprio a Berlino il gran capo del Circo del calcio non volle consegnarci la Coppa del mondo che avevamo vinto perché noi italiani siamo tutti ladri. L’epicentro di questo “terremoto” è la CONCACAF, ma lo scandalo, nei suoi effetti giudiziari, sportivi ed economici, ha dimensioni globali, a partire dalle assegnazioni dei Campionati del Mondo di Russia 2018 e Qatar 2022, che rischiano di essere annullate. Intanto ha aperto una sorta di “guerra fredda del pallone” tra Obama e Putin, perché la Russia ritiene di aver subito un danno d’immagine dall’indagine FBI. Ed allo stesso tempo ha rilanciato le aspirazioni del premier britannico Cameron ad organizzare proprio la Coppa del Mondo del 2022.

Nel summit in Baviera Renzi è stato a guardare, preoccupato dalle vicende di “Mafia Capitale” e dai mille rivoli del Calcio-scommesse e delle partite comprate. La torta della FIFA è appetitosa, ma l’Italia ora non può avanzare pretese: ha appena lanciato la candidatura di Roma per ospitare le Olimpiadi del 2024. Punta ad avere i miliardi di finanziamenti in palio, che hanno già stuzzicato gli appetiti di numerosi politici ed imprenditori nostrani. Purtroppo la corruzione è ancora tanta e non si arresta mai, nonostante il lavoro paziente (e non da tutti apprezzato!) della magistratura, forse più efficiente o almeno più libera che altrove.

Rifletta dunque la politica, non solo sull’astensionismo alle urne, ma anche sulle parole pronunciate da Papa Francesco in un’omelia alla Domus Santa Marta: <Essere amministratori onesti del bene comune può renderci santi. Ma non è facile. E’ come giocare col fuoco: la corruzione è la ruggine che ci corrode>. E che toglie miliardi sonanti alla crescita, allo sviluppo dell’occupazione e per la riduzione della pressione fiscale.

 




Per chi non lo sa. Le burrasche di sant’Anna.

uwKCIDHldi Carlo Nardi • Il luglio, di solito assolato e assetato, fa auspicare una materna ricorrenza con “ricadute” provvidenziali: la memoria liturgica di sant’Anna, il ventisei del mese, con le sue burrasche refrigeranti. Dunque, acquate e sant’Anna.

Del nome e della vicenda, vita morte miracoli, di lei, mamma della Madonna e nonna di Gesù, tacciono gli scritti canonici del cristianesimo. In parole povere, non si trovano nel Nuovo Testamento. Eppure notizie di una devozione antica, probabilmente dal secondo secolo in poi, giungono da una letteratura cristiana motivata da una pia curiosità che, non paga della sobria essenzialità dei quattro vangeli riconosciuti dalla grande Chiesa, mira, forse per una inconscia paura del vuoto, a riempire imbarazzanti zone d’ombra.

Gli antefatti dell’infanzia di Gesù – quella tratteggiata nei Vangeli secondo Matteo e Luca (capp. 1-2) – fanno la loro comparsa nel cosiddetto Protovangelo di Giacomo o meglio Natività di Maria, risalente in parte al secondo secolo, e in numerosi scritti ancora più tardi, come lo pseudo Matteo, opere note ai primi scrittori cristiani, compreso il dottissimo Girolamo, peraltro sospettoso nei confronti in questa letteratura detta apocrifa, ossia un po’ di sottobanco.

Prima dell’annunciazione nel Protovangelo di Giacomo è rammentata Anna, un nome che non è senza un perché. Anna fu la madre di Samuele, gratificata del figlio insperato da parte di Dio al quale il piccolo è offerto. Anna è sterile e finalmente madre per un particolare intervento di Dio, come nel caso di Sara, madre di Isacco, come nella vicenda della madre di Sansone, di Elisabetta, madre del Battista, madri di personaggi chiamati a grandi cose in una totale dedizione a Dio. Anche l’Anna del Protovangelo è liberata da un’incresciosa sterilità, come la giovane Sara del Libro di Tobia è affrancata dall’incapacità di convolare a nozze vitali e feconde fino all’inatteso incontro con Tobia junior, poco più che ragazzo.

Come Sara, anche Anna era schernita per il suo ventre infruttuoso. Eppure diffonde il profumo di una supplica a Dio dai risvolti cosmici: rende partecipi della sua sventura uccelli dell’aria, animali terrestri ed esseri acquatici. Finalmente, la sua accorata preghiera è esaudita. Non senza un perché il suo nome parla di grazia e consolazione. Anna comunica un pudico affetto sponsale e una traboccante devozione. Secondo il pio racconto, Maria, la figlia desiderata e insperata, sarebbe stata offerta – il condizionale è d’obbligo – a Dio nel tempio, consacrata a un culto di lode. Maria, scegliendo a sua volta la verginità, accentua, rispetto alla madre bramosa di prole, il valore pressoché inaudito di una verginità in totale sintonia con l’assoluta iniziativa divina: la nascita del Figlio di Dio che si fa figlio dell’uomo senza concorso d’uomo. Pertanto se Maria, la figlia, anche nel Protovangelo, assume nell’integrità verginale la maternità fisica, Anna, come l’antica Sara, assurge a matriarca, essendo l’ultima a garantire la discendenza fisica da Abramo del Figlio di Dio al contempo figlio dell’uomo.

Da queste premesse è del tutto logico che nel prosieguo della sua leggenda sant’Anna succeda alla «bugiarda pronuba» (Manzoni) del paganesimo, Diana o Giunone, per garantire poi, lei nonna, la piena umanità del divino Infante. Si capisce che Anna, da mamma, sia messa in relazione con le acque, con le bramate burrasche per il semplice fatto che dove c’è acqua c’è vita, vita che viene dall’acqua, vita da far sbocciare e quindi, in qualche modo, da annaffiare. Ed ecco sant’Anna rappresentata a insegnare alla Bambina la legge di Dio, come una brava nonna fa ripassare ai nipotini la dottrina e le preghiere, e a sciorinare curiose filastrocche.

A questo proposito ne raccolsi una, riguardante proprio sant’Anna, da una cara parrocchiana – Santa Maria a Quinto a Sesto Fiorentino –, la Lola, una specie di preghiera che non posso fare a meno di riportare:

Anna, sant’Anna, foste balia e mamma.

Quarant’anni viveste e non aveste

né figli né figliole!

Un dì dal cielo un angiol fu calato

e disse ad Anna: Una figlia avrai:

la gran Madre di Dio partorirai.

A questo punto si formulano in silenzio voti e si dice:

Se questa grazia io la devo avere,

fatemela sognare, e vedere

chiesa parata,

prato fiorito

e tavola apparecchiata.

Se questa grazia non la devo avere,

fatemi sognare e vedere

acqua corrente,

fuoco ardente,

spada pungente

che non faccia male ad alcuna gente.

E si conclude con i classici tre ave, pater, gloria. Quel che succede Dio solo lo sa. Non è proprio una preghiera da approvazione ecclesiastica, ma tra quello che gira, non è delle peggio. E poi nessuno la prenderebbe troppo sul serio, e però non farebbe un gran male. Anzi, sant’Anna vi si mostra ancora mamma premurosa, e c’è da ben sperare per qualche acquata davvero provvidenziale: nella sua accorata preghiera, riportata dal Protovangelo, Anna s’indirizzava anche alle acque, vitali e feconde, insomma tutto il contrario della sua sterilità. C’era la memoria del brulicare già nel primo capitolo della Genesi. Nell’apocrifo, dopo il tripudio degli uccelli e la fecondità delle bestie terragnole, ci sono realtà per noi inanimate, che però non erano tali per gli antichi, come le acque vitali della terra madre.




Il ritmo trinitario della creaturalità

François,_Claude_(dit_Frère_Luc)_-_Saint_Bonaventuredi Alessandro Clemenzia • «Il mercato infatti non è solo un meccanismo efficiente di regolazione degli scambi ma è, soprattutto, un ethos che induce cambiamenti profondi delle relazioni umane e del carattere degli uomini che vivono in società». Con queste parole, il teologo moralista Leonardo Salutati, nel suo ultimo libro intitolato Cristiani e uso del denaro. Per una finanza dal volto umano (Città del Vaticano 2015, p. 203), offre non soltanto alcuni spunti di riflessione sull’argomento da lui trattato, ma per certi aspetti anche l’ermeneutica alla luce della quale possiamo cogliere il significato più profondo dell’ultima Lettera enciclica di Papa Francesco, Laudato si’. Se è vero che la logica del mercato è rivelatrice (oltre che portatrice) di un particolare dinamismo relazionale intersoggettivo, è altrettanto vero che l’urgenza ecologica, circa il modo con cui l’uomo interagisce con il creato, è manifestazione dell’attuale convivenza umana: il mondo cioè non è più riconosciuto – e qui Papa Francesco cita il patriarca Bartolomeo – come «sacramento di comunione» (n. 9). Il tema dell’ecologia integrale, dunque, è intimamente legato alla questione dell’uomo e, in particolare, al suo bisogno di andare oltre ad una sterile autoreferenzialità per aderire a una nuova forma di solidarietà.

Il punto di partenza della riflessione, tuttavia, non è l’affermazione di un’antropologia cristiana rispetto alle altre, ma è il contesto attuale in cui si vive: è questo il luogo dove si può scoprire il valore dell’altro, in relazione al quale l’io riscopre il suo statuto esistenziale.

Nell’Enciclica il Papa, per argomentare una nuova forma di solidarietà umana, che consiste in primis nel superamento dell’individualismo (cf. n. 208), recupera l’importanza delle relazioni trinitarie, espressione in Dio di quella comunanza primordiale e originale. Il legame tra solidarietà umana e socialità divina viene descritto attraverso un tertium, vale a dire la creazione, di cui l’unico principio sono le tre Persone divine che la in-formano delle loro stesse peculiarità. Tutta la realtà, infatti, vive di quel dinamismo trinitario, «è una trama di relazioni» (n. 240): proprio perché è creazione del Creatore, ogni cosa tende verso un’altra, «in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente» (n. 240). L’essere è di per sé relazionale.

I molteplici elementi che compongono la realtà sono collegati e convergenti tra loro; questo, se da un lato esprime il movimento intrinseco che caratterizza la realtà umana, dall’altro afferma che ogni elemento tende verso l’altro come modalità della propria sussistenza.

Per non imbattersi in uno scontato moralismo, la relazione che Papa Francesco ha sottolineato fra il Creatore e la creatura non è intesa come un rapporto di imitazione, come se la Trinità rappresentasse un modello antropologico, ma è descritta attraverso una dinamica di partecipazione ontologica dell’uno all’altro, per cui ciascuno vive, in se stesso, l’altro. È dal di dentro della creazione, infatti, che si può scorgere quello stesso dinamismo che caratterizza le tre Persone divine, in cui Ciascuna si riflette nell’Altra e riflette l’Altra nel Terzo, in un costante movimento di uscita da Sé verso l’Altro. Dinamismo, spiega il Papa, che «ci invita a maturare una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità» (n. 240).

Contemplando questo gioco divino nel creato, la creatura realizza la propria personale identità nel momento in cui assume questa stessa dinamica relazionale: «quando esce da se stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature» (n. 240). Solo attraverso questo movimento estatico la persona realizza se stessa, quando «assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione» (n. 240).

Tale discorso sulla natura relazionale dell’uomo sembra essere tuttavia in contraddizione con quanto si evince dall’odierna crisi nell’ambito delle relazioni umane, e che si manifesta nella questione ecologica. Come uscire da un tale contrasto? Il Dottore della Chiesa più citato in questa Enciclica è San Bonaventura da Bagnoregio, ed è proprio lui a offrire una possibile risposta. In una delle sue opere più famose, Itinerarium mentis in Deum, egli afferma che in Dio «nemo intrat recte nisi per Crucifixum». Al di là del significato di questa asserzione in ordine alla centralità di Cristo nel piano della salvezza, viene qui esplicitato qualcosa di ancora più profondo, vale a dire che anche il negativo, il disumano e, talvolta, l’anti-umano (quale è stata la realtà assunta da Cristo sulla croce) può divenire la via per entrare nella vita divina. In riferimento al nostro tema: non si tratta di “oltre-passare” la crisi, ma di viverla fino in fondo come luogo di entrata all’interno delle relazioni trinitarie. Perché l’uomo possa essere consapevole della propria natura relazionale non è necessario ripartire dal suo stadio originario, ma è fondamentale che egli abiti pienamente il presente, in modo da avere uno sguardo tale da scorgere nella realtà il vero senso della propria esistenza.




La crisi greca non è solo questione di soldi

grecia-600935_10151227910487382_131533618_ndi Leonardo Salutati • Nel momento in cui sto scrivendo siamo ancora nell’impasse, con la Grecia che si rifiuta di accettare le richieste formulate dai suoi creditori arrivando perfino, per bocca del suo premier Tsipras, ad accusare il Fondo monetario internazionale di avere nei suoi riguardi una “responsabilità criminale” e gli altri creditori di avanzare richieste che riporteranno la Grecia “nella recessione“.

Sulla sponda opposta c’è chi sostiene che la Grecia debba rispettare le scadenze dei pagamenti indipendentemente dalle ripercussioni a livello umanitario ed economico, senza considerare però che tutti i governi greci precedenti non sono riusciti a rispettarle. Altri fanno finta di preoccuparsi delle implicazioni a livello etico di un’eventuale riduzione del debito, anche se il debito del settore privato del paese è già stato cancellato su insistenza dell’Ue e anche se ci sono decine, se non centinaia, di precedenti per la ristrutturazione del debito di paesi sovrani insolventi. In realtà tali argomentazioni vogliono nascondere il vero nodo del problema, costituito dal fatto che assecondare le richieste greche, a prescindere da quanto ovvia sia la loro necessità, verosimilmente richiederebbe il voto parlamentare dei paesi di tutta la zona euro e molti governi dovrebbero fare fronte a una robusta opposizione da parte della popolazione. Per cui invece di confrontarsi con gli ostacoli politici, i leader europei si stanno nascondendo dietro un fumo di retorica insensata. A sua volta Cristine Lagarde, in procinto di lanciarsi nella campagna per la rielezione a presidente del Fmi, deve fare fronte alla fronda dei paesi emergenti in seno al Fmi, esasperati per il troppo tempo e le troppe risorse dedicate alla Grecia in confronto a quanto fatto quando, a trovarsi in difficoltà, furono paesi molto più poveri.

Bisogna rilevare però che i greci, respingendo le richieste dei creditori, non stanno bleffando, cercano piuttosto di restare in vita. A prescindere da ciò che si può pensare a proposito delle politiche economiche greche del passato, della economia greca non competitiva, della sua decisione di entrare nella zona euro, o degli errori che le banche europee hanno commesso quando hanno dato al governo greco credito eccessivo, la situazione nella quale si trova l’economia del Paese è estremamente drammatica. In Grecia la disoccupazione è ferma al 25 per cento. La disoccupazione giovanile è al 50 per cento. Dall’inizio della crisi nel 2009 il Pil si è contratto del 25 per cento. Il governo è insolvente. Una buona parte della popolazione soffre la fame. Per questo sono sempre più numerosi gli osservatori che notano una pericolosa analogia della situazione in cui versa la Grecia con quella della Germania nel 1933. Naturalmente non c’è da temere l’ascesa di un Hitler greco perché la democrazia greca si è rivelata straordinariamente matura, quanto piuttosto una situazione di estrema indigenza all’interno della UE e le deleterie ripercussioni di tale condizione sulla politica e sulla società del continente.

Quasi un secolo fa, al termine della Prima guerra mondiale, John Maynard Keynes lanciò un avvertimento che andrebbe oggi tenuto in maggiore considerazione rispetto a quanto avvenne all’epoca. Allora come adesso i paesi creditori chiedevano che i paesi fortemente indebitati onorassero i loro debiti. Keynes sapeva che si stava preparando una tragedia frutto del prevalere del cinismo sulla “solidarietà morale ed economica”. Nel suo libro, Le conseguenze economiche della pace, chiedeva: «I popoli afflitti d’Europa saranno davvero disposti per tutta la prossima generazione a organizzare le proprie vite così che una considerevole parte della loro produzione giornaliera sia messa a disposizione per far fronte ai pagamenti con l’estero? In sintesi, io credo che nessuno di questi tributi continuerà a essere pagato, nella migliore delle ipotesi almeno per qualche altro anno ancora».

Di fronte a tutto questo sembra che non ci sia la capacità di un’interpretazione articolata e non intransigente delle responsabilità, che rimandi non solo a fattori interni alla Grecia, ma anche alle contraddizioni dell’area monetaria europea, che determina variazioni implicite dei tassi di cambio reale al proprio interno, senza meccanismi di riequilibrio fiscale o di oneri espansivi per i paesi in surplus, ancorandosi pervicacemente a riforme del mercato del lavoro, a tagli fiscali e a deregolamentazioni interne per aumentare, magicamente, crescita e competitività nazionale (The Economist, 2011). Nell’attribuzione delle responsabilità poi, non viene data rilevanza all’incidenza dei fattori globali, ci si limita a sporadiche valutazioni negative degli effetti destabilizzanti della vendita allo scoperto di Credit Default Swap sui titoli del debito pubblico greco, e si evita di fare cenno al ruolo fondamentale giocato delle banche internazionali.

Come all’epoca le sanzioni e le riparazioni richieste dagli Alleati alla Germania avevano possibilità nulle di essere onorate, oggi le manovre di consolidamento richieste dalla Troika hanno le medesime chance di innescare crescita della produzione e dell’occupazione e di rappresentare il paradigma di risoluzione della crisi, tanto più se si considera che tali misure hanno una sinistra somiglianza con i Piani di aggiustamento strutturale imposti ai Paesi indebitati in via di sviluppo il cui esito, per stessa ammissione del Fmi e della Banca Mondiale è stato fallimentare (FMI e BM, 1990 e 2001).

Per questo non è solo questione di soldi, perché il caso greco richiede all’Europa di risvegliarsi dal torpore, di reagire alla stanchezza (Papa Francesco), di ritrovare le sue radici, per rinnovare i valori di solidarietà, rispetto della persona e uguaglianza che hanno ispirato i padri fondatori, recuperando una visione integrale dell’uomo considerato in tutte le sue dimensioni, compresa quella spirituale e trascendente (Benedetto XVI), capace per questo di trovare risposte adeguate e costruttive alle sfide con cui deve misurarsi.