Per una cura sempre più umana

corsia-ospedaledi Stefano Tarocchi • Il progetto che nasce in questi giorni all’interno della Scuola di Medicina dell’Università di Firenze, fortemente voluto dal prof. Gianfranco Gensini, già preside, vuole portare all’attenzione dei futuri operatori sanitari le esigenze che la condizione religiosa del paziente pone a quanti lo curano nelle varie situazioni e in questo nostro tempo, stante l’odierna situazione multi-culturale e multi-religiosa. L’approccio scelto lascia ad altre circostanze le complesse tematiche della bioetica, per concentrarsi su un approccio e una modalità di cura, sempre più concentrate sull’unicità della persona.

Tale progetto si caratterizza come un vero e proprio corso opzionale della Scuola di Medicina, articolato in diversi incontri a più voci. Oltre a chi scrive, che rappresenta la Facoltà di Teologia dell’Italia Centrale (ma tendenzialmente anche il vasto e polimorfo orizzonte cristiano), ci saranno rappresentanti dell’ebraismo, del mondo islamico e di quelli buddista e induista.

Per quanto riguarda gli aspetti principali da offrire ai partecipanti, li riassumo schematicamente in nove punti:

  1. Spiritualità e preghiera: Molti pazienti vivono la malattia non necessariamente in maniera coerente con il vissuto passato: la stessa esperienza di preghiera, che pure si dimostra importante sotto vari profili, può essere ricuperata o totalmente respinta. L’ambiente che lo cura, attraverso tutti gli operatori in campo, dovrà essere attento a porre in essere una attenzione particolare perché sia libero di esprimere l’atteggiamento che più gli è consono.
  2. I rapporti con la famiglia: L’operatore sanitario dovrà cercare un rapporto con la famiglia, durante tutta la permanenza del paziente nella struttura sanitaria, informando sulla diagnosi, sulle terapie e gli esiti previsti delle cure. Il tutto senza escludere il paziente, che andrà comunque coinvolto, nei modi che si rendano possibili ed auspicabili, anche al fine di ottenere la sua collaborazione in tutto il trattamento.
  3. Il dolore: L’atteggiamento fino a qualche tempo fa trasmetteva l’ineluttabilità del dolore si direbbe ampiamente superato. L’esperienza della fede, soprattutto nelle malattie più gravi, può influenzare la percezione del dolore fino ad alzarne la soglia. Il medico dovrà guidarlo, con gli strumenti terapeutici a sua disposizione ma anche con la sua umanità, a ristabilire un movimento di reale avanzata verso la guarigione auspicata e possibile.
  4. La fine della vita: La condizione inevitabile che conduce alla fine della vita dovrà tenere conto, oltre che della persona in causa di quanti le sono (più o meno) legati. Dalla ribellione alla lotta alla rassegnazione, se la persona è in grado di viverla personalmente da soggetto partecipe, oppure dalla famiglia. Qui sorgono inevitabilmente problemi di ordine etico, che toccano questioni sensibili e complesse, quali l’accanimento terapeutico e l’eutanasia. L’operatore sanitario dovrà essere particolarmente concentrato per essere vicino al soggetto che vive quest’esperienza, ma anche ai familiari, dal momento in cui la notizia dell’evento ineluttabile viene trasmessa a tutte le fasi successive.
  5. La morte e la gestione della salma: La morte nella struttura sanitaria tende a riprodurre quell’atteggiamento di estraneità all’ordine della vita, tipico delle culture che danno importanza solo a chi abita un corpo perfetto, sano, piacevole allo sguardo. Per questo è vissuta senza quella tradizione sapienziale che la ritiene, per lo meno in certi contesti e date alcune condizioni, un fenomeno perfettamente naturale, sebbene doloroso. Il corpo del defunto assume una connotazione di sacralità in numerose culture: l’abitudine a vegliare la salma ed esprimere la partecipazione al dolore dei familiari ne è testimonianza, a prescindere dalla sorte che la attende dopo. La stessa cremazione, pur essendo per sé estranea al tessuto cristiano, è accettata nella comunità ecclesiale. Resta problematica per altre ragioni la dispersione delle ceneri o la collocazione nella casa stessa dove il defunto ha abitato con i familiari.
  6. Le differenze di genere: Differenze di genere possono avere importanza nel tipo di malattia presa in cura e nei modi differenti di tolleranza del dolore. Questo vale anche pure in quell’elemento, forse non così evidente nella nostra cultura occidentale e tendenzialmente permeata dal cristianesimo, ma ugualmente importante, del diverso approccio che un medico e un operatore di sesso differente da quello del paziente dovrebbe porre nell’analisi diagnostica e nella terapia di malattie (o di stati funzionali) collegati alla sfera sessuale, come pure della gestione, per esempio, dell’igiene quotidiana.
  7. I trapianti di organo: L’operatore cercherà di informare i familiari della persona della possibilità dell’espianto per la donazione degli organi. Tale informazione assumerà una diversa modalità quando la persona stessa avesse dato il suo assenso. Non andrà mai trascurata l’informazione circa il fatto che in nessun caso viene modificato il trattamento terapeutico, per favorire un pur lodevole atteggiamento verso altri pazienti che attendano la donazione medesima.
  8. L’alimentazione: La fede cristiana non sembra avere un impatto particolare su questo aspetto particolare, salvo fatto nelle persone che hanno un’età avanzata, memori di un’educazione attenta ad esempio all’astinenza dalla carne in alcuni periodi dell’anno. Prevale l’atteggiamento che associa l’alimentazione al benessere della persona e della sua salute.
  9. Considerazioni finali: Un tema ulteriore che credo rilevante sia quello dello stato della persona anziana, malata cronica, magari di una malattia che la priva delle sue capacità mentali. Se la persona, a casa o dalla residenza sanitaria assistita, viene condotta per un’urgenza nella struttura sanitaria, dovrebbe essere accolta nella sua piena umanità, e la medicina, senza inumani accanimenti, dovrà fornirle quanto le è possibile.



Mattarella, l’arbitro silente che fischia (eccome!) sulla costituzione

mattarelladi Antonio Lovascio • L’arbitro deve essere autorevole in campo, oltre che saggio ed imparziale. Deve saper domare i giocatori, anche quelli più scorretti, agendo con sobrietà e soprattutto con grande capacità di ascolto. Utilizzando la quantità di risorse che il suo incarico dispone. E’ stato proprio con il suo stile pacato, di autentico signore siciliano,che Sergio Mattarella nel suo primo mese di permanenza al Quirinale ha conquistato buona parte degli italiani, riportando nei sondaggi un indice di fiducia che si avvicina al 62 per cento, scavalcando anche quello dell’”uomo nuovo”, il premier Matteo Renzi; assorbendo con un certo ironico distacco la valanga di dichiarazioni e di articoli gonfi di adulazione e di retorica. Opportunamente cerca invece di rispondere con gesti concreti (come l’apertura quotidiana al pubblico del Palazzo che è stato residenza non solo dei suoi predecessori, ma a lungo di Papi e Re; il viaggio privato a Palermo su un aero di linea o quello a Firenze in treno e poi in tranvia per partecipare all’inaugurazione della Scuola superiore di magistratura di Castelpulci ) alle riserve di quei pochi ma qualificati commentatori – tra questi l’editorialista principe del “Corriere” Ernesto Galli della Loggia – che hanno visto la sua elezione, pur avvenuta con larga maggioranza: 665 voti, caratterizzata da un segno “di separatezza, di forte lontananza dalla pubblica opinione, di scarsa notorietà”. Scorie tossiche degli ultimi venti anni di scontro politico? Scorie polemiche che fanno circolare – con malizia e arroganza nel caso di alcuni opinionisti – categorie stupide e vetuste come quella del “cattocomunismo” per disprezzare l’impegno di cattolici profondamente ispirati nella loro azione dalla Dottrina sociale della Chiesa. Certo non si può negare che Mattarella sia sempre stato nella sua militanza democristiana un uomo del dialogo, ma non del compromesso al ribasso, sempre protagonista di un’azione politica intesa come servizio alla costruzione del bene comune, quindi tesa ad unire e non a dividere.

Un “cattolico conciliare” – così lo ha definito lo storico Andrea Riccardi – che ha letto Dossetti ma anche Sturzo ed ha appreso la lezione di De Gasperi. Dunque un cattolico di sintesi, una dimensione tipica incarnata negli anni difficili della ricostruzione da Moro e Papa Montini, guida spirituale di molti politici del dopoguerra. Siamo dunque d’accordo con il fondatore della Comunità di S. Egidio quando afferma che <il nuovo presidente è un politico concreto, laico e cattolico, che sa dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare, un moroteo che vive e proietta nell’impegno politico la sua cultura giuridica e da credente. In lui si coglie anche una sapienza umana, maturata non solo nei lunghi anni al servizio dello Stato ma anche nell’esperienza di chi sa che si può pagare con la vita il servizio alla cosa pubblica, come è accaduto al fratello Piersanti ucciso dalla mafia”. Nel suo profilo, aggiungiamo noi, ci sono tutti i requisiti giustamente invocati da chi si interroga se saprà essere il presidente di tutti gli italiani, se saprà esercitare la necessaria azione di garanzia e di stimolo presso Governo e Parlamento; se soprattutto saprà aiutare a dare risposte alle vecchie e nuove povertà messe in luce dalla crisi economica, e intraprendere quel rinnovamento morale tante volte invocato anche da Napolitano nel suo supplemento di mandato. E non a caso alla sua prima uscita pubblica fiorentina il neopresidente si è fatto subito interprete di “quel bisogno di legalità avvertito nel Paese”, raccomandando ai magistrati di essere “né burocrati né protagonisti”: “devono invece saper coniugare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità della giurisdizione”.

Ripercorrendo i suoi primi passi, possiamo dire che Mattarella ha bruciato le tappe. Senza mai smentire la sua naturale predilezione per le poche parole, si è rivolto ai suoi “concittadini in difficoltà” nel modo in cui chi li rappresenta deve oggi fare: con semplicità, trovando reale novità d’accenti, animando il loro senso di appartenenza alla comunità nazionale, alimentando le loro speranze. La conferma arriva dalle “Lettere “ ai giornali che accompagnano l’inizio del settennato: moltissime sono piene di sollievo e di compiacimento per la scelta di un Capo dello Stato con una storia, un’indole e uno stile come quelli che Mattarella ha saputo subito comunicare, infrangendo la sua apparente timidezza spesso votata al silenzio. Quasi che ci fosse stato “restituito” qualcosa dopo la degenerazione progressiva della cosiddetta Seconda Repubblica. E questo qualcosa è anche una certa idea della politica e della sua capacità di rappresentare la gente semplice e di meritarne la fiducia. Anche i partiti che per tatticismi – dopo la rottura con il Premier – non hanno contribuito a portare Mattarella al Colle (Forza Italia, il Movimento Cinque Stelle, se non la Lega populista di Matteo Salvini) forse si stanno rendendo conto che la personalità del nuovo inquilino domina sulle supposte modalità di elezione, anche se ormai è fin troppo evidente che Berlusconi avrebbe voluto ascriversi il successo dell’operazione-Quirinale puntando su Giuliano Amato. Forse presto scenderanno dall’Aventino per ritornare a confrontarsi alle Camere sulle riforme istituzionali, finora votate dai Forzisti insieme al Pd in omaggio al (ripudiato) Patto del Nazareno. Il nuovo Capo dello Stato – dimostrando ai suoi interlocutori di tifare per il gioco senza per questo venir meno al proprio ruolo – si è assunto il compito di una non facile mediazione, perché è consapevole del fatto che un Parlamento sostanzialmente dimezzato, privo della presenza indispensabile dell’opposizione, non può che suscitare una sensazione di disagio. Di “mutilazione” e allarme. Soprattutto se le questioni di cui si discute sono vitali in un qualsiasi sistema democratico. Cambiare la Costituzione senza coinvolgere almeno una parte della minoranza, espone il sistema nel suo complesso ad un pessimo precedente: quello di poter cambiare in solitudine le regole fondamentali della convivenza civile. Un’arma formidabile e terribile, se messa nelle mani di una eventuale futura maggioranza con profili non rassicuranti, come purtroppo è già accaduto in Italia.

Da giurista raffinato che, dopo aver fatto più volte il Ministro, si è esercitato nel difficile ruolo di giudice della Consulta, Mattarella sa benissimo cosa sia la Carta sulla quale si è fondato il nostro Stato. Sa benissimo che la miglior garanzia è la sua applicazione. Ha ben presente la storica definizione di Piero Calamandrei, più volte richiamata in questi giorni: <La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è spesso una malattia dei giovani> .

Ed è soprattutto ai giovani che sono rivolte le preoccupazioni di Mattarella. Il “combustibile” che intende versare nella sua “bussola quirinalizia” lo ha indicato nel discorso di insediamento, delineando con pennellate efficaci quello che è per la gente il volto della Repubblica, che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo. <Mi auguro – ha scandito solennemente – che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani: il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi.  I volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti. Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto. Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa e quello di chi continua a investire nonostante la crisi.  Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri; di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto>.

Questo è il “Nuovo Umanesimo” di Sergio Mattarella. Il dodicesimo Capo dello Stato (da un “pulpito laico” in piena sintonia con le predicazioni di Papa Francesco, anche se il nuovo corso vaticano ridimensiona il ruolo politico che la Cei aveva acquisito dentro il bipolarismo negli ultimi venti anni) si è riferito esplicitamente a storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose. Insomma i suoi “cittadini”, ai quali guarda quotidianamente pur sapendo che non bisogna rinchiudersi negli egoismi, ma occorre essere attenti anche a quello che succede oltre i nostri confini, all’Europa che cincischia, alla globalizzazione che purtroppo vede proliferare terrorismo e guerre, alcune delle quali ci toccano e minacciano da vicino.




La distruzione creativa non è il meglio che si possa immaginare

cop (2)di Leonardo Salutati • Continuando il discorso iniziato il mese scorso, nell’esortazione apostolica di Papa Francesco Evangelii gaudium, troviamo varie affermazioni che trovano riscontro nell’analisi economica. Per esempio quando il Papa critica la teoria della ricaduta favorevole che, pur apportando qualche modesto vantaggio ai poveri, di fatto favorisce un’economia dell’esclusione (n. 53) e sviluppa una globalizzazione dell’indifferenza (n. 54), sottolinea quello che troppi osservatori e studiosi non vedono o fingono di non vedere, ovvero che povertà assoluta e diseguaglianza sono cose diverse. Per cui la lotta alla povertà assoluta non può essere il rimedio anche per la lotta alle diseguaglianze sociali. Il fatto denunciato dal Papa è che, mentre per condurre la prima lotta ci si potrebbe anche accontentare di un intervento sui meccanismi redistributivi della ricchezza – ad esempio tassazione, assistenzialismo, generosità, altruismo, ecc. – se si vuole agire sulla riduzione delle diseguaglianze occorre invece intervenire sui meccanismi stessi di produzione della ricchezza. Tale intervento però è decisamente osteggiato perché andrebbe ad interferire con quello che J.A. Schumpeter chiamò, in un suo testo, giustamente famoso, del 1942 (Capitalismo, Socialismo e Democrazia), il vero motore del capitalismo: la distruzione creativa.

Con tale concetto Schumpeter descrive il funzionamento dell’economia di mercato dove l’innovazione, i nuovi beni di consumo, i nuovi metodi di produzione o di trasporto, i nuovi mercati, le nuove forme di organizzazione industriale create dall’impresa capitalistica, sono il motore di un processo capace di elevare il livello di vita della massa di popolazione nei paesi sviluppati in modo inimmaginabile nel passato. Tuttavia come è apertamente dichiarato dall’espressione sintetica di Schumpeter, il processo non è solo creativo, ma comporta anche un considerevole grado di distruzione. L’evolversi di un’economia di mercato, infatti, causa inevitabilmente un’immensa varietà di cambiamenti in determinati ambiti di domanda e offerta, generando non solo crescita e profitti, ma anche perdite. Per chi viveva vendendo particolari beni o servizi per soddisfare una domanda che inizia a diminuire o sta scomparendo, per chi aveva sede in una località non più adatta alle nuove configurazioni geografiche della produzione, per chi si avvaleva di tecniche di produzione che non rappresentano più un metodo idoneo a massimizzare i ricavi netti, per chi dispone di competenze o di un’esperienza che non riescono più ad attirare acquirenti nel mercato del lavoro e per innumerevoli altri soggetti, lo sviluppo economico comporta ansietà, delusione, perdite e, in alcuni casi, il fallimento vero e proprio. Ovviamente per tutti costoro è una ben magra consolazione constatare che il profitto tende a crescere, quando viene distrutto il vecchio equilibrio di mercato per crearne uno nuovo grazie alla grande idea degli imprenditori innovativi. Il fatto, evidente ma adeguatamente taciuto, è che è semplicemente impossibile lo sviluppo economico senza perdenti. Un’economia di mercato è un sistema di profitti e di perdite. I profitti segnalano la desiderabilità (per i consumatori) di spostare risorse verso nuovi impieghi; le perdite segnalano la desiderabilità (per i consumatori) di rimuovere risorse dagli impieghi correnti. Da una parte gli individui sono attirati dalla prospettiva di una più elevata soddisfazione economica, dall’altra sono allontanati dalle prime avvisaglie di persistente affanno economico. In tal modo il sistema complessivo assume continuamente nuove forme, in modo da adattarsi più efficacemente alla distribuzione prevalente di domanda e offerta. Agli espulsi penseranno, eventualmente, i programmi assistenzialistici. Un tale sistema economico, che è poi l’attuale sistema liberista, è infatti capace di sospingere la crescita economica, ma non è altrettanto capace di gestirne le conseguenze negative, che acquisiscono poi dimensioni estremamente gravi se dal mondo dell’economia reale ci spostiamo a quello oggi pervadente della finanza.

La critica di Papa Francesco ha, dunque, una sua consistenza ed è confermata dai fatti recenti. Le grandi banche di Wall Street hanno spacciato titoli tossici ad ignari acquirenti fino al giorno precedente lo scoppio della bolla finanziaria del 2008. A questo si aggiunga che gli economisti di professione sono stati complici di questo processo, accantonando la deontologia professionale nel momento in cui a molti venivano offerti impieghi estremamente ben remunerati a Wall Street. Il risultato è stato che la disuguaglianza nella distribuzione del reddito negli Stati avanzati sta raggiungendo il più alto livello nell’arco di un secolo; l’illegalità e la corruzione nel mondo della finanza hanno quasi portato al crollo dell’economia mondiale e, in un’epoca di ricchezza globale senza precedenti, i poveri di tutto il mondo sono stati spesso lasciati soli a cercare di sopravvivere in mezzo a tremende avversità. Il forte richiamo del Papa alle esigenze etiche della vita economico-sociale è, senza dubbio, motivato.

 




Teologia e sensus fidei

jfMfmgVlO8cs_s4-mbdi Alessandro Clemenzia • È particolarmente indicativo il fatto che a distanza di cinquant’anni dal Concilio Ecumenico Vaticano II la Chiesa, proprio nel tentativo di prendere sempre più coscienza della sua natura e della sua missione, senta il bisogno di recuperare e riaffermare il significato e il fondamento del “sensus fidei”, come sua componente essenziale e irrinunciabile. Ed è proprio di questo che l’ultimo documento della Commissione Teologica Internazionale, intitolato «Il sensus fidei nella vita della Chiesa» (Città del Vaticano, 2014), vuole farsi voce ed espressione.

Per approfondire il rapporto tra teologia e sensus fidei, è opportuno introdurre una breve explicatio terminorum, che spieghi il significato dei due lemmi in questione, prima, singolarmente presi, poi, nella loro intima correlazione.

Per quanto riguarda il sensus fidei, collegandosi a quei testi magisteriali che hanno già approfondito il tema, il presente studio si prefigge lo scopo di «chiarire e approfondire alcuni aspetti di questa nozione vitale» (p. 10). Teologicamente inteso, il sensus fidei fa riferimento tanto alla personale attitudine del singolo battezzato (sensus fidei fidelis), quanto all’istinto spirituale della Chiesa nella sua globalità (sensus fidei fidelium), che permette «di giudicare in maniera spontanea se uno specifico insegnamento o una prassi particolare sono o meno conformi al Vangelo e alla fede apostolica» (p. 43). Questo istinto, pur essendo “naturale” nell’uomo, trova nell’azione dello Spirito Santo la sua condizione di possibilità: «In quanto Spirito d’amore, che infonde l’amore nel cuore umano, lo Spirito Santo apre ai credenti la possibilità di una conoscenza più profonda e più intima di Cristo Verità, sulla base di un’unione di carità» (p. 48).

Dopo aver inquadrato il fondamento di questo tema nella Scrittura e nella Tradizione, il documento chiarisce il significato di “teologia”, ponendola in relazione al “sensus fidei”: mentre la prima viene interpretata come scientia fidei, vale a dire come «una conoscenza riflessiva dei misteri della fede, che sviluppa concetti e utilizza procedure razionali per giungere alle conclusioni» (p. 46), il secondo viene presentato più che altro come «reazione naturale, immediata e spontanea, paragonabile a un istinto vitale o a una sorta di “fiuto”» (p. 46), sempre suscitato dallo Spirito Santo.

Nel terzo capitolo, la teologia, più che essere descritta come un discorso razionale, viene presentata all’interno di un orizzonte più teologico ed ecclesiale: essa è «a servizio dell’intelligenza della fede, in seno alla conspiratio di tutti i carismi e di tutte le funzioni della Chiesa» (p. 62).

Viene individuata una duplice modalità relazionale tra teologia e sensus fidei: da un lato, i teologi dipendono dal sensus fidei, dall’altro, sono chiamati a riflettere, e soprattutto a esprimere (cf. p. 63) il sensus fidelium autentico.

Senza proseguire su questo argomento, al quale la Commissione Teologica ha dedicato due sottoparagrafi, si può sinteticamente affermare che il sensus fidelium costituisce per i teologi «un fondamento e un locus» (p. 63).

A partire da queste considerazioni, è particolarmente interessante rilevare come la teologia si muova «in seno alla cospirazione». Quest’ultima espressione è già stata utilizzata dall’Enciclica Mystici Corporis (n. 60) di Pio XII, per spiegare quel principio d’unità che garantisce l’esistenza di un “corpo morale” (quale la Chiesa), vale a dire la comune cooperazione dei molti in uno. Oltre a tale visibile (ed estrinseca) cooperazione, tale termine fa riferimento anche al principio invisibile d’unità, a quella “congiunzione” grazie alla quale si realizza una cooperazione tra le membra: lo Spirito Santo, il co-spirato dal Padre e dal Figlio.

In questa accezione la teologia è un’intelligentia fidei che scaturisce dall’azione dello Spirito Santo, lo stesso artefice del sensus fidei (che Papa Francesco, nel suo primo Angelus, ha descritto come «sapienza che dà lo Spirito Santo»).

Al di là dell’interrelazione tra i due termini, lo Spirito Santo emerge qui come origine e connessione tra sensus fidei e intelligentia fidei: si potrebbe affermare che Egli è Colui che li unisce, distinguendoli.

A questo bisogna aggiungere un altro elemento. Il sensus fidei, per la teologia, oltre ad avere con essa una comune origine che invera la relazione tra loro, è anche un locus, che potrebbe essere qui denominato experientia fidei, quale spazio umano d’esistenza “in cui” (stato in luogo) lo Pneuma divino continua a dirsi e a darsi. L’intelligentia fidei, infatti, scaturisce dall’esperienza; senza di essa non esiste teologia, neanche se quest’ultima fosse erroneamente intesa come astratta e complessa concettualizzazione di Dio, dell’uomo e del cosmo. Questo profondo legame tra la teologia e l’esperienza è frutto non soltanto del fatto che ogni teologia ha dietro di sé un teologo che si muove all’interno di un particolare contesto sociale ed ecclesiale, ma anche della consapevolezza che l’esperienza è il luogo privilegiato in cui l’uomo è raggiunto dal “Co-spirato” divino.




Libertà e manipolazione. Una riflessione sulla società e sulla Chiesa di K. Rahner

ad90ea2ef21546264267e99e93df502e_mediumdi Dario Chiapetti • La riflessione del teologo tedesco K. Rahner sul rapporto tra libertà e manipolazione viene ora riproposta, a distanza di circa mezzo secolo, come una provocazione ricca di spunti di riflessione teologica, antropologica, ecclesiologica e sociologica nell’attuale situazione culturale in continua trasformazione.

Non è inutile osservare, come premessa, che “Libertà e manipolazione. Una riflessione sulla società e sulla Chiesa” (EDB, 2013) rappresenta un’articolazione di pensiero del teologo gesuita nell’immediato post-concilio, di cui egli è stato attore, periodo caratterizzato da un grande entusiasmo per la novità che l’evento ecclesiale del Vaticano II si era rivelato di essere ma anche da una coscienza disincantata circa la situazione ecclesiale in cui si trovava la Chiesa da secoli, e la cui sua riforma non poteva avvenire ex-abrupto, andando contro i dinamismi connaturali alla sua essenza di “organismo visibile […] sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino” (LG 8).

Le considerazioni dell’Autore si presentano come tentativo di mettere in luce la problematica insita nella dialettica tra i concetti di libertà e manipolazione, di trattarla innanzitutto secondo la sua originale rilevanza teologica e, secondariamente, nelle sue implicazioni ecclesiologiche.

Del concetto di libertà è messa in luce la sua duplice peculiare caratterizzazione, la sua misteriosità (“è oscuro che cosa sia”) e il suo non potersi attuare se non nelle possibilità concrete della Chiesa e della società. Vi è una libertà teologicamente intesa (“libertà per Dio”) e una libertà civile; tra la prima e la seconda esistono rapporti reciproci al punto che “l’idea che l’uomo […] sia sempre libero anche se egli è nato in cattività, è […] fondamentalmente falsa”.

Se la libertà creaturale, per inverarsi, necessita di un “margine di libertà spazio-temporale”, la libertà civile acquisisce una sua vera e propria rilevanza teologica, che andrebbe ricercata anche se “le cose andassero bene”: “la libertà non è soltanto un metodo per realizzare una cosa ma è semplicemente la cosa stessa” e “la realtà profana […] non è soltanto l’occasione […] ma la cosa stessa che entra nello stato definitivo del soggetto di libertà“. Ne consegue che “se la salvezza è lo stato definitivo di questa vita concreta, allora non può essere indifferente al soggetto di salvezza quali concrete possibilità di vita gli sono effettivamente date. Quelle che realmente gli vengono offerte costituiscono in ogni caso dei momenti del suo stato definitivo eterno; quelle che gli restano precluse lo sono per sempre […] non ci si può sottrarre all’enorme importanza di questo principio, pensando che il possesso di Dio con la visione beatifica supplisca a tutte queste lacune”.

La manipolazione, poi, viene presentata come conseguenza, anzi, parte stessa della libertà: ogni esercizio della libertà personale nell’ambito del finito va a configurare una situazione manipolata che influisce sul margine di libertà altrui. Ora, vi è una manipolazione incolpevole, e quindi inevitabile, e una peccaminosa, quando la prima viene istituzionalizzata; la colpevolezza, poi, viene individuata nella concupiscenza dell’uomo che lo rende incapace di integrare “il pluralismo del suo stato di libertà“.

Libertà e manipolazione sono termini che costituiscono una vera e propria unità, non statica ma dinamica: la storia è la concretizzazione di tale unità; è evoluzione (e non rivoluzione); è storia-di-libertà, qualcosa da realizzare sempre di nuovo.

Tale creatività della storia “chiama in causa la piena responsabilità dell’uomo”. Il cristiano, in particolare, nei riguardi della società, si ritrova nella figura dello scettico, portandosi verso un atteggiamento conservatore, come di fatto spesso si è verificato, o di testimonianza della speranza escatologica, che, se autentica, non paralizza impegno e decisione ma fa partecipare il soggetto alla storia di libertà, in quanto quest’ultima è “la via necessaria” per la realizzazione del definitivo.

Il rapporto dialettico tra libertà e manipolazione, dandosi anche a livello ecclesiale, va istituzionalizzato, e questo in modo che tenda a eliminare (anche se solo in modo asintotico) la manipolazione, resa così vero e proprio strumento della libertà.

La Chiesa deve essere luogo e istanza critica di libertà, e può esserlo se crea in sé modelli di realtà favorenti libertà. La dottrina che non riconosce spazi di libertà si auto-danneggia: occorre passare da una concezione paternalistica di autorità ad una funzionale, facendo partecipare i laici alla scelta dei pastori e creando “controistanze di controllo” accanto agli uffici ordinari.

Frecce puntate in alto quelle di Rahner ma che hanno il pregio di porre attenzione sulla centralità della libertà e di considerarla nella prospettiva dialogica (col suo opposto, la manipolazione), e di connetterla alla verità. Nella libertà il dialogo, nel dialogo la verità, nella verità la salvezza, nella salvezza l’uomo.




La Didachè. Un libriccino tutto fare

didachedi Carlo Nardi • E dopo che san Paolo ebbe concluso i due anni agli arresti domiciliari a Roma? Per l’appunto, gli Atti degli apostoli non vanno oltre (28,15.30-31). E dopo l’Apocalisse che è fisicamente alla fine delle nostre Bibbie? Si vorrebbe saperne di più. Ora, prima di ricorrere ai romanzoni tra otto e novecento come Fabiola e il Quo vadis, la storia, quella severa, fatta su documenti il più possibile vicini agli eventi, ha non poco da dire. E da dare. C’è tutta una documentazione di scritti in papiri e cartapecora che costituiscono la letteratura cristiana antica, detta anche patristica. Sono le opere appunto dei Padri della Chiesa, personaggi antichi – grosso modo dopo gli apostoli e fino all’ottavo secolo nell’oriente greco e al settimo nell’occidente latino –, di provata dottrina, santi – i santi Padri –, riconosciuti dalla Chiesa stessa, nel contempo loro madre e figlia.

Eppure dello scritto patristico più antico in lingua greca non si sa l’autore. Sembra uno di quei libriccini con le devozioni che si omaggiavano ai ragazzi il giorno della prima comunione, per lo più titolati Filotea o Massime eterne quasi a porre il destinatario sotto la protezione di san Francesco di Sales o di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, autori di omonimi trattati di vita spirituale, ben più sostanziosi. C’è il caso che un libretto tra i primini scritti cristiani sia una specie di messalino o di catechismo. Non per nulla si chiama Didachè che vuol dire “dottrina”, «insegnamento dei dodici apostoli alle genti», ossia ai pagani, secondo le disposizioni di Gesù prima dell’ascensione (Mt 28,19).

Il testo, breve, è molto antico. Le frasi di sapore evangelico non dipendono, pare, dalla lettura dei vangeli sinottici, ma dalla trasmissione ancora orale dei “detti” di Gesù, sicché nelle parti più arcaiche il libro riecheggia la predicazione degli apostoli, il ricordo delle parole del Signore.

Che vi si trova? Innanzi tutto, una catechesi sulle “due vie”, quella che porta alla vita, alla salvezza, quella che porta alla morte, alla rovina eterna (cc. 1-5), di sapore biblico (Dt 30,15-20; Sal 1, Ger 21,8), in particolare nel discorso della montagna (Mt 7,13-14). Poi, il culto col battesimo e l’eucaristia nei punti essenziali, ma rilevanti, e il paternostro, e il significato del venerdì e della domenica: c’è anche un accenno a una specie di confessione (cc. 7-10. cf. 14). Seguono tratti di vita cristiana, anche comunitaria, molto concreti (cc. 11-15). Chiunque arriva sia ospitato a modino. Se si trattiene, si dia da fare per trovarsi un lavoro. Non pensi di scroccar desinari (c. 12).

Con tutta onestà, ci si prepara al giorno del giudizio, quando il Signore tornerà con i suoi santi (c. 16). Comunque, facendo ciascuno quello che può. L’importante è una generosa tensione alla fedeltà, sembra dire l’ignoto autore o meglio redattore finale. Serio, ma anche comprensivo. Davvero evangelico (c. 6,2).




Alla scuola del Cantico dei Cantici per educare i giovani all’amore

1552d2adi Stefano Liccioli • Da alcuni mesi sto portando avanti l’esperienza di leggere e commentare insieme con degli ex-allievi, ora studenti universitari, alcuni passi del Cantico dei Cantici. A mio parere, infatti, una delle difficoltà maggiori per i giovani è quella di sapersi districare nel complicato campo delle emozioni e dei sentimenti, in una società come la nostra che esalta il messaggio, a volte rischioso, del “Va’ dove ti porta il cuore”. In questo senso ho ritenuto che proporre un percorso di riflessione sul Cantico dei Cantici potesse essere una occasione formativa importante per approfondire il tema dell’amore, visto come dimensione fondamentale della persona umana. Innanzi tutto è stato necessario fare chiarezza ed evitare qualsiasi interpretazione riduttiva: l’Amore, cioé l’apertura di se stesso all’altro, è la vocazione specifica di qualunque persona che, in quanto creata da Dio che è Amore, l’ha resa simile a sé, capace di intessere una relazione con Lui, ma anche con le altre persone. Questa, prima di essere una verità di fede, è una verità antropologica: l’amore, inteso come dono gratuito di sé al prossimo, ci realizza come uomini e donne. L’ha scritto Edith Stein:«Si diventa se stessi donando se stessi», l’ha ribadito anche Martin Buber:«Io divento io dicendo tu. Solo l’Uomo con l’Uomo è un’immagine piena» e, facendo un salto temporale all’indietro, arriviamo al filosofo latino e pagano Seneca che ha affermato:«Se vuoi vivere per te stesso devi vivere per un altro». Spiritualmente, psichicamente ed anche fisicamente siamo fatti per essere in rapporto con altro da noi. Condizione indispensabile perché si possa amare è la libertà, non si può essere costretti ad amare.

Fatta questa opportuna premessa, abbiamo cominciato a concentrarci sull’amore di coppia, seguendo i passi di quel Lui e di quella Lei raccontati nel Cantico dei Cantici, che rappresentano, a mio avviso, un itinerario esemplare di qualsiasi coppia che nasce e cresce. Abbiamo avuto così modo di riflettere su una delle prime tappe, quella dell’attrazione sessuale che rappresenta come una spinta a farci uscire da se stessi per andare verso il tu. E’ la forza dell’Eros che porta l’uomo verso la donna (o viceversa). C’è però un rischio che è quello di cercare nell’altro soprattutto il proprio piacere personale, perdendo di vista, in questo modo, il tu e rimanendo prigionieri del proprio io: la coppia implode se ognuno è schiavo del proprio io. L’Eros deve dunque essere educato perché non diventi egoismo, perché l’attrazione sessuale non sia considerata come un fine, ma solo un mezzo per andare incontro all’altro. In quest’ottica abbiamo riflettuto su come la castità possa difendere il sesso dall’egosimo, in quanto essa aiuta a vedere l’altro oltre i suoi beni sessuali. E’ questa la strada che conduce all’innamoramento, a desiderare non solo il corpo dell’altra persona, ma a rivolgersi ad essa nel suo insieme. E’ una dinamica così ben espressa in queste parole del Cantico:«Tu mi hai rapito il cuore sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo». La persona amata viene sentita come la pienezza di vita che si sta cercando. D’altra parte abbiamo messo anche in evidenza che l’innamoramento è ancora contraddistinto dal rischio di affidarsi troppo all’emozione ed ai sentimenti, che per loro natura sono mutevoli e dunque, sebbene utili, non bastano a fondare la vita di coppia in maniera stabile e duratura nel tempo.

Ci aspetta un’ultima tappa, il passaggio dal sentimento alla volontà su cui costruire un amore maturo in cui ci si sente responsabile del bene dell’altro. Come ha scritto Giovanni Paolo II:«La grande forza dell’amore vero consiste nel desiderare la felicità per l’altro».

Abbiamo discusso anche sui momenti di crisi che a volte segnano il cammino di una coppia ed abbiamo convenuto che non necessariamente sono segnali che l’amore sta finendo, ma devono essere occasioni per fare un salto di qualità, verso un amore più grande, verso un “per sempre”.

A tal proposito riporto quello che l’anno scorso disse Papa Francesco ai fidanzati il giorno di San Valentino:«Come l’amore di Dio è stabile e per sempre, così anche l’amore che fonda la famiglia vogliamo che sia stabile e per sempre. Per favore, non dobbiamo lasciarci vincere dalla “cultura del provvisorio”. Questa cultura che oggi ci invade tutti, questa cultura del provvisorio. Questo non va».




Un libro del cardinal Biffi: estremo invito al cristocentrismo

giacomo-biffidi Francesco Vermigli • Nella lingua italiana “estremo” ha un duplice significato: in senso cronologico o spaziale indica il termine ultimissimo di qualcosa (come nella formula in extremis o in estremo Oriente), in senso figurato equivale a grandissimo (come nella formula in estrema necessità o nel proverbio a mali estremi estremi rimedi). Non sapremmo a quale dei due significati ascrivere l’uso che della parola fa il cardinal Biffi, nel titolo («Estremo invito al cristocentrismo») della lunga introduzione ad un suo recente libro. Certo essa – soprattutto perché accostata ad un termine densissimo come “cristocentrismo” – fin da subito ci è parsa la parola-chiave per poter interpretare in maniera corretta questo piccolo gioiello di teologia sistematica che è: Il discorso breve. La fede in Cristo, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2014, pp. 256 (Anagogia, 4).

È questo estremo invito al riconoscimento della centralità del Cristo che dà il tono all’intero libro. Si direbbe essere il principio formale dell’opera, per usare un linguaggio scolastico; del resto il libro ha il carattere di una piccola summa della teologia cattolica, a metà tra una didascalica presentazione della dottrina e uno sguardo penetrante lanciato sui singoli punti del mistero cristiano. In questo, il Biffi si fa espressione sagace di quella “scuola milanese” che nel cristocentrismo ha rintracciato l’arco di volta della possibilità di parlare di Dio e dell’uomo nel mistero di Dio; senza indulgere – grazie al cielo – all’ermetismo di tanti odierni epigoni di quella scuola. Se ci chiedessimo cosa significhi la parola “cristocentrismo”, si direbbe che con essa si intende il portare alle (estreme) conseguenze teologiche la fede, secondo la quale non c’è alcun possibile accesso al Dio vivo e vero se non in Cristo, eterna immagine di Dio che ha preso carne. Non solo: significa anche vedere in Cristo il destino dell’uomo e la storia dell’intero cosmo fino alla consumazione dei secoli. Perché Cristo non solo introduce il credente alla segreta vita del Dio Uno e Trino, ma anche dispiega la predestinazione in Lui stesso di tutto ciò che non è Dio. Quello che nella teologia novecentesca è passato con il nome di Grundaxiom rahneriano («la Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa») non è altro che la tematizzazione – sotto forma di assioma – della fede tradizionale, secondo la quale ciò che viene rivelato ad extra di Dio non può che corrispondere alla taxis intradivina. Il cristocentrismo di cui si nutre il libro del Biffi, ha questa stessa certezza; alla cui base vi è poi una radicalissima esigenza soteriologica: se Cristo non mi rivela ciò che Dio è in sé, Cristo non mi salva.

Questo principio formale cristologico si riversa nella struttura del libro. Dopo l’ampia introduzione di cui si è già detto, e una breve esposizione della fede cattolica, il Biffi articola la propria opera in tre grandi sezioni; in cui la prima («Il Kerygma. Il contenuto essenziale dell’annuncio») fa riferimento alla professione apostolica che il Crocifisso è il Risorto, Messia vivo e Signore della storia e dell’universo. È il preludio, da cui rampollano le altre sezioni: «La catechesi. La rassegna delle verità da credere» e «La didachè. La comprensione del disegno di Dio». Ma è l’organizzazione del materiale che stupisce e avvince: centinaia di piccoli paragrafi su temi precisi, a cui si aggiungono – nella prima e nella seconda sezione – alcune decine di domande incastonate nel discorso – quasi sul modello del catechismo di Pio X – con la funzione di tenere ferme affermazioni dottrinali fondamentali. Nella seconda sezione gli articoli di fede vengono presentati secondo lo schema del simbolo, principalmente seguendo la traccia di quello detto “apostolico”. Nella terza parte si cerca di offrire uno sguardo complessivo al materiale in precedenza presentato in maniera didascalica e piana: la trama degli argomenti si infittisce, i rimandi tra i vari ambiti della teologia aumentano, ma non viene meno il modo limpido di trattare di Dio, e dell’uomo e del cosmo alla luce di Dio. Ogni capitolo, poi, si chiude con una piccola concessione alla liturgia ambrosiana: vengono trascritti inni e prefazi di un rito nel quale come prete e poi vescovo ausiliare è cresciuto, che ha amato e a cui è tornato, dopo la rinuncia per raggiunti limiti di età alla sede di Bologna. E a mostrare l’originalità del libro, in appendice la pubblicazione di una lettera datata al 2000 di mons. Enrico Galbiati, semplicemente perché – come dichiara – essa l’ha commosso.

Non sappiamo se questo invito accorato a riconoscere in Cristo il criterio di ogni discorso di fede abbia il carattere di un grido lanciato nel deserto di un panorama teologico che tende altrove. Forse, una nuova rivitalizzazione del cristocentrismo potrebbe venire dal prossimo Convegno nazionale della Chiesa in Italia, intitolato nientemeno: In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Forse da quel convegno fiorentino si attiveranno nuovi percorsi, a partire dalla consapevolezza che in Cristo tutto il discorso su Dio e sull’uomo si è concentrato, si è abbreviato. Forse…




“Diritto proprio” e identità giuridica e carismatica di un Istituto di vita consacrata nell’alveo del “diritto comune” della Chiesa universale.

Chiostro_San_Benedettodi Francesco Romano • Sintesi storica di un concetto giuridico. Nell’ambito dell’ordinamento giuridico della Chiesa il significato del binomio «diritto comune» – «diritto proprio» e la loro relazione fondata sulla ratio condivisa, possono essere meglio compresi partendo dalle fonti storico giuridiche.

“Diritto proprio” e “diritto comune” sono termini con cui nella storia del diritto medievale si identifica l’esperienza giuridica che andò sviluppandosi in Europa sin dal X secolo, con il suo apice tra il XII e il XIII secolo, sul fondamento universalistico di unità della società cristiana che, nel suo aspetto temporale, si incarnò nel Sacro Romano Impero.

Il diritto romano riscoperto da Irnerio nei frammenti del Codice di Giustiniano viene rielaborato dai maestri della scuola di Bologna, quale scienza autonoma rispetto alle artes liberales, realizzando una normativa giustinianea come ufficiale diritto vigente. Si viene così a concretizzare l’idea di una società cristiana legata non solo da una fede, ma anche da una legge “comune”. Anche i testi canonistici recepiranno queste norme riscoperte del diritto romano come lex saeculi della Chiesa.

Nel pensiero dei giuristi medievali il ritrovato diritto romano è universale perché è il diritto di tutto l’Impero, ed è anche “comune” perché con funzione sussidiaria sono giustapposti, senza configgere, i vari iura propria, cioè i vari “diritti propri” di ciascuna comunità politica all’interno dell’Impero rappresentati da statuti, consuetudini ecc.

Un’altra descrizione del “diritto comune” la ritroviamo in un frammento delle Istituzioni di Gaio nel Digesto per designare il diritto delle genti fondato sulla naturalis ratio, quale patrimonio condiviso dall’intera comunità umana e distinto dagli iura propria delle singole civitates: “omnes populi qui legibus et moribus reguntur partim suo proprio partim communi omnium hominum iure utuntur” (D. I, I, 9).

In sostanza, il diritto dell’Impero è “comune” perché a esso si collega una molteplicità di diritti particolari sorretti da una “comune” ratio. Il “diritto comune” è tale perché postula una pluralità di sistemi normativi – vedi ad es. i vari diritti statutari, consuetudinari ecc. – riconoscendo la funzione sussidiaria o suppletiva per i suoi principi generali e categorie astratte capaci di comprendere giuridicamente un numero indefinito di fatti dell’esperienza. La legittimazione del “diritto proprio” nell’alveo del “diritto comune” dell’Impero romano-germanico medievale, concepito come respublica christiana, permetterà a ciascuna comunità politica di reggersi – sempre secondo una ratio “comune” fondata sull’universalità dell’unum ius – con leggi proprie in ossequio alla propria storia, consuetudini e specifiche finalità da realizzare.

Analogia con il diritto canonico. Il Codice di Diritto Canonico, che costituisce una parte del più ampio ordinamento giuridico vigente nella Chiesa universale, appartiene al “diritto comune”, detto anche “universale”, della Chiesa, quale principio informatore e ratio dei vari “diritti propri” che regolano le molteplici strutture, circoscrizioni e categorie di persone al suo interno. Il II Libro del CIC contiene norme “comuni” in vigore in tutta la Chiesa per le specifiche forme di vita consacrata (cann. 573-730).

Specularmente al “diritto comune” sta il “diritto proprio” di una determinata forma di vita consacrata, meglio conosciuto come costituzioni. In questi casi il “diritto proprio” è così chiamato perché è il singolo Istituto di vita consacrata che se lo dà con l’approvazione della competente Autorità della Chiesa (can. 587 §2). Il “diritto comune”, in quanto generale, riconosce a ogni Istituto di vita consacrata spazi di “giusta autonomia” normativa (can. 586 §1) con funzione sussidiaria e di ratio nella elaborazione del “diritto proprio”. Per questo motivo la relazione tra “diritto comune” e “giusta autonomia” normativa non significa contrapposizione antinomica o configgente.

Il “patrimonio”, di cui al can. 578, è custodito nel “diritto proprio” e riguarda l’intendimento (mens) e i mezzi di attuazione (proposita) del fondatore, ma soltanto tra quelli che la competente Autorità della Chiesa intende sancire, le sane tradizioni quali elementi in grado di innovare conservando la fedeltà al “patrimonio”, la natura, il fine e l’indole dell’Istituto. Pertanto, il “diritto proprio” di ogni Istituto, che il Legislatore riconosce (can. 586 §1: agnoscitur) quale diritto nativo, è dato dalle costituzioni che ne custodiscono il “patrimonio” e includono le norme sul governo, la disciplina dei membri, la loro formazione e incorporazione, l’oggetto proprio dei sacri vincoli (can. 587 §1). Al “diritto proprio” appartiene anche la normativa accessoria cioè le norme applicative, i direttòri, i regolamenti ecc. (can. 587 §4). Ne deriva che il “diritto proprio” include le costituzioni, ma non si esaurisce con esse. Infatti, l’osservanza di una norma può essere richiesta con due espressioni che non sono univoche: “a norma delle costituzioni” oppure “a norma del diritto proprio”. Il primo caso si limita a richiedere l’osservanza delle costituzioni. Il secondo caso richiede l’osservanza per casi specifici di norme che possono trovarsi sia nelle costituzioni che nelle norme applicative ecc. (cf Communicationes 1(1983)70, can. 553).

In conclusione, dalla lettura congiunta del can. 586 e del can. 578, il “diritto proprio”, rappresentato principalmente dalle costituzioni, è fonte di quella “giusta autonomia [ad intra e ad extra] di vita e specialmente di governo mediante la quale l’Istituto di vita consacrata può valersi nella Chiesa di una propria disciplina e conservare integro il proprio patrimonio di cui al can. 578″ (can. 586). In effetti, il can. 578 parla di “intendimento e progetto dei fondatori” che trovano riconoscimento non in modo assoluto, ma solo nella misura in cui vengono “sanciti dalla competente Autorità della Chiesa” la quale si pronuncia nel merito attraverso l’approvazione di testi costituzionali (can. 587 §§1-2).

Pertanto, ciascun “diritto proprio” individua e contraddistingue la realtà in cui si struttura l’Istituto di vita consacrata nell’ambito della categoria più generale del “diritto comune” della Chiesa universale.




A proposito dell’accusa di se stessi. Rileggendo Doroteo di Gaza con Bergoglio.

coveracusaciondi Gianni Cioli • Dopo l’elezione a papa di Jorge Mario Bergoglio è stato tradotto in italiano e pubblicato con il titolo “Umiltà la strada verso Dio” (Bologna 2013) un suo piccolo libro, intitolato nell’edizione argentina “Sobre la acusación de sí mismo”. Il libro riprende un saggio di spiritualità scritto nel 1984 per gli studenti gesuiti e riproposto poi nel 2005 da Bergoglio, allora vescovo di Buenos Aires, ai preti della sua diocesi. L’edizione italiana comprende l’introduzione scritta nel 2005, il saggio del 1984 dal titolo “La strada dell’umiltà”, una raccolta di scritti di Doroteo di Gaza, monaco del VI secolo alla cui dottrina Begoglio si è ispirato nella stesura del saggio e, infine, un intervento di Enzo Bianchi che illustra il pensiero di Doroteo.

Nell’introduzione del 2005 il vescovo di Buenos Aires invitava i suoi preti a impegnarsi nel proposito di non parlare male gli uni degli altri, puntualizzando che «contro questo spirito (parlare male degli altri) la tradizione cristiana, fin dai primi Padri del deserto, propone la pratica dell’accusa di se stessi». Nel saggio principale, attingendo ispirazione da Doroteo ma anche da sant’Ignazio di Loyola, Bergoglio illustra il valore di tale pratica per educarsi a partecipare con frutto alla vita comunitaria in genere e a quella ecclesiale in specie: «Uno degli atteggiamenti validi che devono prendere corpo nel cuore dei giovani religiosi è quello di accusare se stessi, poiché è nella carenza di questa pratica che si radica lo spirito di parte e le divisioni […]. Accusare se stessi […] è la base in cui getta le radici l’opzione fondamentale per l’anti-individualismo». In effetti, come illustra Enzo Bianchi nel suo intervento, per Doroteo «più che nell’ascesi esteriore la grande lotta del cristiano consiste nell’acesi dell’io, nella disciplina dell’ego, ossia nella rinuncia alla “volontà propria” per cercare il bene comune e acconsentire alla volontà di Dio».

Certo, la pratica dell’autoaccusa presta il fianco a riserve e obiezioni. Si tratta di un’indicazioni sicuramente suggestiva ma che, soprattutto alle persone in fase di maturazione, deve essere proposta con cautela e discernimento. E la lettura di alcuni passaggi degli scritti di Doroteo lascia talora spazio a qualche perplessità. Una generalizzazione della disposizione ad accusare soltanto ed esclusivamente se stessi può infatti condurre a valutazioni non obiettive e quindi a risoluzioni improvvide. Inoltre, una proposta acritica della pratica a persone non sufficientemente mature sotto il profilo psicologico, o comunque inclini a sensi di colpa, potrebbe non rivelarsi proficua per la costituzione di un percorso spirituale autentico dove non si confonda Dio con il SuperIo.

Queste obiezioni trovano tuttavia una risposta nella lettura attenta del saggio di Bergoglio per il quale la disposizione ad autoaccusarsi deve comunque essere compresa in funzione della verità: «Autoaccusarsi suppone […] un coraggio non comune per aprire la porta a realtà sconosciute e per lasciare che gli altri vedano oltre la mia apparenza. Significa rinunciare a tutti i maquillage di noi stessi perché si manifesti la verità».

Mi pare che l’attenzione onesta alla verità implichi allora che, oltre al riconoscimento delle proprie colpe, si possano e si debbano riconoscere anche quelle altrui. L’esperienza, insieme al buon senso, insegna che quando nella vita comunitaria o nel rapporto interpersonale emergono dei problemi, difficilmente la colpa sta tutta da una parte. La pratica di accusare se stessi in questa prospettiva vuol dire semplicemente disposizione a non sottrarsi alle proprie responsabilità col puntare in modo puerile il dito sugli altri.

Questa disposizione obiettiva anziché favorire i sensi di colpa e i dispotismi del SuperIo può condurci all’esperienza consolante della giustificazione che soltanto il Signore può donare. La dottrina dell’accusa di se stessi infatti, afferma Bergoglio, mira a situarci «in una dimensione oggettiva davanti a Dio e agli uomini», lasciando «spazio all’azione di Dio». È «il Signore stesso che, nel nostro abbassamento ci giustifica. I farisei si autogiustificavano […]. Il giusto cerca unicamente la giustificazione di Dio, e per questo motivo si abbassa e si accusa. […] Chi si autoaccusa lascia spazio alla misericordia di Dio; è come il pubblicano che non osa alzare gli occhi (cf. Lc 18,13). Colui che sa accusare se stesso è una persona che saprà sempre avvicinarsi bene agli altri».

Di fronte a un problema comunitario o un conflitto interpersonale credo che una della esperienze spirituali più consolanti, proprio perché la ragione difficilmente sta tutta solo da una parte, sia proprio quella di mettere se stessi e gli altri sotto il medesimo manto della misericordia di Dio, riconoscendo le nostre colpe e quelle altrui con occhi misericordiosi.

Come dice infatti il Salmo 31: «Beato l’uomo a cui è tolta la colpa / e coperto il peccato. /Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto / e nel cui spirito non è inganno. / Ti ho fatto conoscere il mio peccato, /non ho coperto la mia colpa. /Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» / e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato».




Libertà e bestemmie

TYP-431084-4364059-jemolodi Andrea Drigani • Alcuni recenti e drammatici attentati hanno suscitato un’attenzione particolare su un insieme complesso e complicato di questioni che non sono però mai state pienamente affrontate e che forse abbisognano ancora di ulteriore studio. Si tratta del rapporto fra tre diritti: la libertà religiosa, la libertà di manifestazione del pensiero, la tutela della buona fama. La regolazione pratica dei diritti, al fine di una loro armonica presenza in una comunità politica, talvolta è assai difficile, poiché sovente questi diritti, considerati «fondamentali», rischiano di entrare tra loro in collisione e non è facile indicare quale di questi debba prevalere. Nella libertà di manifestazione del pensiero, ad esempio, si ritiene che vi sia pure il diritto alla satira anche con risvolti blasfemi; d’altronde il diritto alla libertà religiosa non si esaurisce nella libertà di professarla, ma richiede la sottrazione ad offese che potrebbe turbarla, e tali, se fossero ripetute e potenziate col favore dell’impunità, da condurre alcuni ad abbandonarla. Nel 1961 il grande giurista Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), sensibilissimo alla promozione dei diritti di libertà, scriveva: «E’ regola di ogni convivenza che il singolo cittadino non possa già pretendere che gli altri dividano e non contrastino le sue idee, ma possa esigere che non lo feriscono con frasi crude e con espressioni volgari in credenze che a lui possono essere molto care. Su questa base può essere punita la bestemmia e la relativa disposizione non sarà illiberale se non si limiterà a proteggere un’unica fede religiosa, ma cercherà d’inserirsi in genus più vasto, di norma che reprima il comportamento antisociale di chi con parole e gesti manca alle regole di convivenza civile, con l’offendere altri senz’alcuna necessità e senza potersi scusare col dire che fa ciò per diffondere le proprie idee (le bestemmie non hanno mai convertito nessuno) e col venir meno alle regole di decenza tacitamente e universalmente accettate». Questa lunga citazione di Jemolo ci richiama, tra l’altro, alla considerazione che le risposte alle offese ai diritti, ivi compreso quello alla libertà religiosa, non possono mai essere, in nessun modo e in nessuna maniera, affidate alla vendetta privata, addirittura con spargimento di sangue, ma solo al rispetto delle leggi e alle decisioni degli organi giurisdizionali. Una delle caratteristiche della società «occidentale» (termine quest’ultimo che andrebbe precisato, attesa, ad esempio, la differenza tra l’esperienza giuridica francese e quella anglosassone) non è la proclamazione teorica dei diritti di libertà, bensì il diritto dei cittadini di rivendicare e difendere i diritti di cui godono presso il foro giudiziario. Circa la buona fama, la cui violazione si denomina diffamazione, è da notare che essa si riferisce alle persone fisiche, le quali se si sentono offese, anche per mezzo della stampa, nella loro reputazione, con l’eventuale attribuzione di fatti, hanno il diritto, tramite la querela, di adire al tribunale per chiedere giustizia. Il tribunale dopo aver valutato le prove e le circostanze deciderà se vi è stata offesa oppure no. Non si potrà mai parlare di repressione della libertà di manifestazione del pensiero nel caso che il tribunale concludesse che vi è stata diffamazione da parte di giornalista. Sorge una domanda: la tutela della buona fama potrebbe estendersi alle persone giuridiche? Se qualcuno affermasse che una confessione religiosa è un’associazione a delinquere, non si dovrebbe concedere ai rappresentanti della confessione religiosa la facoltà di adire al tribunale? Ovviamente rimettendosi a quanto poi stabilirà il giudice. Non si tratterebbe, in questo caso, di chiedere speciali protezioni, ma di veder garantita un’azione processuale. E’ altresì da ribadire che gli omicidi e tutti gli altri delitti, premeditati e volontari, qualunque siano le loro motivazioni fossero pure «religiose», vanno sempre puniti secondo la legge penale. Nell’esercizio dei diritti, sia come singoli sia nelle formazioni sociali, si deve tener conto, come ci rammenta la tradizione cristiana, del bene comune, dei diritti altrui e dei doveri nei confronti degli altri.