Gregorio Magno e la fine del mondo antico

gregorio_magno di Francesco Vermigli • In un anno segnato dalla canonizzazione di due papi (Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII, lo scorso 27 aprile) e dalla beatificazione di un altro (Paolo VI, il prossimo 19 ottobre) richiamare alla memoria la figura di san Gregorio Magno (papa dal 590 al 604) non sembra esser stonato. Il mese di settembre poi si apre (il giorno 3) proprio con la memoria liturgica di questo pontefice, che si staglia come personaggio grandioso nella storia della Chiesa latina e della civiltà occidentale.

Nell’epoca che vive Gregorio, convivono il sostrato romano e la generalizzata cristianizzazione di queste popolazioni di antica tradizione con un’ondata di invasioni germaniche, almeno per l’Italia, senza precedenti. Il mondo germanico, in Italia quello longobardo, poggiava su principi e su strutture sociali aliene dalla romanitas. In tutto questo, infine, il collegamento con l’Impero romano d’Oriente (che si potrebbe già appellare “bizantino”) si allenta, quasi fino a rompersi.

Gregorio è una figura singolarissima, un volto poliedrico di questo mondo scosso da tensioni di natura etnica sempre più forti, depauperato da una situazione di quasi disperante miseria, lacerato da epidemie e carestie. Egli – patrizio romano, ambasciatore pontificio a Costantinopoli, monaco – asceso alla sede di Pietro svolgerà un ruolo politico ed ecclesiale mai assunto prima da un papa, escluso forse Leone, l’altro Magno. Non solo con l’opera di ricompattamento della realtà ecclesiale testimoniato dalle sue lettere – specialmente riconducendo all’unità disciplinare e dottrinale l’episcopato occidentale – o nella promozione di un nuovo slancio evangelizzatore, in modo particolare verso le Isole Britanniche. Già! la “nuova evangelizzazione” di papa Gregorio… Essa venne a inaugurare una stagione di leggende, che colorirono di un tocco quasi fiabesco quest’epopea del Vangelo in Inghilterra: dall’incontro casuale di un gruppo di angli venduti al mercato degli schiavi di Roma, che apparvero a Gregorio non angli, piuttosto angeli; fino alla narrazione della conversione del re da parte di un solerte evangelizzatore, che colse un episodio insignificante come l’entrata furtiva e l’immediata uscita da una stanza di un castello da parte di un uccello in cerca di calore in una notte d’inverno, per trattare dell’essenza della fede cristiana.

Ma sono piuttosto i suoi scritti a render conto di una capacità di lettura della realtà a lui contemporanea fuori dal comune. Un’attenzione ai fatti e alle vicende della storia che è mossa da un criterio interpretativo certo: la storia deve essere letta alla luce dell’azione provvidente di Dio. Nei Dialogi Gregorio mostra che l’epoca sua non deve invidiare niente a quelle precedenti, ché è l’epoca dei santi, dei taumaturghi, degli uomini di Dio: qui il campione della santità è il Benedetto non della Regula, ma quello dei miracoli e delle pratiche ascetiche. Nella sua Regula pastoralis il papa invece tratteggia i contorni del retto pastore, del praedicator che conosce le proprie pecore e adatta ad esse la propria arte oratoria. Nelle omelie su Ezechiele, infine, il tono si fa profetico, la storia è nelle mani di Dio: Egli agisce per mezzo dei predicatori, coloro che hanno il compito di annunziare il Vangelo.

Lo sguardo di Gregorio è costantemente rivolto al futuro. Sente di poter guidare la storia, non – o almeno non solo – con gli strumenti di questo mondo, ma nella confidenza fermissima nella protezione di Dio. Il suo slancio missionario, allora, se riletto alla luce di ciò che egli scrive, acquista un significato densissimo. Il passato romano qui non ha spazio, non perché egli non appartenga a quel mondo, ma perché percepisce che ora altre strade devono essere battute. In Gregorio si corona una linea non marginale del cristianesimo occidentale, che inizia con l’Agostino del De civitate e con Salviano di Marsiglia: la linea che percepisce che il cristianesimo non è posto nella storia per salvare gli imperi, anche se questi si dicono cristiani. L’obbiettivo della Chiesa non dovrà essere la salvaguardia di un mondo pur di grandiosa tradizione, ma confessare la grandezza delle opere compiute dal Signore o di quelle che ancora attendono di manifestarsi. In Gregorio, la politica ecclesiale si fa prepotentemente profezia.

Il mondo antico con lui può davvero dirsi finito. Alla Chiesa del VII sec. si aprono le lande sconfinate delle popolazioni germaniche, che già manifestano i segni della ricerca di un’integrazione con il mondo latino. Saranno altri a raccogliere e a far fruttare quei semi, e lo faranno nel nome del Signore. A Gregorio spetta incontestabile il merito di aver intravisto il futuro della Chiesa. Per dirla con il vocabolario missionario usato dallo stesso Gesù: a Gregorio va riconosciuto il merito grande di aver saputo vedere la messe biondeggiare. E non è, davvero, poca cosa.




Diritti e doveri: un binomio indissolubile

images (2)di Andrea Drigani • San Giovanni XXIII nell’Enciclica «Pacem in terris», pubblicata l’11 aprile 1963, presenta una lunga serie di diritti, che lui denomina «naturali», tra i quali il diritto all’esistenza e ad un tenore di vita dignitoso, il diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza, il diritto alla libertà di scelta del proprio stato, il diritto di riunione e di associazione, il diritto di emigrazione e di immigrazione. Dopo questo catalogo dettagliato, Papa Roncalli introduce (nei paragrafi 14 e 15) un’appropriata riflessione sulla circostanza che quei diritti «naturali» sono indissolubilmente congiunti, nella persona che ne è il soggetto, con altrettanti rispettivi doveri; avendo entrambi (diritti e doveri) nella legge naturale, la loro radice, il loro alimento e la loro forza indistruttibile. Il Pontefice fornisce alcuni esempi: il diritto di ogni essere umano all’esistenza è connesso al suo dovere di conservarsi in vita; il diritto ad un dignitoso tenore di vita con il dovere di vivere dignitosamente; il diritto alla libertà della ricerca del vero è congiunto con il dovere di cercare la verità, in vista di una conoscenza della medesima sempre più vasta e profonda. Si potrebbe aggiungere, sempre a titolo esemplificativo, che al diritto al lavoro corrisponde il dovere di lavorare e al diritto allo studio il dovere di studiare. San Giovanni XXIII annota, inoltre, che nella convivenza umana ogni diritto naturale in una persona comporta un rispettivo dovere in tutte le altre persone: il dovere di riconoscere e rispettare quel diritto. Infatti, prosegue Papa Roncalli, ogni diritto fondamentale della persona trae la sua forza morale insopprimibile dalla legge naturale che lo conferisce e impone un rispettivo dovere. Coloro  che, osserva ancora il Pontefice, mentre rivendicano i propri diritti, dimenticano o non mettono nel debito rilievo i rispettivi doveri, corrono il pericolo di costruire con una mano e distruggere con l’altra. L’indissolubilità dei diritti e dei doveri è stata anche proclamata dalla Costituzione italiana del 1948, all’articolo 2 che recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Le volontà dei Costituenti, in tutti questi anni non sembra siano state pienamente accolte; la seconda parte dell’articolo 2 (quella dei doveri inderogabili) mi pare sia stata alquanto negletta. Si parla e si propone, con molta energia, una serie di diritti, alcuni dei quali non si comprende cosa abbiano di giuridico, ma è assai raro il richiamo ai doveri. Come ricordava San Giovanni XXIII l’ordinata convivenza umana necessita che i vicendevoli diritti e doveri siano attuati. Si può ritenere che l’eccessiva insistenza unilaterale sui diritti sia la conseguenza, almeno qui in Europa, della fine dei regimi autoritari e totalitari, fondati soltanto sui doveri quasi senza diritti. Questo, però, non sembra una buona ragione per far sì che i regimi democratici si fondino su molti diritti e pochi doveri. L’ordinamento giuridico della Chiesa universale ha espresso, sia nel Codice latino del 1983 (CIC) che nel Codice orientale del 1990 (CCEO), l’elenco dei doveri e diritti di tutti i fedeli («De omnium christifidelium obligationibus et iuribus») presente, nello stesso identico testo, nei canoni 208-223 CIC e nei canoni 11-26 CCEO. In questi canoni sono enunciati obblighi e diritti naturali, pertinenti ad ogni uomo, e obblighi e diritti soprannaturali propri dei battezzati. La fonte dei doveri e dei diritti dei fedeli è, infatti, la dignità della persona umana e il Battesimo con il quale l’uomo è incorporato a Cristo e alla Chiesa. Si precisa, secondo la lezione di San Giovanni XXIII, che tutti i diritti elencati dalla legislazione canonica debbono essere esercitati tenendo conto del bene comune della Chiesa, dei diritti altrui e dei propri doveri nei confronti degli altri (can.223 § 1 CIC e can.26 § 1 CCEO). La persona nella Chiesa non può mai essere considerata in modo individualistico, in quanto vive ed opera in essa.  Perciò quando un fedele adempie i suoi doveri e ed esercita i suoi diritti, non lo fa per se stesso, ma sempre anche per il bene di tutta la Chiesa.




Enrico Chiavacci (1926-2013). Un ricordo a un anno dalla morte

IMG_2378di Gianni Cioli • Il 25 agosto 2013, nella canonica della parrocchia di San Silvestro a Ruffignano (Firenze) in cui ha vissuto ed esercitato il ministero di parroco per oltre cinquant’anni, moriva don Enrico Chiavacci.

Figlio del filosofo Gaetano Chiavacci, Enrico era nato a Siena il 16 luglio 1926. Era stato ordinato prete della diocesi fiorentina nel 1950 e, fin dai primi anni del suo ministero, aveva unito l’impegno pastorale in parrocchia all’attività di docente. Aveva insegnato filosofia moderna e contemporanea presso il liceo del Seminario fiorentino negli anni 1960-1966, filosofia morale presso lo Studio teologico fiorentino dal 1961 al 1965 e, dal 1966, teologia morale presso il medesimo istituto divenuto Facoltà teologica dell’Italia centrale dal 1997. Anche dopo il compimento dei settant’anni nel 1996, con l’interruzione della docenza istituzionale allo Studio teologico, continuò fino al 2010 il suo apprezzato insegnamento con corsi monografici presso la Facoltà e l’Istituto superiore di scienze religiose Beato Ippolito Galantini. Negli anni ottanta aveva inoltre insegnato all’Istituto teologico Saveriano di Parma.

Fu anche Visiting Professor presso numerose istituzioni, tra cui la Facoltà teologica dell’Italia meridionale, l’Università degli studi di Firenze, l’Università cattolica di Milano, l’Università di Leida, l’Università di Vienna, l’Accademia teologica del Patriarcato di Mosca e varie università degli Stati uniti di America.

Fu presidente dell’Associazione teologica italiana per lo studio della morale dal 1979 al 1984; membro della presidenza della Societas Ethica – European Society for Research in Ethics dal 1981 al 1985; membro di Pax Christi International; membro del comitato direttivo di Rivista di teologia morale e del comitato scientifico di Rivista di sessuologia.

Dal 1962 era parroco di San Silvestro a Ruffignano, servizio che ha svolto con passione nel pieno spirito del concilio Vaticano II.

Chiavacci fu autore di numerosi articoli scientifici in riviste di risonanza internazionale e di libri significativi. Fra questi ultimi si possono segnalare: Etica sociale (Roma 1966); La Gadium et spes (Roma 1969); Proposte morali fra l’antico e il nuovo (Assisi 1973); Morale della vita fisica (Bologna 1979); Teologia morale 1. Morale generale (Assisi 1977); Teologia morale 2. Complementi di morale generale (Assisi 1980); Teologia morale 3/1. Teologia morale e vita economica (Assisi 1986); Teologia morale 3/2. Morale della vita economica, politica e di comunicazione (Assisi 1990); Invito alla teologia morale (Brescia 1995); Teologia morale fondamentale (Assisi 2007).

L’originalità del pensiero teologico morale di Chiavacci può essere soprattutto riconosciuta nel costante impegno a collocare la riflessione etica sul sociale non esclusivamente né primariamente nell’ambito della morale speciale, come problematica relativa a un settore della vita umana, ma nell’ambito della morale generale o fondamentale, come categoria essenziale per comprendere l’uomo e la sua responsabilità.

In questa breve nota che redigo a un anno dalla della scomparsa di don Enrico vorrei ancora esprimere una riconoscenza profonda a un maestro e testimone della teologia del novecento nella sua più incisiva fase postconciliare. Egli è stato certamente maestro per l’originalità del pensiero, il rigore metodologico e la non comune capacità didattica; è stato testimone per la studiosità alacre coniugata alla carità pastorale, per la passione intellettuale e cristiana, la parresia, la coerenza di vita. È da ricordare in particolare il suo solerte impegno per la pace, pagato di persona con la scelta dell’obiezione fiscale contro le spese per gli armamenti. La pace, nell’accezione biblica, era per lui il tema fondante l’etica economica, politica e di comunicazione, l’orizzonte della famiglia umana in cammino verso il Regno. Una proposta di cui si comprende ora più che mai la serietà e l’urgenza.

Riprendendo le parole pronunciate dall’economista Piero Tani, ancora vivente Chiavacci, in occasione di un incontro di studio dedicato al suo pensiero, il 6 maggio 2013, potremmo giungere a qualificare don Enrico, oltre che come maestro e testimone, anche come profeta. Molti ammonimenti di Chiavacci, in effetti, sottolineava Tani, hanno anticipato «la crisi attuale, identificandone una delle principali cause nella finanza e in particolare nell’eccessiva concentrazione del capitale finanziario. Erano anticipazioni che hanno ricevuto, purtroppo, conferme chiarissime in questi ultimi anni. Possiamo davvero parlare di posizioni profetiche nell’accezione più popolare di questo termine, in rapporto alla capacità di prevedere eventi futuri; ma possiamo parlare di profezia soprattutto nell’accezione più propria, come giudizio severo sui comportamenti umani a livello sociale, con la prospettazione di conseguenze gravi se non si sceglie la via del cambiamento».

 




La dimensione esodale della Chiesa. Ricordando l’Ecclesiam suam

paolo-vidi Alessandro Clemenzia • La ricorrenza del Concilio Vaticano II culminerà, in autunno, con la beatificazione di uno dei protagonisti di quell’evento: papa Paolo VI. Ed è proprio nell’appropinquarci a quella data che ricordiamo, nel cinquantesimo della sua uscita, la Lettera Enciclica Ecclesiam suam, in cui emerge in modo inconfondibile in cosa consiste la dimensione esodale della Chiesa: il suo movimento di uscita-da-sé verso l’altro.

È un documento cruciale, sia per l’ampiezza di orizzonte contenutistico che lo contraddistingue (e di cui verrà ora fatta una breve presentazione), sia per il delicato momento storico in cui è stato scritto: esso, infatti, è datato 6 agosto del 1964, tempo in cui i padri conciliari affrontavano le ultime questioni sul tema della Chiesa, nella terza sessione del Concilio, all’interno della quale è stata poi approvata la Lumen Gentium. È un documento dunque che porta già l’indelebile contributo del Vaticano II, e tuttavia precede la Costituzione dogmatica sulla natura della Chiesa.

L’Enciclica è suddivisa in tre parti: la prima è dedicata al tema della “coscienza” ecclesiale, o meglio, dell’autocoscienza ecclesiale, la seconda parte al “rinnovamento” e la terza al “dialogo”. Questa tripartizione trova piena luce nel titolo che introduce il documento: «Per quali vie la Chiesa Cattolica debba oggi adempiere il suo mandato», il che dice che non si tratta di un programma pastorale, ma di vie che la Chiesa deve percorrere, nell’oggi (fondamentale questa sottolineatura: significa qui ed ora), per essere ciò per cui è nata.

Una delle questioni ecclesiali prioritarie negli anni ’60 verteva su come ci si dovesse relazionare con il mondo; la risposta, secondo Paolo VI, doveva essere trovata non da una qualsivoglia discussione su tale ambito, ma nella natura stessa della Chiesa: per questo essa deve riflettere su se stessa (cf. n.27). E cosa si evince da questa riflessione? «Il primo frutto della approfondita coscienza della Chiesa su se stessa è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo» (n.37). Per recuperare un giusto e nuovo modo da parte della Chiesa di rapportarsi con il mondo, è necessario cogliere nella sua natura il rapporto con Cristo: è “in Cristo” che l’Ecclesia può recuperare il metodo della relazione con ciò che è altro-da-lei. Tale legame a Cristo, che rende la Chiesa un “mistero”, spiega papa Paolo VI, non scaturisce da chissà quale concettualizzazione o teorizzazione di esso, ma è prima di tutto «un fatto vissuto, in cui ancora prima d’una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza» (n.39). La verificabilità del metodo non è data da una costruzione logica del discorso, ma dall’esperienza (l’experientia fidei).

E perché quest’autocoscienza accada (seconda parte dell’Enciclica), la Chiesa deve vivere in un costante atteggiamento di “rinnovamento” interiore. La riforma fa parte della natura stessa della Chiesa; per riforma, egli annota, «non si deve intendere cambiamento, ma piuttosto conferma nell’impegno di mantenere alla Chiesa la fisionomia che Cristo le impresse, anzi di volerla sempre riportare alla sua forma perfetta» (n.49).

Quando la Chiesa riflette sulla sua natura e si pone in quell’atteggiamento di costante ritorno al suo evento fondativo (terza ed ultima parte del documento), essa scopre il rapporto che deve instaurare verso il mondo: il “dialogo”. È l’essenza stessa della Chiesa a chiamarla a questo atteggiamento non solo di apertura, ma di uscita verso l’altro: «La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n.67). Dinamica di apertura e di piena accoglienza dell’altro che trova nella rivelazione di Dio Trinità il suo fondamento primo ed ultimo (cf. n.79).

Il dialogo, perché sia autentico e credibile, deve assumere “la misura” dell’interlocutore (cf. n.80): il fine non è convertire l’altro, ma raggiungere una piena comunione (cf. n.81). Perché ci sia un dialogo bisogna rinunciare al desiderio di ridurre l’altro a sé, e partire dall’altro, non rimanendone estraneo o esterno, ma in qualche modo “facendosi l’altro”, rispecchiando così la logica dell’incarnazione: «Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune […]» (n.90). Si tratta di un’Enciclica che invita la Chiesa a prendere coscienza di sé, trovando nel suo relazionarsi a Cristo il principio interpretativo della sua relazione con il mondo: il dialogo in questo senso è l’uscita della Chiesa verso l’altro, la concretizzazione della sua tensione a entrare in rapporto con il distinto-da-sé, assumendone (nel senso più alto della parola) la forma, la misura e il linguaggio.

Alla luce dell’Ecclesiam suam è possibile affermare che la dimensione esodale della Chiesa non è un modo pubblicitario per farsi valutare “moderni e alternativi”, ma fa parte della sua stessa natura: non vivere questa tensione esodale significa semplicemente non essere Chiesa. Nulla di ciò che è “altro” e “diverso” dalla Chiesa può essere da lei perduto o censurato: «Tutto ciò ch’è umano ci riguarda» (n.101).

Essendo la Chiesa una realtà viva, e dunque dinamica, che non basta mai a se stessa tanto da potersi considerare arrivata, è bene essere consapevoli, per concludere con le parole dell’Enciclica, che «il lavoro comincia oggi e non finisce mai» (n.121).




«… è lecito fermare l’aggressore ingiusto» (Papa Francesco).

papa-francesco1di Leonardo Salutati • Durante il viaggio di ritorno dalla Repubblica di Corea, sull’aereo, Papa Francesco ha parlato con i giornalisti dei momenti più importanti, delle sue emozioni durante i diversi incontri vissuti nel corso della sua visita apostolica, ma anche dell’attualità internazionale. A questo proposito, il giornalista Alan Holdren della Catholic News Agency, ACI Prensa di Lima in Perù, ha esplicitamente chiesto al Papa se approvava il bombardamento americano. Papa Francesco ha risposto che: «In questi casi, dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. … Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata l’idea delle Nazioni Unite: là si deve discutere».

L’affermazione del Papa si colloca sulla linea tracciata da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, nell’ambito del principio diresponsabilità di proteggere, formalmente accettato da tutti gli stati membri dell’ONU in occasione del Summit mondiale del settembre 2005. Tale principio prevede la responsabilità di ciascuno Stato di proteggere la sua popolazione dal genocidio, dai crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Al vertice, i leader mondiali convennero inoltre che, quando uno Stato non riesce a rispondere a tale responsabilità, la «comunità internazionale» ha la responsabilità di aiutare le persone minacciate di tali crimini a proteggersi. Qualora i mezzi pacifici, tra cui diplomatici, umanitari e altri, siano inadeguati e le autorità nazionali«manifestamente incapaci» di proteggere le proprie popolazioni, la comunità internazionale deve agire collettivamente in un«modo tempestivo e decisivo» – attraverso il Consiglio di sicurezza dell’ONU e in conformità con la Carta delle Nazioni Unite – caso per caso e in collaborazione con le organizzazioni regionali come appropriato.

Dal punto di vista cristiano, i fondamenti morali di tale principio sono contenuti in vari pronunciamenti del Magistero pontificio e nel Catechismo della Chiesa Cattolica. In particolare Giovanni Paolo II ha sostenuto la necessità di intervenire nelle situazioni di crisi umanitaria dichiarando «omissione colpevole» ogni forma di disinteresse da parte degli stati verso le situazioni di sofferenza, mentre il Catechismo afferma che: «la legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita degli altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile. La difesa del bene comune della società esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità» (CCC 2265).

Nella sua dichiarazione Papa Francesco, correttamente, sottolinea inoltre che: «Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto». Tale precisazione è evidentemente conforme a quanto stabilito nell’ambito dell’ONU, con il chiaro intento di evitare il rischio che un singolo stato utilizzi l’intervento umanitario come copertura per perseguire altri interessi. Dato questo contesto, il problema che si pone riguarda la frequente mancanza di tempestività, pur prevista dal Summit del 2005, e il fatto che il Consiglio di Sicurezza non sempre è riuscito a trovare un accordo in risposta alle situazioni che chiamano in causa la responsabilità di proteggere. Nel caso presente, il Consiglio di Sicurezza non è stato ancora investito del problema, per cui l’intervento americano, comunque tardivo se consideriamo il numero dei civili costretti ad abbandonare le proprie case, vittime di genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità, sembrerebbe collocarsi al di fuori delle condizioni previste dal Summit del 2005. È evidente l’urgenza che la comunità internazionale si dia finalmente delle regole adeguate!

Oltre a questo ci pare oltremodo urgente agire a livello di società civile, per prevenire seriamente situazioni quali stiamo oggi assistendo. Raccogliendo l’invito di Benedetto XVI del 2006 a Regensburg, ci pare a questo punto non più rinviabile una presa di coscienza da parte di tutti, in particolare intellettuali, leaders politici e operatori del mondo mediatico, sul bisogno di favorire realmente un clima sociale e culturale capace di promuovere la pace e il dialogo piuttosto che il conflitto e l’esclusione, attraverso un «processo di argomentazione sensibile alla verità» (Benedetto XVI, 2008). Al riguardo la riflessione di Benedetto XVI, violentemente criticata nel 2006, si rivela oggi in tutta la sua saggezza. Egli, tra le altre cose, aveva ammonito lo spirito del tempo ad emendarsi dal nichilismo che lo stava trascinando verso la rovina, denunciando l’avversione dell’Occidente «contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione» e invitava ad avere «il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione», a non rifiutarla, perché «non agire secondo ragione … è contrario alla natura di Dio… e alla natura dell’anima» (Benedetto XVI 2006). Richiamando i suoi interlocutori «a questa vastità della ragione» e al «dialogo delle culture», ricordava inoltre che, ritrovare in se stessi la vastità della ragione, «sempre di nuovo», è il grande compito che attende ogni uomo di buona volontà.

 

 




“Cum monachum non facit habitus”: da una decretale a un proverbio

St._Benedict_delivering_his_rule_to_the_monks_of_his_orderdi Francesco Romano • La vita consacrata per mezzo dei consigli evangelici è un fenomeno giuridico complesso nei suoi elementi essenziali e nell’evoluzione storica plurisecolare che ha conosciuto.

Questo ambito della vita della Chiesa mostra con immediatezza che spiritualità e carismi realizzano concretamente la vocazione cristiana di sequela Christi solo se assumono forme giuridiche regolamentate da norme che definiscono il rapporto del consacrato con Dio in virtù del voto religioso. Inoltre, per la rilevanza pubblica di questo status di vita, le norme danno una collocazione sociale precisa al consacrato e ne definiscono i rapporti intraecclesiali.

Il detto popolare “l’abito non fa il monaco” contiene in sé una evidente verità nel senso che è sempre prudente guardarsi dalle apparenze, ma questo detto, divenuto proverbiale, in origine stava a indicare più modi per entrare nella vita consacrata.

La Decretale del 1199 “Porrectum nobis” di Innocenzo III fa chiarezza su un caso sottoposto al suo giudizio, rispondendo così: “…cum monachum non facit habitus, sed professio regularis, ex quo a convertendo votum emittitur, et recipitur ab abbate, talis, ut fiat monachus, et reddat Domino quae promisit, erit utique non immerito compellandus” (Decretales Gregorii IX, c. 13, 3, 31).

Questa decretale, fu sollecitata da un certo chierico canonico che prima di entrare in monastero aveva fatto voto di consacrarsi con la sola assunzione dell’abito monastico, detta “in habitu”. Ammalatosi gravemente, per paura di non fare in tempo a tener fede al voto, si affrettò a emettere la professione monastica “espressa”, cioè in manibus dell’abate. Dopo la guarigione insperata, il neoprofesso desiderò tornare al secolo contestando la validità della professione per non aver assunto l’abito monastico. Da qui il ricorso al Papa che con la suddetta decretale riconobbe la validità della professione monastica “espressa” in manibus, più certa rispetto a quella “tacita” o “in habitu”.

Questo episodio sembra un aneddoto bizzarro, ma indica anche le diverse modalità con cui la Chiesa riceveva il sanctum propositum religionis di colui che voleva consacrarsi a Dio.

Con i due avverbi “regulariter” e “irregulariter” si indicavano rispettivamente i religiosi che conducevano una vita comunitaria sotto una regola, e i religiosi che vivevano da soli nella propria casa. La vita comunitaria era solo raccomandata, ma fu imposta dal Concilio di Trento.

Altra distinzione riguardava il modo di emettere la professione religiosa, ovvero espressamente e quindi regolarmente, detta anche “in manibus”, oppure tacitamente e quindi irregolarmente, detta anche “in habitu”.

Espressa o tacita che fosse, ciò che importava era la documentabilità della professione religiosa che poteva avvenire con la testimonianza certa di una persona giuridicamente riconosciuta, come per es. l’abate o il vescovo, per cui si diceva che era stata emessa “in manibus”. L’attestazione pubblica poteva essere rappresentata anche solo da un segno convenzionale come l’abito religioso per cui si diceva che era stata emessa tacitamente “in habitu”. In questo caso avvenendo fuori della vita religiosa regolare, la forma tacita non poteva dare la dovuta certezza. Il chierico citato nella decretale aveva fatto voto di consacrarsi nella forma tacita e irregolare con la sola assunzione dell’abito religioso, ma le cose non andarono così per l’urgenza dovuta alla malattia sopravvenuta.

La professione religiosa emessa espressamente “in manibus” comportava l’esplicitazione formale dei tre voti con le solennità giuridiche e quindi la possibilità di essere ratificata da parte della Chiesa per cui si parlava di professione solenne. Per questo la suddetta decretale riconobbe la validità della professione di quel chierico emessa con una modalità diversa dalle sue intenzioni iniziali.

La professione sempliciter emissa, cioè priva delle solennità giuridiche, era destituita di documentabilità pubblica, in quanto emessa tacitamente solo “in habitu”.

Per la rilevanza sociale che determina lo status giuridico del consacrato, solo la professione solenne, essendo documentabile con certezza, in caso di attentato al matrimonio ne comportava la nullità.

Per dare certezza allo status giuridico del consacrato, anche in riferimento all’impedimento matrimoniale che deriva dalla professione religiosa, Bonifacio VIII con la Decretale “Quod votum” (Liber Sextus Bonifacii VIII, Lib. II, Tit. XV, cap. unic.) decise che la professione religiosa tacita, cioè “in habitu”, fuori dalla vita religiosa regolare, non produceva più effetti giuridici essendo priva di documentabilità.

Con valenze differenti la Decretale “cum monachum non facit habitus” e il detto popolare “l’abito non fa il monaco” si intersecano tra loro arrivando alla stessa conclusione: il solo fatto di indossare un abito religioso o di apparire in un certo modo non dà certezza della vera realtà che dietro si cela.




L’Europa in affanno è senza voce nelle crisi mondiali

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di Antonio Lovascio • L’Europa silente, impaurita dall’allarme-attentati e senza strategia mentre si consumano massacri  e orrori apocalittici in Medio Oriente, in Ucraina, in Africa e si accentuano le tensioni tra Occidente e Russia. L’Italia ritorna in recessione, per la prima volta dal 1959 vede spuntare nell’inflazione  le insegne del sottocosto, ma poi  si scopre che tutta l’Eurozona è ferma, non cresce, Germania e Francia comprese. Sono due facce della stessa medaglia, che devono far riflettere – eccome ! – soprattutto Angela Merkel, chiamata direttamente in causa per la sua carismatica leadership. C’è chi ha scomodato perfino l’astronomia per spiegarle la crisi del Vecchio Continente. Tolomeo – nella tesi supposta – vivrebbe ancora nel Terzo Millennio: la Terra è piatta,  al centro c’è l’Europa con il cuore e il cervello della Germania, abbarbicata ad un sistema di “rigore e austerità” (alimentato dall’iperfobia per l’andamento dei prezzi) in perenne conflitto con l’economia di mercato, che ottiene quasi sempre autonomamente il massimo potenziale di produzione ed occupazione. Ora però, dopo una lunga stagione di sviluppo a… tutto export, per metà concentrato nell’area dell’euro, anche l’industria tedesca rallenta bruscamente come quella francese. A Berlino  si infittiscono le pressioni sul governo perché faccia ripartire alla grande i consumi. E’ quello che da mesi, con scarsa fortuna,  sta tentando di fare Renzi,  con gli 80 euro messi nelle buste-paga mensili di 11 milioni di lavoratori con reddito medio-basso. Altro che rilancio delle vendite: nelle nostre città è addirittura spuntato il fantasma della deflazione!

La Superlocomotiva, se non vuole perdere le leve di comando e accentuare la stagnazione,  deve solo sperare che la “Cancelliera di ferro” faccia una …conversione a “U”, passando da Tolomeo a Copernico. Come? Intanto rivedendo lo spartito e mettendo al centro dei suoi programmi anche la politica estera, affidata in Europa a Federica Mogherini. Il  che significa ammettere – lo ha ben spiegato sul “Corriere della Sera“  Mario Baldassarri – che… la Terra è rotonda:  “l’Europa non è al centro della globalizzazione, anzi rischia di diventare periferia del nuovo mondo”. Per riposizionarsi, ci vorrebbe una nuova “ governance”  con altre  istituzioni internazionali e un G8 che, insieme agli Usa, includa Cina, India, Corea, Russia, Brasile, Sud Africa, Paesi emergenti largamente competitivi per il basso costo del lavoro. E in questo nuovo mondo l’Europa può esserci soltanto se si trasforma in veri e propri “Stati Uniti d’Europa”. Invece dà ancora l’impressione di voler restare tolemaica.  Il nuovo presidente della Commissione Ue, il lussemburghese Jean Claude Juncker ( voluto dalla Merkel, appoggiato dal Nord e dall’Est europeo, ma per la prima volta eletto con voto popolare) ha già detto  che non si cambia linea, pur avendo aperto qualche spiraglio nell’ultimo vertice di fine agosto. Quindi i fautori della crescita (l’asse Renzi-Hollande) avranno difficoltà a superare gli ostacoli dei sacerdoti rigidi dei parametri di Maastricht e degli accoliti dell’ortodossia monetaria che ha accompagnato l’Unione nella crisi profonda e drammatica di questi anni. La Germania, forte del fatto di aver già realizzato da tempo le riforme strutturali (sforando per prima il rapporto deficit- Pil ) continuerà a recitare la parte del  “dominus”, trovando nuovi canali per piazzare fuori dal perimetro continentale i suoi prodotti. Ma se non si adopererà per individuare soluzioni comuni per lo sviluppo degli altri 27 Paesi minerà ancora di più l’unità europea.

Già ora l’Ue è troppo divisa (anche a livello di Banche Centrali)  per ribaltare velocemente la sua balbettante politica economica e fiscale. E ancor meno  – lo ribadiamo – riesce ad esprimere una propria politica estera, avendo perso l’identità originaria, smarrito la sua anima. Non si è sentita la sua voce nelle acutissime  crisi che, dopo ripetuti appelli,  fanno dire a Papa Francesco: “Stiamo assistendo alla Terza Guerra mondiale, combattuta a pezzi”.  Bruxelles è stata quasi completamente assente nell’azione diplomatica portata avanti  dall’Onu, dal Vaticano (Bergoglio nel viaggio in Corea ha aperto il dialogo anche con la Cina)   e dagli Usa su più fronti. In Irak Obama, dopo molti tentennamenti, per fermare le persecuzioni e lo sterminio dei Cristiani ha dovuto ricorrere a raid aerei  ed a bombardamenti  sulle postazioni dei miliziani islamici del Califfato dell’Isis (eredi dei terroristi di Al Qaeda e di Bin Laden) che si sono spinti fino in territorio siriano. E da mesi sono in corso delicate missioni e trattative  per  spegnere le altre emergenze geopolitiche bagnate di sangue (Israele-Palestina, Russia-Ucraina, Siria, Libia,  Malì) che compromettono il riequilibrio  planetario. Ed i governanti europei cosa hanno fatto ? Ci sono voluti decine di migliaia di morti e di feriti, donne e bambini in fuga nel Mediterraneo, per avviare i primi aiuti umanitari (assicurando anche l’invio di armi alla resistenza Curda) dopo la visita-lampo di Renzi a Bagdad. A questo si aggiunga che,  ancora una volta, l’Italia è stata lasciata sola in balia dei naufraghi: solo ora si incomincia a parlare di un pattugliamento coordinato. Sicuramente non è partito bene il nostro semestre di presidenza Ue, con  il premier troppo assorbito dalle assordanti  barricate a Palazzo Madama per riformare il Senato, che gli hanno fatto perdere di vista i contatti con Bruxelles  e Strasburgo,e soprattutto  le priorità della crescita e del rilancio dell’occupazione (l’Italia è forse l’anello più debole) oltre che quella della solidarietà tra i popoli.

Siamo tra i Padri fondatori dell’Europa, ma troppo spesso ce ne dimentichiamo. Basta pensare, ad esempio, a come è stato affrontato e gestito il “dossier” della nostra rappresentanza all’Europarlamento e nella commissione Ue.  Anche se in quest’ultimo caso il premier alla fine di una dura battaglia l’ha spuntata: attribuendosi il  successo (“Una rivincita contro i gufi”),  è riuscito  ad imporre ai partners  la quarantenne responsabile della Farnesina  Federica Mogherini per la guida del Pecs (sarà allo stesso tempo primo vice presidente di Junker) nonostante l’opposizione di diversi  governi, che comunque non le faciliteranno un incarico sì di grande prestigio formale, ma ancora in divenire e soprattutto pieno di insidie.

Un’altra considerazione: in Germania, Finlandia, Belgio, Olanda  dedicano mesi alla selezione dei candidati, che diventeranno poi i protagonisti degli snodi dell’azione europea, lavorando in primis a favore dei rispettivi interessi nazionali. Per questo investono nella formazione politica, istituzionale, lobbystica dei loro delegati e dei relativi staff alla UE e in tutte le strutture collegate. Scelgono ovviamente i migliori talenti, che poi  senza complessi vanno  ad infoltire gli organismi comunitari, le organizzazioni, i gruppi d’interesse internazionali presenti a Bruxelles, di fatto monopolizzati da tedeschi, danesi, olandesi.

Invece in Italia perdiamo tempo a disquisire sulle colpe dei tecnocrati di Bruxelles e sull’Europa berlinocentrica: sarà anche vero, ma non è altro che la naturale conseguenza della caparbietà della Merkel  nello sfruttare tutte le opportunità che la UE le offre. Noi italiani, purtroppo, abbiamo poco da lamentarci, visto che nell’ultima classifica delle attività d’aula e di commissione i nostri parlamentari erano ventiquattresimi su 28 Paesi. L’ennesimo record negativo!   Speriamo di veder presto ribaltata la graduatoria della vergogna con  più assidue presenze della pattuglia di giovani che abbiamo eletto e mandato a Strasburgo.  Ma soprattutto Governo e Parlamento devono realizzare rapidamente riforme vere (mercato del lavoro, fisco, pubblica amministrazione,  concorrenza, giustizia e così via)  che facilitino gli investimenti pubblici e privati, come ci chiede la Bce. Quelle indispensabili “rivoluzioni”  che, se fatte con gradualità e buon senso, daranno ancora più peso e ed autorevolezza a Matteo Renzi . Gli consentiranno di contare di più nelle scelte fondamentali della Ue, in particolare sulla flessibilità dei conti. Il Premier accetti dunque  i saggi consigli del Supergovernatore Mario Draghi,  tiri fuori – oltre ai muscoli – idee e progetti concreti che diano rapida attuazione non solo al decreto “sblocca Italia” per far ripartire i cantieri delle Grandi Opere  ed a quello varato per dimezzare in tre anni i tempi e gli arretrati dei processi civili.  Da Palazzo Chigi tutti si attendono più “realpolitik” e meno show da “Ruota della fortuna” o da marketing della politica.  Altrimenti l’Italia non riuscirà più a lasciarsi alle spalle la lunga recessione. La sfiducia ed il disagio sociale già si toccano con mano!




Parlare di Gesù. Speriamo a modo

Jesus back, painting, живопись, иисус воскрес, фома неверующий, красная мантия, рана, христос, апостолы, 5228x3898di Carlo Nardi • Si viene alla chiesa per sentir parlare di Gesù. Qualche volta per parlare di lui e, forse più spesso, per parlare a lui. In un modo o in un altro, in qualche misura almeno per sbrigare la faccenda al più presto possibile.E c’è anche da capire. M’è capitato sott’occhio qualche verso di Guido Gozzano (1883-1916), freschi, sebbene abbiano circa cent’anni:

Guarda gli amici. Ognuno già ripose

la varia fede nelle varie scuole.

Tu non credi e sogghigni. Or quali cose

darai per meta all’anima che duole?

La Patria? Dio? L’Umanità? Parole

che i retori t’han fatto nauseose!

(Pioggia d’agosto, vv. 20 – 24).

Comunque, siano i bambini del catechismo, siano i prossimi sposi, siano … chi viene a confessarsi, più o meno si chiede alla Chiesa Gesù. Del resto, la Chiesa non deve dare altro che Gesù, tutto quanto, in tutti i suoi aspetti, ma solo lui, perché in lui c’è tutto. Il che, tra l’altro, fa capire se lo si cerca davvero.

Eppure, mica facile parlare di Gesù in modo non “nauseoso”! Intanto: di Gesù, di Gesù Cristo, del Cristo? Ma non è lo stesso? mi si dirà. Certo che è lo stesso, ma c’è modo e modo, e forse è da scegliere tra questi modi, a seconda delle circostanze. E la scelta non è cosa da poco. Mi spiego, cominciando dall’ultimo modo: “il Cristo” s’è preso giustamente a dire da una sessantina d’anni a questa parte con il più diffuso ricorso all’originale greco dove c’è l’articolo, per designare l’Unto di Dio, che è il Messia a lungo atteso e finalmente venuto e presente, sicché non ce n’è da attendere altri (cf. Mt 11,3). Ma “il Cristo” dà l’idea di una frequentazione teologica, benemerita quanto si vuole, ma non so se è più personale di “Cristo”, come si diceva, in base al latino senza articolo.

Allora “Gesù Cristo”? Nella parlata comune mi suona come una formula piuttosto fredda. Sembra un nome e un cognome dell’elenco telefonico o una voce di un’enciclopedia di storia delle religioni, preziosa davvero, ma dove è raro che venga al lettore la voglia di pregare. Del resto, un prontuario non è fatto per le nostre devozioni, almeno direttamente.

Forse meglio “Gesù”. Certo, può avere slittamenti intimistici, il “mio” Gesù, magari diverso da quello degli altri, o può comportare sdilinquimenti come in certe oleografie del Sacro Cuore, «buone cose di pessimo gusto», per citare ancora il Gozzano (L’amica di nonna speranza, v. 12). Eppure è un modo di parlare più personale, come si ragiona di qualcuno che ci preme, che ci sta a cuore: è un Cristo, un Gesù Cristo – diciamo pure come si vuole – che appartiene alla mia vita ora nel suo decorso lineare sereno un po’ monotono ora nei suoi stacchi critici come sfide: negli afflosciamenti e nelle esuberanze, tra smanie dissimulate e giubili sorvegliati c’è posto per lui. Perché è Gesù. Sì, non vuol farsi catturare e diventare l’esclusiva di nessuno. Ma posso dire anche: è “il mio Gesù”. Purché lo cerchi vero, non quello che mi va, che mi sollucchera nel piluccare qualcosa di lui dal multiforme supermercato del sacro. È questione di onestà, di solito quella di una vita cristiana nell’ordinaria amministrazione.

Ora, dire chi è Gesù è anche semplice. Insieme agli approcci storici e teologici che si possono avere, c’è tutto nel Credo, e specialmente in quello breve che si domanda e si dice al battesimo. Anche i primi concili, concettosi, non sono meno concreti: dire che Gesù è «della stessa sostanza del Padre nella sua divinità e della stessa sostanza della madre nella sua umanità» (Definizione del Concilio di Calcedonia, anno 451), non è poco, se ci si pensa – lui stessa “pasta” di Dio, stessa “pasta” mia –, e se si traggono le conclusioni. Un po’ le ha già tratte la Chiesa, molte altre toccano a ciascuno di noi con la sua esperienza umana di mente e di cuore, in cui c’entra poco o tanto Gesù.

Da parte nostra non si tratta solo di cervello o di sentimento e da parte sua non solo di fatti di tant’anni fa. Di che si tratta allora? Intanto, di cercarlo vivo, perché è risorto, davvero risorto nella sua vera carne, il che vuol dire cercarlo in ciò che ha detto e fatto, perché, se è risorto ed è vivo, continua a dire e a fare. Nella sua risurrezione ci sono tutte le sue parole, i suoi segni, la sua fraternità. C’è tutta la sua la sua vita che diventa la mia vita.

 

 

 




Quando le immagini rischiano di renderci indifferenti alla realtà

Pressedi Stefano Liccioli • In questi mesi estivi i media, complice la cronaca nazionale ed internazionale, hanno spesso rilanciato le notizie e soprattutto le immagini di vicende drammatiche. Basta pensare alla guerra tra palestinesi ed israeliani, alle persecuzione dei cristiani in Iraq e nel mondo, a quelle traversate del Mediterraneo che a volte si concludono tragicamente con la morte degli immigrati. Mai come nella nostra epoca le informazioni e le immagini viaggiano in tempi rapidissimi da una parte all’altra del pianeta. Ognuno può aver a portata di mano una foto o il video di avvenimenti, più o meno rilevanti, che sono accaduti in alcune parti del mondo. Tutta questa sconfinata disponibilità di immagini quali effetti ha? Ha forse ragione il filosofo francese Jean Baudrillard quando afferma che «il traffico di immagini sviluppa un’ immensa indifferenza nei confronti del mondo reale»? Credo che questa tesi di Baudrillard paventi il rischio effettivo che una maggiore possibilità di avere rappresentazioni della realtà produca, in maniera inversamente proporzionale, un minore interesse nei confronti della stessa. Sia che si tratti della televisione, di internet o della carta stampata spesso sembra si faccia a gara a rilanciare quante più immagini possibili per raccontare un certo evento, saturando, per così dire, le persone e generando in loro la sbagliata impressione di sapere tutto di qualcosa, solo per il fatto di averla vista e rivista. Allo stesso tempo pare che non ci si fidi più del linguaggio, della sua capacità di raccontare i fatti, pretendendo l’oggettività (ma si tratterà sempre di  oggettività?) di una foto o di un video. L’altro pericolo è una certa superficialità nell’approcciarsi alla realtà nel tentativo di conoscerla: se per giudicare ci si limita a ciò che si vede, manca spesso il necessario approfondimento delle questioni e dei fatti. Nessuna foto potrà infatti cancellare completamente la distanza tra il soggetto e l’oggetto, nessun filmato potrà esprimere fino in fondo tutte quelle emozioni e sentimenti che, ad esempio, portano con se uomini e donne perseguitati. In un film un personaggio affermava che «il nemico, a trecento metri di distanza, è un bersaglio. A tre metri è un uomo». Anche nell’epoca della pervasività delle immagini, non dobbiamo accontentarci di vedere, ma dobbiamo recuperare la dimensione dell’incontro. La distanza tra le persone pone infatti le condizioni dell’odio. Se ci fermiamo a guardare gli altri da lontano, rischiamo di diventare ostili e sospettosi. Non voglio certamente dire che dobbiamo diventare tutti inviati speciali ed andare a verificare di persona quello che riporta la cronaca. Bisogna invece lasciare entrare la cronaca nella nostra vita interessandosi, in maniera non superficiale, di tutte quelle situazioni di cui i media parlano e spesso sono più vicino a noi di quanto pensiamo. In questo modo il “traffico di immagini” non ci rende indifferenti alla realtà, ma è un mezzo per incuriosirci e farci appassionare ad essa.

In generale ritengo che nell’era digitale dobbiamo aver il coraggio di ritrovare il valore dei quei “tre metri di distanza” sopracitati: sono quelli che permettono di rendere reale un volto ed incontrare (forse abbracciare) l’altro, conoscendolo con tutto il suo bagaglio di esperienze, di sentimenti, di vita vissuta. E’ così che possiamo allargare i nostri orizzonti e valutare le cose da prospettive e punti di vista diversi. Aprendoci agli altri possiamo conoscere meglio la vita.




Sguardo letterario ai Salmi: l’uomo secondo Lewis

CS_Lewis-Salmidi Dario Chiapetti • “I Salmi” (Lindau, 2014) è la traduzione italiana del testo originale, composto nel 1958, intitolato “Reflections on the Psalms” dello scrittore anglicano irlandese Clive Staple Lewis (1898-1963), a opera di Edoardo Rialti, studioso dell’Autore. E non è un caso che Lewis, autore di fantasy e fantascienza, medievista e apologeta cristiano si sia interessato a questi componimenti poetici che costituiscono la più celebre raccolta di preghiere dell’Antico Testamento.
L’Autore conduce queste sue riflessioni con un linguaggio e un tono molto confidenziali, come quando si interloquisce con amici, e proprio in ciò sembra risiedere l’originalità di uno scritto su un tema così ampiamente affrontato, anche se, nel suo discorrere, l’Autore rivela tutta la profondità della sua conoscenza scientifica – anche della letteratura extra biblica che con maestria mostra di saper usare per mostrare i tratti (originali) di quella biblica – tanto da avergli, tale scritto, guadagnato l’invito da parte della Chiesa anglicana a partecipare alla revisione del suo salterio.

“La prima cosa è capire l’oggetto che si ha davanti”, così l’Autore dà inizio alle sue riflessioni: “I Salmi sono delle poesie, e poesie pensate per essere cantate: non sono trattati dottrinali e nemmeno sermoni […] i Salmi vanno letti come poesie, come liriche, con tutte le licenze e tutte le formalità, le iperboli, le corrispondenze emotive più che quelle razionali”. Da questa considerazione Lewis sembra dedurre argutamente il metodo di procedere, lontano, lo si sarà capito, da analisi scientifiche, rigorose, sorte di raggi x.

L’oggetto sono certamente i Salmi ma affrontati acutamente da Lewis da un punto di partenza antropologico-esistenziale, ovvero secondo i temi più importanti che si incontrano via via e che più provocano l’uomo. Da questa precisa scelta Lewis sembra dedurre due conseguenze di metodo: da un lato, un affronto delle tematiche salmiche a partire da spunti derivanti da considerazioni sulla vita sia personale dell’Autore che sociale del suo tempo, dall’altro, un suo conseguente discorrere estremamente confidenziale, molto “umano”.

Ciò che anche a un lettore dei Salmi disattento balza all’occhio sono alcune tematiche che appaiono quanto meno difficoltose da ricondurre a Dio e al popolo da Lui scelto. Ebbene, Lewis considera anzitutto queste difficoltà e le approccia secondo la posizione intellettuale più aperta e quindi forse più intelligente: “dove troviamo una difficoltà possiamo sempre aspettarci una sorpresa”. Ecco che vengono affrontati i temi sul Giudizio di Dio, delle maledizioni, della morte, del dovere di lodare Dio, del comando di compiacersi dell’osservanza della Legge, dei secondi significati. In ogni occasione l’Autore dimostra una capacità di introspezione antropologica e una finezza di sguardo alle sue dinamiche sociali e psicologiche che sempre sorprendono il lettore e lo aprono a una comprensione dei Salmi molto umana e mai banale al tempo stesso.

Ad esempio, circa l’enigma della quasi totale mancanza di riferimenti alla vita ultraterrena l’Autore argomenta così: “quando Dio cominciò a rivelarsi agli uomini, mostrando loro che Lui solo è il vero obiettivo e compimento dei loro bisogni, e che Lui ha tale pretesa su di loro semplicemente essendo ciò che è, indipendentemente da tutto ciò che possa elargire o negare, ci sarebbe stata l’assoluta necessità che tale rivelazione non cominciasse con alcuna allusione a future beatitudini o perdizioni”. In tale lettura Lewis mostra di saper considerare con grande precisione sia l’aspetto dell’uomo alle prese col fare pedagogico di Dio, sia “l’esperienza pienamente diocentrica, che non domanda a Dio nessun dono più urgente della Sua presenza”.

Conclude Rialti nella sua introduzione: Lewis “Sa valorizzare la radice positiva di qualsiasi difetto, così è anche capace di diagnosticare i rischi di qualsiasi pregio. Ma ciò non gli impedisce mai di essere ‘sorpreso dalla gioia’ delle così ricche intuizioni umane, culturali e spirituali dei salmisti”.