Non sempre chi parla ha qualcosa da dire, e proverbi a grappolo

Socrate_1di Carlo Nardi Ogni cosa a suo tempo. “Avreste potuto anche dir l’avemmaria: questa è l’ora di stare attenti alla lezione”. Così la professoressa di francese a due mie compagne di ginnasio in fondo alla classe non solo un po’ chiacchierine, ma anche bell’e pronte a giustificare il loro cinguettare con un “ma si parlava di cose serie”.

Si potrebbe dire con il Sapiente biblico, il Qoelet o Ecclesiaste, come dir si voglia, e col proverbio comune: Ogni cosa a suo tempo. Perché non ci si mette a parlare di geometria a un funerale, dicevano i greci, e non si mescola il sacro col profano … senza il bisogno di scomodar le quarantore e qualcos’altro. E non solo ogni cosa a suo tempo, bensì anche da parte di chi quella cosa la deve fare o dare: si direbbe da parte di chi ha competenza, di chi è competente, parole che oggi in italiano mi pare abbiano soprattutto due significati vicini, ma non equivalenti.

E a ciascuno il suo. Competente è infatti colui che può e deve dare o fare quello che deve dare e fare nell’ambito dei rapporti umani, in senso anche giuridico, perché quella cosa gli compete: si parla in questo senso di ‘autorità’, di ‘ufficio competente’. Ma competente – è l’altro significato – è anche colui che sa quello che deve sapere o fare: appunto il competente in materia.

D’altra parte, anche questo secondo significato s’avvicina al primo. Sapere quello che si deve sapere è correttezza nei rapporti, è coscienza professionale, è onestà intellettuale: è stare semplicemente alla parola data, per rimanere sul lato positivo, ché del risvolto negativo ne è pieno il mondo … di parecchio fumo, quando va relativamente bene. E in questo ambito un proverbio o un modo di dire tira l’altro. Li rammento, quelli che mi vengono in mente. Si comincia dal Rubar con gli occhi in ossequio a Impara l’arte e mettila da parte, con la consapevolezza che L’arte è lunga, la vita breve, per non ritrovarsi senz’arte né parte e di conseguenza Cento mestieri: un soldo, più che mai tristemente attuale, a differenza invece di chi sa il fatto suo, perché sa il suo mestiere o almeno ci ha naso e trova il modo di cavarci le gambe nelle situazioni e nei problemi sempre nuovi.

A scuola dal vecchio Socrate. Onestà intellettuale è anche la lezione del vecchio Socrate, tutto intento a domandare a chi diceva di sapere se era in grado di rendere conto del sapere che diceva di avere. S’era in un periodo – solo allora? – in cui si pretendeva di far passare per valido anche un discorso che in sé non avesse … né capo né coda: insomma, ci si faceva belli nel menare elegantemente per il naso la gente. Si cimentavano in questo alcuno tra i cosiddetti sofisti. Del resto, la parola “sofisticato” viene dal greco di allora, dall’Atene del quarto secolo a.C. E quand’è che un discorso è “sofisticato”? Quando chi l’ha sentito ti dice: “bello!”, ma se gli domandi: “ma che ha detto?”, ti risponde: “bo?!”.

Invece Socrate andava alla ricerca di légein, letteralmente “dire qualcosa”, qualcosa di sensato, qualcosa che è, e di conseguenza era alla ricerca “che cos’è” ( estin) quello di cui si parla. Eh, sì: perché non sempre chi parla ha qualcosa da dire. Un altro proverbio, che sentii dire proprio dal direttore di questa Rivista, don Andrea Drigani – eravamo qualche anno fa in seminario -, e che mi è rimasto impresso nella mente con una certa mestizia che il detto porta con sé.

Ancora. Di fronte alla fiducia nelle forze più o meno occulte della persuasione, fiducia che facilmente si ribalta in complesso d’inferiorità, con un po’ dello spirito dell’antico Socrate, e soprattutto di Quello di Nostro Signore, anche san Paolo mette al bando «i ragionamenti persuasivi escogitati da accortezze umane». Potrebbero essere esche utili per mandare in paradiso? No, risulta rispondere san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: no, per il rispetto di Colui che ci manda a parlare; e poi un altro no, perché nessuno neppure con le migliori intenzioni è da prendere per il naso.

In compagnia dei magi. Un richiamo all’onestà intellettuale, che vuole affrontare sul serio le cose, è più che mai opportuno da farci a tu per tu con la nostra coscienza, e non solo tra i buoni propositi d’inizio d’anno. Vuol dire rispettare l’opera di Dio che nella Genesi insegna anche a noi a distinguere le cose e gli ambiti. È la lezione dell’antica Lettera a Diogneto e, vicina a noi, della Gaudium et spes che richiamano alla fedeltà – anche qui la parola data -, al compito, altra parola imparentata con “competenza”, personale, ma anche in una trama di rapporti. Come alla lezione di francese, a cui stare attenti.

I magi, per quei tempi competenti in materia, presero sul serio l’avvistamento di una stella o di che cosa fu, che comunque era lo spunto, l’elemento che avevano a disposizione, peraltro muto. Non avevano di più, non avevano di meno. Da parte loro, videro, valutarono, agirono. Osservarono, giudicarono, decisero. Con competenza, decisione e tenacia misero in conto un rischio ragionevole, anche quello del ridicolo di chi fa un viaggio a vuoto, e comunque il rischio di dover rivedere di sana pianta le loro competenze. Se però non avessero messo in atto le competenze che avevano, non avrebbero trovato Chi effettivamente trovarono.




La visione cristiana del denaro

52a58c8a9710cPrefierounaIglesiaqueseensucieaunaIglesiacerradadi Giovanni Campanella • In un suo recente libro (Cristiani e uso del denaro – Per una finanza dal volto umano, pubblicato dall’Urbaniana University Press agli inizi del 2015), don Leonardo Salutati offre una storia dell’interpretazione cristiana del denaro e dà un quadro ermeneutico dell’attuale crisi economica, sociale e morale. Per fare ciò, si è avvalso della Sacra Scrittura, di scritti di santi che hanno affrontato l’argomento e di documenti magisteriali, fino all’esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco e agli ultimi sviluppi della Dottrina Sociale della Chiesa.

Quasi sempre si è portati a vedere il denaro unicamente come mezzo per acquisire diritti. Ciò è sostanzialmente vero; tuttavia per il cristiano la faccenda è un po’ più complessa. All’avere denaro non conseguono solo, e legittimamente, diritti ma anche l’aumento di responsabilità nei confronti di chi ci sta accanto e non solo (scrivo “aumento” perché il non avere denaro non equivale certo a non avere alcuna responsabilità). C’è infatti la nostra cara e solita DUB (acronimo che sta per “Destinazione Universale dei Beni della terra”). E’ un principio che non fa dormire sonni tranquilli a chi pensa di poter disporre dei propri beni a proprio totale capriccio. E’ un principio importantissimo della Dottrina Sociale della Chiesa. Certo, non va inteso in senso assoluto fino a vedere la proprietà privata come un vizio, come veniva considerata da San Benedetto da Norcia all’interno del suo monastero. Salutati ci spiega, nel primo capitolo del suo libro, che «non è in senso assoluto che si parla di destinazione universale dei beni della terra, perché scopo di tale principio è quello di mettere dei limiti al diritto di proprietà, per mantenerlo nel quadro della solidarietà universale» (p. 18). Più avanti, individua nella parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16,1-15) e nella parabola con protagonisti l’uomo ricco e il povero Lazzaro (Lc 16,19-31) due preziosissimi insegnamenti del Signore Gesù in merito alla gestione dei beni. Cita poi un’omelia di San Basilio Magno, dalle affermazioni lapidarie: «A chi faccio torto, dici, se mi tengo il mio ? Ma, dimmi, che cosa è tuo ? Che cosa hai portato tu alla vita ? (…) così sono i ricchi. Occupano i beni comuni e ne pretendono la proprietà perché li hanno occupati prima. Se invece ognuno prendesse solo ciò che è necessario al proprio bisogno e lasciasse agli altri ciò che non gli serve, nessuno sarebbe ricco e nessuno sarebbe povero. Non sei uscito nudo da tua madre ? Non tornerai nudo nella terra ? Da che parte ti son venuti i beni che hai ? Se dici che ti vengono dal fato, sei un empio, perché non riconosci il Creatore e non sei grato a chi te li ha dati; se dici che ti vengono da Dio, spiegaci perché te li ha dati. (…). E’ dell’affamato il pane che tu possiedi; è del nudo il panno che hai negli armadi; è dello scalzo la scarpa che s’ammuffisce in casa tua; è dell’indigente l’argento che tu tieni seppellito. Quanti sono gli uomini ai quali puoi dare, tanti sono coloro a cui fai torto» (San Basilio Magno come citato da Salutati nelle pagine 45-46).

Buona parte del libro di Salutati esamina il tema dell’usura. A tale riguardo, il decreto 29 del Concilio di Vienne proclama: «Se qualcuno fosse caduto in quell’errore, per cui presuma di affermare in modo pertinace che esercitare l’usura non è peccato, decretiamo che debba essere punito come eretico». L’ultimo autorevole pronunciamento sul problema dell’usura da parte di un papa fu l’enciclica Vix pervenit di Benedetto XIV. Essa risale al 1 novembre 1745 e fu indirizzata ai Vescovi d’Italia. Le sue conclusioni furono poi estese alla Chiesa universale da un decreto del Sant’Uffizio del 28 luglio 1835. Nel primo paragrafo dell’enciclica «si definisce il peccato di usura, nell’ambito del contratto di mutuo, come il pretendere un interesse oltre alla restituzione del capitale a motivo del solo mutuo. Nel secondo si afferma che il peccato d’usura persiste nonostante l’esiguità dell’interesse, poiché l’illiceità non dipende dalla misura dell’interesse, né dal fatto che è percepito da ricchi piuttosto che da poveri, ma dall’interesse come tale. Il terzo paragrafo, presenta la possibilità dell’esistenza di titoli che possono legittimare il pagamento di una somma di denaro in aggiunta al capitale prestato» (p. 56). Già San Tommaso d’Aquino e gli Scolastici ritenevano che il denaro non può da solo essere fattore di accrescimento di sé stesso. Oggi tale principio può apparire alquanto bizzarro e per lungo tempo è stato considerato il prodotto di una cultura bigotta e retriva. D’altra parte, il famoso economista John Maynard Keynes scrive: «Sono stato educato a ritenere che l’atteggiamento della Chiesa medioevale nei confronti del saggio di interesse fosse sostanzialmente assurdo, e che le sottili discussioni intese a distinguere il reddito dei prestiti monetari dal reddito dell’investimento attivo fossero soltanto tentativi ipocriti per trovare una via d’uscita pratica da una teoria insensata. Ma adesso (…) mi par chiaro che le disquisizioni degli scolastici erano dirette a chiarire una formula che permettesse alla tabella dell’efficienza marginale del capitale di essere alta, pur impiegando la norma e la consuetudine e la legge morale per tener basso il saggio di interesse» (Keynes citato da Salutati a p. 81). Schumpeter, un altro grande economista, scrive in proposito: «Se si potesse parlare di “fondatori” dell’economia scientifica, questo titolo spetterebbe ad essi (gli scolastici) più che ad ogni altro gruppo. Non solo, ma le basi ch’essi gettarono per un complesso armonico di strumenti e proposizioni analitiche erano più solide di quanto fossero quelle di una parte notevole del lavoro successivo, nel senso che una parte notevole dell’economica del Novecento si sarebbe potuta sviluppare su quelle basi più rapidamente e con minori difficoltà di quanto accadde: in una certa misura, il lavoro successivo comportò spreco di fatica e di tempo» (Schumpeter citato da Salutati alle pp. 81-82). Per una quarantina di pagine, Salutati si fa guidare dal pensiero del «teologo ed economista Bernard W. Dempsey, in considerazione dell’importante valore del suo studio degli autori scolastici, in particolare di quelli della scuola dei Gesuiti, nonché per il suo esempio di ricercatore a sua volta guidato dalla luce del Vangelo e dell’esperienza umana (cf. GS 46) da lui maturata nel campo dell’economia» (p.91). Anche Dempsey, sulla scia di Schumpeter e degli scolastici Molina, Lessio e De Lugo, sottolinea che, se è vero che il tempo è sempre condizione per un surplus di valore, non ne è mai la causa. Ciò vuol dire che il trascorrere del tempo in sé non è sufficiente per giustificare un interesse: ci devono essere dei motivi aggiuntivi (i cosiddetti “titoli estrinseci”). «Oggi nella gestione delle attività finanziarie domina in maniera assoluta il dogma del capitalismo liberale del diritto della moneta a produrre sempre e dovunque interesse, senza considerare affatto che non il denaro produce denaro ma l’inventiva di chi lo usa associandolo al lavoro» (p. 60).

Alla fine del secondo capitolo, Salutati anticipa i temi del capitolo successivo, mettendo in guardia da una serie di criticità che caratterizzano l’attuale sistema economico. Quei mezzi fiduciari che il sistema creditizio emette gratuitamente non derivano da precedente risparmio, non comprendono i costi per la produzione della ricchezza e quindi non sono portatori di alcun titolo all’interesse. L’inflazione comprime il potere di acquisto generale, danneggiando soprattutto i più deboli. Le disparità di reddito si accentuano sempre di più. La competizione sfrenata e deregolamentata ha portato alla formazione di monopoli, che determinano prezzi ingiusti e riducono la libertà del mercato. Il capitale, pur essendo solo causa strumentale del reddito, schiaccia il lavoro, la vera causa efficiente primaria del reddito. I principi della giustizia commutativa, della giustizia sociale, della destinazione universale dei beni e di sussidiarietà non sono rispettati. Il bene comune non è perseguito e la parte contrattuale più forte approfitta dello stato di bisogno della parte più debole.

Il terzo e ultimo capitolo analizza ancora più in dettaglio gli attuali problemi economici ed espone le ultime proposte della Dottrina Sociale della Chiesa in merito. Alla radice delle moderne crisi finanziarie stanno un insieme di cause immediate e strutturali, che Salutati esamina singolarmente con precisione. Le Istituzioni Finanziarie Internazionali hanno imposto vari aggiustamenti strutturali ai Paesi in Via di Sviluppo (PVS) in cambio di credito. Tuttavia, questi aggiustamenti sembrano aver sortito nel complesso effetti più negativi che positivi, favorendo i ricchi nei PVS. A queste nefaste derive del sistema economico mondiale risponde il Magistero Sociale. Alla fine del suo libro, Salutati si sofferma soprattutto sull’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II, sull’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI e sull’esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco. Quest’ultima denuncia l’economia dell’esclusione (cf. EG 53) e la globalizzazione dell’indifferenza (cf. EG 54), fomentate da un falso concetto di “ricaduta favorevole”, secondo cui, quando il mercato si espande, alla fine tutti ne traggono beneficio. Il principio di fraternità (cf. EG 71 e 87) «deve trovare un posto adeguato dentro l’agire di mercato e non fuori, come vuole il “capitalismo compassionevole”» (p. 203).




A Cinquant’anni dalla “Ad Gentes” per una Chiesa sempre missionaria

mision_ad_gentesdi Stefano Liccioli • Il mese di ottobre che la Chiesa ormai dalla fine degli anni Sessanta dedica alla missione universale, quest’anno ha un valore particolare perché ricorre il cinquantesimo anniversario dell’importante decreto sull’attività missionaria della Chiesa “Ad Gentes”. In questa sede mi limiterò a sottolineare alcuni aspetti di questo documento che nel Concilio Vaticano II ha offerto una nuova teologia missionaria. Già l’incipit è molto significativo:«La chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre». La missione ecclesiale è così legata alla vita trinitaria stessa ed allo stesso tempo è connaturata al suo essere Chiesa. Chiesa che diffonde la fede salvatrice e rivela agli uomini la verità autentica della loro condizione. In questa opera sono coinvolti tutti i cristiani che, dovunque vivano, sono tenuti a testimoniare con la loro vita e con le loro parole «l’uomo nuovo, di cui sono stati rivestiti nel battesimo, e la forza dello Spirito Santo, da cui sono stati rinvigoriti nella cresima». Il compito di diffondere la fede riguarda qualsiasi discepolo di Cristo chiamato ad annunciare il Vangelo con la propria vita. In questo ottica le occasioni di tale annuncio sono date dal contesto familiare, quello lavorativo o di studio. Tutte situazioni in cui si può accogliere l’invito di Pietro a «rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza (1 Pt 3,15-16a)». Il Vangelo non è dunque una Verità da brandire ed imporre agli altri, ma una Verità a cui si è a servizio e che deve essere proposta con carità e rispetto. Fatto salvo dunque l’impegno di tutti i cristiani a diffondere il Vangelo, la vocazione missionaria è anche una vocazione speciale di alcuni che sono chiamati dal Signore a predicare alle genti.

Il decreto in più passaggi sembra sottolineare che la diffusione della fede richiede il dovere di vivere una vita profondamente cristiana, una coerenza dunque tra il dire e l’essere:«Sarà appunto il loro fervore nel servizio di Dio, il loro amore verso il prossimo ad immettere come un soffio nuovo di spiritualità in tutta quanta la Chiesa, che apparirà allora come “un segno levato sulle nazioni” (155), come “la luce del mondo” (Mt 5,14) e “il sale della terra” (Mt 5,13)».

In un tempo come il nostro in cui si parla di nuova evangelizzazione non possiamo che partire da questi richiami dell’ “Ad gentes” a condurre una vita cristianamente autentica come presupposto per un annuncio credibile del messaggio cristiano. Non possono non venire in mente le parole dell’esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi” (1975) in cui Paolo VI afferma«L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».

Infine un riferimento al dialogo ecumenico. Ricorre nel decreto l’importanza dell’unità dei cristiani in ordine all’annuncio del Vangelo, quasi a voler mettere in evidenza quella preghiera di Gesù «perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21).




Gesù e la sua passione

augias_masu-k09-U10601442744937THF-428x240@LaStampa.itdi Stefano Tarocchi Corrado Augias in Le ultime diciotto ore di Gesù (Einaudi, Torino 2015) crea un lungo racconto romanzato sulla passione di Cristo, ma non riesce ad uscire dal suo ruolo di giornalista: è evidente che gli piace indugiare nello spiegare quello che narra, facendo a meno delle fonti (anche se vedremo che delle fonti esistono eccome) ed usando spesso il suo istinto come fonte. Questo, in sintesi, il percorso della sua “analisi”.

Nella narrazione, troviamo colte citazioni da Orazio a Cicerone al Qoelet (o Koheleth): la chiave per capire con gli occhi dello scrittore che apparentemente descrive le «ultime diciotto ore» della vita di Gesù ma rimane affascinato da tutto il complesso universo in cui il racconto si svolge. Salvo poi creare dialoghi dal vago genere filosofico, come quello tra la moglie di Pilato e Lucilio, o introdurre sul genere flash-back testimonianze dei protagonisti o sue personali digressioni, dal sapore fortemente didascalico. Si aggiunge a tutto questo qualche rapida incursione in scene pruriginose, in pendant con la pornografia della violenza e del sangue cara a certe letture della passione, fondamentalmente estranee per chi conosce e legge i Vangeli canonici. Descrizioni romanzate di costume di Augias, che strizza l’occhio al lettore, dei corrotti e corruttibili funzionari romani e delle loro debolezze anche fisiche?

Evidentemente il film di Gibson sulla passione, col suo irrefrenabile bisogno di mostrare sangue e violenza, gli appare una specie di faro di sapienza a confronto della sobrietà dei Vangeli circa gli eventi drammatici che precedono la morte di Gesù. Gli stessi Vangeli canonici, secondo Augias, sono: 1) testi al servizio di un’ideologia e non di una biografia, sia pure apologetica, anche se, aggiunge, molti considerano attendibili quei testi, ricavando un senso di rassicurazione e di speranza – concede con indulgenza – sono solo «testi edificanti»; 2) testi che sono frutto della fede più che della storia; 3) nessuno dei testi è stato scritto da testimoni diretti dei fatti. Gli scritti di Matteo, Marco, Luca e Giovanni sono sempre di parte: si intende, dalla parte dei Romani, secondo Augias. Gli è evidentemente più gradito e più consono il Vangelo gnostico di Tommaso.

Augias anche si comporta quasi da navigato esegeta, quando spiega il termine greco ptochòs, «povero», lascia tuttavia (un lapsus?) che il suo lettore creda che la Pasqua dell’anno 33 si svolga il giorno stesso della morte di Gesù – che invece, come scrive Giovanni, è il giorno dopo la sua morte –, e il sommo sacerdote Caifa, ritratto con la prudenza melliflua di un funzionario di polizia d’altri tempi, possa usare nel suo resoconto da romanzo d’appendice sul processo a Gesù, termini come plenum per riferirsi all’assemblea del Sinedrio (765).

Quando, quasi per caso, cita per la prima volta Gesù nella nostra lingua (328) ciò avviene attraverso gli occhi di Pilato. Prima aveva usato la traslitterazione della lingua ebraica: Joshua ben Joseph ha-Nozri (63: la numerazione è quella dell’edizione ebook), poi solamente Joshua (375), che vive con il padre Joseph, naturalmente «falegname», anche se Augias parla di un «carpentiere», con quattro figli e due figlie, che vive con Myriam, naturalmente Maria e quello che lo scrittore chiama il segreto di lei: ogni rimando al racconto del vangelo di Matteo (o tantomeno di Luca) non viene neanche preso in considerazione, ma si sa questi sono i Vangeli dei semplici, che gli intellettuali guardano con sufficienza…

Pilato evidentemente dev’essere molto caro ad Augias, tanto che il lettore, talora, non distingue il pensiero dell’uno dalla descrizione dell’altro. È così che Pilato, secondo Augias, emette una sentenza di morte in base a valutazioni complesse: secondo Filone (Legatio ad Gaium) emerge di lui «la corruttibilità e la violenza, l’insopportabile crudeltà» (quest’ultima, secondo lo scrittore, lo avvicina ad Erode, ed in particolare, alla strage degl’innocenti), mentre i Vangeli, scrive ancora, dipingono Pilato «nobilmente lacerato» (?!). Caifa è perfidamente rappresentato nell’«impedire che i Romani mandassero sull’atroce patibolo della croce un ebreo… così amato dal popolo… e tentare in extremis di salvarlo» (altra espressione latina: 765!).

Quindi lo scrittore inframezza con divagazioni quello che poteva essere un saggio di indagine storica (cf. ad esempio, Willibald Bösen, L’ultimo giorno di Gesù di Nazaret, Elledici, Leumann (TO) 2007) e diventa invece un pamphlet. Così Augias ha di fatto creato la sua fiction, termine che, sottolinea egli stesso, deriva dal sostantivo latino fictio e dal verbo latino fingere. Per questo l’idea di fiction, cara all’autore, gli offre numerosi significati utili alla descrizione di quanto va scrivendo: “figurarsi”, “immaginare”, “supporre”, “ipotizzare” (97). E Augias fa proprio così, mescolando sapientemente le fonti, a seconda delle sue preferenze e dei suoi gusti, che richiama al termine del libro: da Bulgakov a Giuseppe Flavio, da Hengel a Jeremias, da Lohse a Romano Penna, da Renan a Saramago, da Artemidoro a Lucrezio, da Vito Mancuso a Remo Cacitti a Mauro Pesce e Marco Vannini.

Va riconosciuto che, come è suo solito, è capace di farsi leggere, cosa non da poco. Ma il risultato, a mio avviso, rimane sempre inadeguato di fronte alla grandezza del tema, e, sebbene indubbiamente affascinato dal Cristo, l’autore rimane avviluppato in una indomabile ambiguità.




Sulla riforma del Credito Cooperativo

cerutti3-239x300di Leonardo Salutati ‍• Il Credito cooperativo in Italia registra un patrimonio di 376 Banche di credito cooperativo, tra le più patrimonializzate del sistema. Opera in 2.700 comuni e in 570 di essi è l’unica presenza bancaria. Registra 4.400 sportelli e 37mila addetti. Dà credito ed ascolto ad oltre 7 milioni di clienti favorendo al tempo stesso educazione finanziaria (uso responsabile del denaro) ed inclusione sociale. Con un milione abbondante di soci, principalmente piccoli operatori d’impresa e famiglie, 163 miliardi di risparmio italiano intermediato, 135 miliardi di credito all’economia italiana, rappresenta un decimo del sistema bancario nazionale, diffuso orizzontalmente e capillarmente in tutti i territori.

È uno dei più grandi “corpi intermedi” della società italiana, vecchio quasi quanto lo Stato unitario e depositario di forti valori economico-sociali come la mutualità e la sussidiarietà: fra persone, fra imprese, fra comunità e territori. In tutte le regioni, nessuna esclusa.

La cooperazione è una realtà che è sempre stata al centro delle attenzioni del Magistero sociale della Chiesa che l’ha sempre favorita e promossa, se non addirittura originata, a cominciare da Leone XIII fino a Paolo VI, Benedetto XVI e lo stesso Papa Francesco che, recentemente, incontrando il personale della Banca di Credito Cooperativo di Roma, ricordava come: «Alle origini di molte di esse (le cooperative) ci sono dei sacerdoti, dei fedeli laici impegnati, delle comunità animate dallo spirito di solidarietà cristiana». E se la prima Cassa Rurale italiana viene costituita nel 1883 a Loreggia, in provincia di Padova, a opera di Leone Wollemborg, sul modello di quanto già era nato in Germania favorito da motivazioni etiche di ispirazione cristiana, sarà un giovane sacerdote, don Luigi Cerutti, nel 1890 a fondare a Gambarare, in provincia di Venezia, la prima Cassa Rurale Cattolica. Nel 1891 l’enciclica “Rerum Novarum” di papa Leone XIII, sollecitando i cattolici all’azione sociale, a forme di tipo solidaristico per vincere la solitudine dei più poveri, diviene il manifesto dell’ampio, diffuso movimento cooperativo cattolico. Da quel momento in poi, l’opera delle Casse entra ufficialmente nel campo cattolico nell’intento anche di rispondere alla necessità registrata da Rerum Novarum di contrastare l’usura divoratrice. Nel contempo l’economista cattolico Giuseppe Toniolo legittima, su base scientifica, il fatto che all’interno dell’unità produttiva il capitale si ponga al servizio del lavoro.

In occasione dell’incontro sopra menzionato, papa Francesco ha incoraggiato il credito cooperativo a continuare a contribuire alla promozione della società italiana richiamando l’azione, realmente importante, della cooperazione che, nel tempo, ha favorito lo sviluppo della parte più debole delle comunità locali e della società civile, pensando soprattutto ai giovani senza lavoro e puntando alla nascita di nuove imprese cooperative; ha promosso nuove soluzioni di welfare, a partire dal campo della sanità; si è preoccupata di mantenere al centro la dignità e il valore delle persone nel rapporto tra l’economia e la giustizia sociale, favorendo un uso solidale e sociale del denaro; ha supportato la vita delle famiglie attraverso soluzioni cooperative e mutualistiche per la gestione dei beni comuni, nella convinzione che questi non possono diventare proprietà di pochi né oggetto di speculazione; ha favorito “l’economia dell’onestà”, unico baluardo efficace contro la corruzione.

Questa eredità induce a guardare con attenzione alla riforma, ormai in dirittura di arrivo, del credito cooperativo, “raccomandata” dall’Unione Europea al Governo italiano per il 2015, al quale è stato chiesto di rivedere e reinventare la storica autonomia delle singole Banche di Credito Cooperativo, per prevenire rischi di singole crisi, inevitabilmente più alti oggi con aziende di piccola dimensione e talora troppo solitarie nel governo societario. L’Esecutivo italiano, alla luce della regolamentazione dell’Unione Europea che continua a rispettare il credito cooperativo come unica eccezione complementare al modello-base di banca impresa orientata al profitto, ha scelto di non imporre autoritativamente il cambiamento alle Bcc. Infatti, diversamente da quanto invece è avvenuto per le grandi Banche Popolari obbligate a trasformarsi in Spa, il Governo ha lasciato spazio al confronto operativo in vista della riforma fra le Bcc e la loro Federazione e la Banca d’Italia, che ha potuto esercitare appieno i poteri di supervisione domestica, lasciati dall’Unione bancaria alle authority nazionali, con l’obiettivo dichiarato che le banche di credito cooperativo possano continuare a sostenere territori e comunità locali preservando lo spirito mutualistico che le contraddistingue.

È un esempio di come l’ispirazione del Magistero sociale della Chiesa possa incidere nella società, radicandosi in uno degli ambiti tra i più importanti della vita quotidiana, per portare frutti di solidarietà e giustizia.




La “buona scuola“ e l’umanesimo incompiuto o negato

scuola21di Antonio Lovascio Non sappiamo quanto il mondo della scuola stia seguendo la grande e corale riflessione sul “Nuovo Umanesimo”, tema del Convegno nazionale CEI del prossimo novembre. Eppure è stato chiamato ripetutamente in causa nel confronto che è in corso tra cattolici e laici sull’uomo di oggi: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa soltanto centro di ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione di ogni realtà. Come aveva intuito Paolo VI e come successivamente più volte hanno messo in guardia – prima di Papa Francesco – Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e , nel 1986, il poeta Mario Luzi in una memorabile meditazione fiorentina. L’urgenza di una missione educativa più incisiva viene evocata ripetutamente. Perché c’è bisogno di maggiore competenza e professionalità e meno pressappochismo. ” Occorre distruggere la voglia di percorrere scorciatoie, essendo in questo l’Italia ancora da premio Oscar”, come ha sottolineato nei giorni scorsi monsignor Nunzio Galantino.

La scuola, come la Chiesa, è stata sollecitata a dare risposte, e in particolare ad offrire il suo contributo per invertire la rotta di marcia di tanti “umanesimi negati” (come sono oggi il lavoro, la casa, il rifiuto dell’accoglienza a chi fugge dalle guerre) oppure di un “umanesimo incompiuto” , che nel Novecento ha fatto emergere simboli brutali come i campi di concentramento, i lager ed i gulag; negando il principio universale che l’uomo costituisce in sé un valore; un’idea che è propria della civiltà europea, e non è condivisa da tutte le culture.

Serve un nuovo umanesimo perché quello storico (nato a Firenze mettendo insieme il retaggio classico, greco-romano, con il cristianesimo) è stato contaminato nelle epoche successive, con una concezione autonomista dell’uomo che è diventata semplice umanitarismo, oppure nel secolo scorso ha prodotto gli orrori che abbiamo appena ricordato. Oggi pone sempre più l’accento sui diritti personali , e non sa più indicare le pratiche per una vita buona. Così – come va ripetendo nelle sue conferenze in giro per l’Italia il vice presidente della Cei monsignor Franco Giulio Brambilla – “l’individuo è un re nudo, un sovrano senza regno: il nuovo umanesimo deve invece ribadire che l’uomo è creato per il dialogo”. Ma per apprestarsi ad un quotidiano confronto deve essere culturalmente preparato, deve avere adeguate conoscenze umanistiche e non solo una preparazione scientifica.

La Riforma di Renzi e del ministro Giannini è in grado di darle? Solo il tempo potrà dirlo, ma intanto tra Presidi e insegnanti – superata la brutta fase della conflittualità e del precariato – deve essere ripensata una nuova “mission”. In un contesto sociale dove la globalizzazione tende ad inghiottire tutte le differenze, suscitando per reazione la violenza cieca dei fondamentalismi, la scuola con la famiglia è il luogo strategico per la formazione delle giovani generazioni; in essa prendono forma elementi fondamentali della vita delle persone, che contribuiscono a plasmare la stessa vita sociale. La “Buona scuola” deve in primo luogo tornare ad essere spazio di crescita nella conoscenza, sviluppando progressivamente un’apertura al reale, nella varietà delle sue dimensioni. Sono infatti le aule il primo ambito in cui impariamo a conoscere tante realtà, che vanno aldilà della nostra esperienza quotidiana, avviando un percorso che ci condurrà via via ad incontrare forme di pensiero sempre più articolate. È nella scuola che impariamo a cogliere la ricchezza culturale sviluppata dall’umanità, le tante testimonianze della nostra singolare creatività. È nella scuola che impariamo ad esprimerci, diventando noi stessi – in misura diversa – creativi produttori di cultura. Se vuole conservare il suo ruolo formativo e contribuire a superare ” la condizione perversa”, in cui “annegano le differenze e la personalità si frammenta nel gioco incessante delle esperienze” – sono recenti “richiami” della CEI – “bisogna che la scuola riscopra la sua funzione educativa e bisogna che la proposta, da chiunque venga, abbia una sua identità precisa”. Dal punto di vista pedagogico “è indispensabile che allo studente venga offerta una proposta da assumere come punto di riferimento e che, contestualmente, gli vengano offerti gli strumenti critici per testarne la validità”.

Perché tutto ciò diventi storia quotidiana, che contribuisce alla crescita dell’umano, è necessario che la ricchezza di contenuti che caratterizza ogni insegnamento venga presentata con padronanza, in tutta la sua specificità, per essere accolta come espressione di uno sguardo significativo sull’uomo e sul mondo. Ogni scuola deve quindi essere protagonista nella costruzione del “Nuovo Umanesimo”. E per farlo deve operare in modo efficace e sinergico con le famiglie che le affidano i figli, vivendo come una comunità formata da molteplici figure.

Politici, presidi, insegnanti e genitori forse dovrebbero andare a rileggere la magistrale allocuzione con cui Papa Montini chiuse il Concilio Vaticano II, quando – rivolgendosi agli “umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme” – chiedeva di riconoscere “il nostro nuovo umanesimo: anche noi, più di tutti, siamo i cultori dell’uomo”. Di fronte alla pretesa fallimentare di fare i conti col significato della propria vita con la sola ragione, la Chiesa ripropone la fede in Gesù di Nazareth. Nella certezza che come aveva ricordato il Concilio: «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo». O per dirla con le parole di Luzi: «Dove non può giungere l’umanesimo può giungere l’amore nella sua specie più alta e gratuita di carità, che forse dell’umanesimo è la cima svettante».




Una teologia “personale”

Ucadi Alessandro Clemenzia In certi ambienti sembra essere fuori luogo attribuire al magistero di Papa Francesco l’aggettivo di “teologico”; molti invece sembrano essere d’accordo nel ritenere il suo pontificato “pastorale”, volendo sottolineare in tal modo più la semplicità dei suoi gesti, che la profondità intellettuale. Tale visione della realtà aleggia sia tra le così chiamate “persone comuni”, sia tra diversi accademici che si muovono spesso nel tentativo di offrire ai pronunciamenti del Papa una fondatezza teologica, non considerando che essa è già presente.

Tale separazione fra dimensione “teologica” e “pastorale” si fa sentire anche in un altro ambito della riflessione. Non di rado, infatti, la denominazione applicata al Vaticano II di essere un “Concilio pastorale” ha fatto nascere da diverse parti il dubbio che non si trattasse effettivamente di un evento teologico (e per questo è considerato di “serie B”). Nell’uno o nell’altro caso, l’elemento teologico e quello pastorale sembrano contrapporsi radicalmente.

Per venire fuori da tale modo di pensare, Papa Francesco offre delle coordinate con l’intento non di far cambiare idea su questioni specifiche, ma di far recuperare quella dimensione d’insieme, in assenza della quale tutto, e il suo contrario, può essere dogmatizzato a personale piacimento. Già Benedetto XVI, in diversi pronunciamenti, aveva evidenziato l’infondatezza di una contraddizione fra il “teologico” e il “pastorale”: ma anche in quel caso si è proseguito nel convincimento contrario.

Indiscutibilmente prezioso a tale proposito è il videomessaggio che Francesco ha inviato al Congresso Internazionale di Teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina, lo scorso 4 settembre. Egli ha contestualizzato e “vincolato” la celebrazione dei cento anni della Facoltà Teologica all’anniversario della chiusura del Vaticano II. Per comprendere l’uno, è necessario far memoria dell’altro: il primo vuole «celebrare il processo di maturazione di una Chiesa particolare»; il secondo spiega la Chiesa nella sua universalità. Da qui si deduce un fondamentale principio ecclesiologico: «La cattolicità esige, chiede questa polarità tensionale tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il multiplo, tra il semplice e il complesso». In poche battute e con semplicità, il Papa ha spiegato un tema di grande rilievo.

Non è tuttavia solo questa polarità tensionale tra universale e particolare ad essere messa in luce, ma anche quella fra Tradizione ecclesiale e realtà attuale; e in quest’ambito Francesco fa entrare in gioco il ruolo del teologo, per far dialogare tra loro dei poli apparentemente opposti.

Questa antinomia fra universale e particolare, fra Tradizione ecclesiale e realtà attuale, scivola, a sua volta, sul binomio: teologia e pastorale. Questa opposizione scaturisce da una falsa identificazione di «dottrinale con conservatore, retrogrado», e di pastorale con “adattamento”, “riduzione”, “accomodamento”. Così «si genera una falsa opposizione tra la teologia e la pastorale; tra la riflessione credente e la vita credente». E questa comprensione sul piano ecclesiale ha delle ripercussioni anche su un livello esistenziale: «La vita, allora, non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio nella vita».

La questione è decisiva: una teologia, sganciata dall’esperienza, «rischia di diventare ideologia». Senza cadere nell’astratto, il Pontefice parte da alcune domande concrete che ogni teologo dovrebbe porsi nel suo teologare: «A chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti?».

Al di là del richiamo esplicito a non intendere la ricerca o l’insegnamento come un “travasamento concettuale” da un vaso più pieno ad uno meno, il prendere coscienza che il linguaggio e la riflessione assumono la forma a partire dall’interlocutore significa affermare che la teologia dovrebbe essere di per sé già un atto pastorale e di trasmissione pastorale, in quanto il teologo non solo comunica vivendo, ma comunica la propria vita.

Il grande rischio però, nell’interpretare il videomessaggio del Papa, è quello di rimanere su un piano astratto, non legato alla vita reale: come, ad esempio, se si finisse per parlare in generale del rapporto tra teologia e vita, o tra teologo e Popolo di Dio. Per comprendere la portata del discorso, bisognerebbe che ogni teologo o docente di teologia pensasse al contenuto della propria disciplina partendo dal volto concreto di chi ha davanti, non soltanto per cercare di offrire nel modo migliore la maggior quantità di nozioni, ma perché ciò che egli trasmette deve provenire dall’esperienza di chi lo riceve. L’insegnamento teologico è quasi la restituzione, in una forma accademicamente e scientificamente efficace, di una realtà esperienziale che trova negli interlocutori la sua provenienza originaria, altrimenti è solo autoreferenzialità.

Papa Francesco, nei suoi pronunciamenti, non chiede di “fare qualcosa” di diverso o in più, ma di avere uno sguardo diverso e nuovo verso la realtà in cui già si è. Molto spesso invece si fa una teologia dell’utilizzo e della citazione di frasi che maggiormente corrispondono alla propria sensibilità o all’opportunità della circostanza, senza farsi realmente provocare.




Il diritto come processo di umanizzazione della tecnologia

imagesdi Francesco Romano • Benedetto XVI scrive nell’enciclica Caritas in veritate: “La tecnica è l’aspetto oggettivo dell’essere umano, la cui origine e ragion d’essere sta nell’elemento soggettivo: l’uomo che opera. Per questo la tecnica non è mai solo tecnica […]. Lo sviluppo tecnologico può indurre l’idea dell’autosufficienza della tecnica quando l’uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire. E’ per questo che la tecnica assume un volto ambiguo. Nata dalla creatività umana quale strumento della libertà della persona, essa può essere intesa come elemento di libertà assoluta, quella libertà che vuole prescindere dai limiti che le cose portano in sé. Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità” (Caritas in veritate: nn. 69 e 70)

Questo riferimento di Benedetto XVI alla capacità della tecnologia di incidere sull’ambiente nel suo insieme – noi potremmo parlare di ecologia o ecosistema, senza esclusione della persona umana – ci porta a riflettere se si possa andare oltre a una stretta analogia con il diritto inteso anch’esso in modo sbrigativo come un sistema di regole, per scorgervi la capacità di guardare all’uomo in quanto soggetto che deve realizzare il senso della sua umanità.

E’ vero, la tecnica è l’applicazione di un complesso di regole fatte interagire dall’ingegno umano che rendono operative determinate leggi che lo scienziato riesce a scoprire in natura. Anche il diritto inteso in senso riduttivo può correre il rischio di essere declassato a livello di tecnica nel momento in cui assume determinate forme di legislazione o di regolamento, per esempio nell’organizzazione dello stato, di circoscrizioni, di strutture ecc. magari preoccupandosi più del loro funzionamento che del bene legato alla persona umana.

Il discrimine è segnato dall’individuazione dell’ambito d’intervento che l’uomo deve avere sia come legislatore che come scienziato sulle realtà umane, soprattutto per quanto attiene all’ambiente, alla salute, allo sviluppo economico e sociale ecc.

Quando l’uomo si interroga solo sul “come” e non sui tanti “perché” dai quali è spinto ad agire, si va affermando il primato della tecnica e il suo dominio sul mondo. In questo modo la legge verrebbe a perdere la sua finalità assumendo una funzione ancillare per porsi al servizio della tecnica nel renderla concretamente possibile nella sua applicazione.

La possibilità tecnica non può coincidere in modo assoluto con la possibilità legale perché esiste uno snodo etico che non può essere aggirato. Ciò che tecnicamente è possibile fare non sempre è lecito attuare. Nel mondo si è diffusa la sensibilità per la tutela dell’ambiente di fronte alla capacità distruttiva dell’uomo nel raffinare le varie tecnologie che vanno a incidere in maniera deleteria sull’ecosistema. Pensiamo al disboscamento, alla produzione di scorie radioattive, all’inquinamento industriale, con un danno immane da far prevedere che potrebbero occorrere anche centinaia di anni per riparare al danno causato alla salubrità dell’ambiente, in particolare del terreno, delle falde acquifere ecc.

Se il diritto si riduce anch’esso a pura tecnicalità tutto diventa possibile in modo nefasto. A questo punto il pensiero corre subito alle biotecnologie nel cui ambito non si è affermata una pari sensibilità sugli effetti che produce il loro intervento sull’uomo, vuoi per una differente visione antropologica, filosofica o religiosa a partire con tutta evidenza dal concepimento umano visto solo come materiale organico. Alcuni esempi sono dati dall’applicazione delle varie tecniche che rendono possibile la riproduzione umana, oppure ciò che riguarda l’uso delle cellule staminali e degli embrioni, le manipolazioni genetiche, il fine vita ecc. Il diritto visto come una tecnica operativa verrebbe a porsi al servizio della tecnologia che rifiuta ogni limite trasformando tutto in lecita possibilità.

A differenza delle regole tecnologiche che si occupano di oggetti e del loro funzionamento, il diritto deve essere visto anche nella sua dimensione metagiuridica, ovvero che sa riconoscere il senso che precede il suo intervento, la persona vista come soggetto. Il senso che precede il diritto ha il suo fondamento nel diritto naturale o, comunque, nei diritti della persona riconosciuti dal comune sentire come inviolabili. Partendo dal senso della persona, il diritto diventa così un processo di umanizzazione della tecnica e questo può avvenire se, come si esprime Benedetto XVI nell’enciclica sopra menzionata, l’uomo prima di interrogarsi sul come, considera i tanti perché che lo spingono ad agire.

Partendo dall’uomo, dai suoi bisogni primari e dalla realizzazione delle sue finalità, si dà senso alle cose e alle tecnologie, il “come” funziona diventa subordinato al “perché”. Ecco la ragione per cui il diritto si distingue da una semplice tecnica, cioè da un codice fatto di regole operative, dal momento che presuppone un senso inalienabile, anteriore alle cose stesse. Ne discende che anche la tecnica può avere un senso, non in se stessa, ma solo se vista in funzione dell’uomo.

La tecnica che incide sull’uomo, guardando solo al “come” funziona, senza cercare di scorgere il senso e senza porsi la domanda del “perché”, senza rinviare alla persona come criterio di interpretazione, finirebbe per deprivarlo della sua umanità rendendolo una cosa e non un soggetto. Questa è la differenza sostanziale: la tecnica ha per oggetto le cose e le regole del loro funzionamento, il diritto istituisce soggetti e rinvia ad essi per decidere il senso di una cosa o di un’azione.

Se il diritto divenisse subordinato alla tecnologia si cadrebbe in una società tecnocratica fatta di uomini che decidono su altri uomini declassati a cose, cioè ridotti a essere oggetto di una tecnica che non trova il suo vero senso. “Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicista da far coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato”, ci ricorda Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, n.70.




Tre Seminari per un Convegno.

logo_facoltadi Gianni Cioli Nel corso del 2015 la Facoltà teologica dell’Italia centrale (www.teofir.it) ha voluto contribuire alla preparazione del Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze organizzando due Seminari di studio dedicati a questioni concernenti l’umanesimo e pubblicandone parzialmente gli Atti nella sua rivista, Vivens homo, EDB (http://www.dehoniane.it/control/vivenshomo), che da oltre 25 anni riserva una particolare attenzione a tematiche di antropologia teologica e umanistiche.

Il primo Seminario, curato dal Dipartimento di filosofia della Facoltà e intitolato Cultura dei diritti e dignità della persona, si è tenuto il pomeriggio del 10 aprile in Palazzo Vecchio e si è incentrato intorno alle relazioni del prof. Mario Micheletti (La situazione paradossale della filosofia di fronte ai diritti umani, oggi) e del prof. Hans Joas (Schiavitù e tortura in una prospettiva globale), entrambe pubblicate in Vivens homo con una introduzione del prof. Damiano Bondi.

Successivamente il Dipartimento di Teologia Dogmatica, nell’aula magna della Facoltà, ha dedicato la giornata del 20 maggio ad un Seminario sul tema: In Cristo l’uomo nuovo. Al mattino hanno parlato prima i professori Sergio Givone (La questione dell’umanesimo oggi. Breve riflessione introduttiva) e Luca Mazzinghi («Che cosa mai è l’uomo?»: una riflessione biblica), quindi i professori Piero Coda (Fin dove arriva l’umano in Gesù Cristo? Per un’esperienza nuova dell’interiorità e dell’alterità) e Basilio Petrà (In Cristo, l’uomo «futuro»); nel pomeriggio poi numerosi gruppi di studio hanno permesso agli studenti di riflettere insieme su varie tematiche antropologiche di attuale interesse (Dimensione neotestamentaria sul tema in prospettiva sinottica, giovannea e paolina; Teologia della creazione; Spiritualità; Individuo/collettività, lavoro, economia; Questioni di genere: identità sessuata tra natura e cultura; Identità/società fra dimensione filosofica e sociologica; Teologia e Neuroscienze). Gli interventi del mattino, con una introduzione dei professori Angelo Pellegrini e Alessandro Clemenzia, e una parte di quelli del pomeriggio sono stati a loro volta riportati nella rivista della Facoltà.

Per raggiungere il maggior numero di persone potenzialmente interessate si è pensato di rendere disponibile on line, sul sito web del Convegno, il numero Vivens homo con la pubblicazione degli Atti dei seminari (http://www.firenze2015.it/cultura-dei-diritti-e-dignita-della-persona-in-cristo-luomo-nuovo/). «La valutazione dei contributi offerti», come ha scritto il prof. Basilio Petrà nell’editoriale, «è affidata naturalmente ai lettori. La speranza di chi li offre è che essi possano aiutare a meglio comprendere l’uomo e le radici divine del suo avventuroso mistero, giacché egli è quella creatura che solo esistendo nel modo di Dio può compiersi in pienezza» (Vivens homo 26(2015), 304).

Una prima serie di contributi in vista del Convegno del novembre 2015 era già stata proposta nel Seminario organizzato del dipartimento di Teologia pratica della Facoltà, dal 29 al 30 settembre 2014, sul tema Tra ideale e reale: il difficile luogo dell’etica, «con l’intento di elaborare una riflessione etica capace di includere il rispetto del principio di realtà senza rinunciare alla forza dinamica e perfettiva dell’ideale» (Ibid., 303). Nel primo numero di Vivens homo del 2015 (purtroppo non disponibile on line) sono stati pubblicati gli interventi sul tema di Basilio Petrà (Tra ideale e realtà. Riflessioni e considerazioni sul luogo dell’etica); Gianni Cioli (Il compromesso. Problematicità e attualità di un tema etico-teologico); Serena Noceti su (Gerarchia delle verità. Interrogativi e suggestioni dal dialogo ecumenico.); Carlo Nardi (L’ultimo Crisostomo a confronto con l’omosessualità. Esistere come amanti ed amati), Diego Pancaldo (Il puro e l’impuro. A proposito di un saggio di Jean Guitton); Maurizio Faggioni (Il male minore e il bene possibile) e Andrea Drigani (Le leggi imperfette).




La polifonia della teologia medievale

zzzzptrblrddi Francesco Vermigli • Un buon conoscitore del pensiero medievale si sarà imbattuto almeno una volta in alcune categorie che la storiografia ha elaborato, allo scopo di render conto delle varie linee teologiche di quel periodo. Ad esempio, si è soliti parlare di “teologia monastica” – che, iniziata prima della Scolastica, l’avrebbe poi affiancata, in alternativa ad essa – o di “teologia delle scuole”, che invece avrebbe rivestito il ruolo di una sorta di preparazione della grande riflessione scolastica. La prima formula ha avuto una storia fortunata, essendo stata divulgata da un grande esperto del monachesimo occidentale, il benedettino dom Jean Leclercq. La seconda è usata per descrivere la teologia delle scuole cattedrali, che si formarono nel corso dell’XI e del XII sec.

Ma cosa verrebbe a distinguere la teologia dei chiostri da quella delle cattedrali, nel periodo precedente alla Scolastica? Le due tipologie teologiche, avrebbero conosciuto diverse fonti, diversi metodi e diversi scopi del sapere teologico. Diverse fonti, perché – mentre la teologia delle scuole verrebbe a poggiarsi anche sulle auctoritates filosofiche (per il XII secolo in modo particolare quelle platoniche) – quella monastica non farebbe che abbeverarsi ai dati della rivelazione cristiana. Diversi metodi, perché da un lato la teologia delle scuole erediterebbe dalla dialettica tecniche di argomentazione del tutto speciali, dall’altro quella monastica riterrebbe che non si dia un sapere teologico, se non in costante osmosi con la preghiera. Diversi scopi, infine, perché, mentre della teologia delle cattedrali è la preoccupazione per il progresso della conoscenza, di quella dei chiostri sarebbe la tensione per la crescita nella vita spirituale. Come accade sempre, queste classificazioni così sicure vengono – se non smentite – almeno messe ampiamente in discussione dalla realtà.

I casi della vita mi hanno condotto ad occuparci di due autori vissuti entro la metà del XII sec., che paiono essere i rappresentanti emblematici delle due linee teologiche prese in considerazione: da un lato Pietro Abelardo (morto nel 1142) il magister per eccellenza delle scuole cattedrali di quel secolo; dall’altro Guglielmo abate benedettino di Saint-Thierry, poi monaco cisterciense a Signy (morto nel 1147 o 1148), che raccoglie nella propria biografia tutte le dinamiche del monachesimo occidentale in cerca di riforma. A ben vedere, però, questa appartenenza a due mondi che nella vulgata sembrano incomunicabili, non pare davvero così ben definita. Abelardo fu, sì, all’epoca il maestro di scuola di maggior successo, ma le sue vicende biografiche lo portarono al ritiro monastico, fino alla convinta promozione della vita religiosa femminile. Guglielmo è, certo, il rappresentante più significativo delle grandi tensioni che scossero il monachesimo nel XII sec., ma lui stesso in giovinezza frequentò una delle più rilevanti scuole cattedrali dell’epoca, quella di Reims.

Ma non solo perché le loro rispettive biografie ci attestano una realtà assai sfaccetata, pare opportuno prendere queste classificazioni storiografiche con beneficio d’inventario. C’è anche una ragione più profonda – quella che riguarda i loro pensieri teologici – a condurci a smentire, se non addirittura a ribaltare la prospettiva con cui dobbiamo guardare ai nostri due autori. È vero che Abelardo ha conoscenza dialettiche assai radicate – forse superiori a tutti gli altri dialettici della sua epoca – ma quando si tratta di fare theologia (lui che ha divulgato per la prima volta nel pensiero occidentale questo termine) dichiara che c’è bisogno di un modo diverso di pensare e di parlare; perché ora l’oggetto della riflessione non sono più le cose di questo mondo, ma ciò che travalica questo mondo, essendo all’origine di esso. Ed è vero che Guglielmo fa teologia a partire dalla sua vita spirituale, ma l’impianto del pensiero lo conduce paradossalmente a relativizzare la concretezza storica della salvezza cristiana; a scorno dell’abituale visione che vorrebbe astratta la teologia delle scuole e connotata da tratti storico-salvifici quella monastica.

Cosa dire, allora? Bisogna continuare a vedere l’utilità di queste grandi categorie, offerte dalla critica per muoversi in maniera il più possibile ordinata all’interno del mare magnum della teologia medievale: esse ci permettono di cogliere alcune linee comuni tra autori, filoni di pensiero e luoghi di diffusione del sapere. Alla prova della realtà, questa distinzione tende a sfrangiarsi e le caratteristiche di ciascuna linea teologica a sovrapporsi tra i vari autori; se non addirittura a invertirsi. Quello che possiamo affermare è che non c’è epoca storica in cui il pensiero cristiano si sia mostrato tanto “polifonico”, quanto quella medievale. È proprio delle parti che costituiscono una composizione polifonica muoversi in maniera autonoma nella melodia e nel ritmo; ma in un modo che garantisca, anzi persegua, l’armonia tra di esse. Così è anche del pensiro teologico medievale: fonti, metodi, scopi diversi, sì, ma tutti assieme tendenti alla migliore comprensione dell’unico mistero cristiano.




L’uomo oltre l’uomo. Una provocazione all’antropologia paralizzata

1343722391di Dario Chiapetti In L’uomo oltre l’uomo (EDB 2015) T. Tosolini affronta la questione delle contemporanee correnti di pensiero che passano sotto i nomi di Transumanesimo e Post-umano, cercando, attraverso una lettura critica alla luce del pensare cristiano, di metterne in rilievo i temi di fondo.

Risulta utile iniziare con una breve explicatio terminorum. Innanzitutto, le dizioni Transumanesimo e Post-umano si riferiscono a due movimenti di pensiero, così simili tra loro da poter essere intesi come sinonimi. L’Autore spiega che tale corrente, come l’ha descritta Max More, uno dei suoi massimi esponenti, “è sia una filosofia basata sulla ragione, che un movimento culturale che afferma la possibilità e il desiderio di migliorare in maniera sostanziale la condizione umana mediante la scienza e la tecnologia”.

Tale pensiero si muove in un’ottica evoluzionistica: non più quella biologica darwiniana, ma quella intenzionale, che riguarda cioè l’intelligenza. La cosmologia che sottostà a tali teorie concepisce il cosmo come un tutto in continuo divenire verso forme sempre più evolute di vita; e l’antropologia che ne risulta presenta l’uomo come l’essere più complesso di tutte le forme di vita, proprio in virtù della sua intelligenza; in tale visione, la corporeità umana altro non è che un ostacolo per tale evoluzione.

In virtù di questi presupposti filosofici, e grazie al ricorso alla tecnologia (intesa positivamente qua talis e svincolata da ogni principio religioso-morale che ne limiti o, anche solo, indirizzi l’attività), i transumanisti postulano l’oltre-uomo come quell’essere super-intelligente, autonomo e immortale che può rendersi tale attraverso il trasferimento della sua materia psichica, opportunamente trasformata in dati informatici, su supporti artificiali. L’obbiettivo da perseguire non è la felicità, ma il prolungamento della vita biologica.

Già in passato erano sorte visioni simili, ma con notevoli differenze.

Si pensi – scrive Tosolini – all’Übermensch di Nietzsche. Tale figura rappresenta, sì, un modello antropologico di superamento, che mira a realizzare la sua autosufficienza e l’affermazione della propria volontà di potenza, tuttavia, essa rappresenta anche quell’uomo che, non solo accetta il proprio fato, ma, addirittura, si slancia ad amarlo: è talmente potente da trasformare il ciò che è stato in ciò che voleva che fosse.

In ambito teologico è stato soprattutto Teilhard de Chardin a sviluppare un’antropologia sulla base di una visione evoluzionistica del creato, la quale, a sua volta, si fonda sul processo di cristificazione del cosmo. Tale evoluzione, che ha visto il succedersi delle fasi della geosfera, della biosfera e della noosfera, tende al Punto Omega, il Cristo cosmico. Se prima d’allora l’oggetto dell’evoluzione era la materia, ora invece è l’intelligenza: è essa a guidare lo sviluppo umano, inteso come avvicinamento al Punto Omega. Tale visione ha diversi punti in contatto con quella transumanista; si osservi, tuttavia, che per essa la realtà corporale non è un semplice dispositivo, e la morte riveste un valore positivo di trasformazione della realtà umana nella linea della sua evoluzione.

La questione presentata in questo testo è complessa e di grande rilevanza, e attorno ad essa si tenta ora di fare le seguenti riflessioni.

A livello metodologico occorre domandarsi quale sia lo status quaestionis, l’obiettivo da perseguire, e se tale obiettivo realizzi l’identità dell’oggetto in esame. Nel nostro caso, il vero problema è: cosa si intende per uomo?

A livello epistemologico, occorre valutare se prendere in considerazione il contributo del pensiero cristiano, e se considerarlo nel suo tenore rivelativo, senza cadere in letture bibliche viziate da eventuali schemi culturali che oscurano la novità evangelica, superando la contrapposizione tra “uomo della Bibbia” e “uomo nella realtà”.

In tale situazione, si ritiene, in primo luogo, che occorra sviluppare una seria ontologia della persona, in dialogo coi dati scritturistici ed empirici; in secondo luogo, che tale ontologia individui e sviluppi il dato antropologico, per molti qualificante: la relazionalità.

In tale prospettiva, l’intelligenza è strumento a servizio dello sviluppo dell’uomo nelle sue relazioni: il modello antropologico da assumere quindi sarà l’uomo escatologico, l’uomo-in-Cristo, l’uomo-relazionalità che già nel presente (seppur ancora incompiutamente) vive, e perciò necessita, di quelle evoluzioni che più lo “in-futurano” (espressione dantesca ripresa da B. Petrà), lo configurano come io-parusiaco, cioè io-ecclesiale (ecco riacquisito il valore positivo della scienza).

Il transumanesimo, da un lato, stimola la riflessione antropologica, tirandola fuori dalle paralisi di letture dogmatiche che non si lasciano più interrogare dalla realtà; dall’altro, deve comprendere che, solo a prima vista, esso guarda positivamente l’uomo; l’oltre-uomo è di fatto un soggetto amputato della sua relazionalità, grazie alla quale, sola, egli può compiere la sua identità.

Lo scotto da pagare per realizzare l’oltre-uomo è l’uomo stesso; ma non è questa una contraddizione in termini? Non sarà forse più convincente la logica dell’incarnazione che dice non abolizione ma trasfigurazione – i cui connotati sono ancora tanto da scoprire – dell’umano?




L’appartenenza alla Chiesa e altre appartenenze.

download (1)di Andrea Drigani La normativa canonica universale, sia quella della Chiesa latina che delle Chiese orientali cattoliche, ci ricorda che i «fedeli» sono coloro che hanno ricevuto il Battesimo e per questo sono incorporati a Cristo e costituiti in popolo di Dio (can.204 § 1 CIC; can.7 § 1 CCEO). Si rammenta, inoltre, che i «fedeli» sono tenuti all’obbligo di conservare sempre, anche nel loro modo di agire, la comunione con la Chiesa, adempiendo con grande diligenza i doveri cui sono tenuti sia nei confronti della Chiesa universale, sia nei confronti della Chiesa particolare alla quale appartengono (can.209 CIC; can.12 CCEO). Viene precisato, poi, che sono nella piena comunione della Chiesa cattolica quei battezzati che sono congiunti con Cristo nella sua compagine visibile, ossia mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico (can.205 CIC; can.8 CCEO). L’appartenenza è la partecipazione o la dipendenza attiva nei confronti di una comunità, gruppo, o associazione. Sorge una questione: chi fa parte della Chiesa, Corpo mistico di Cristo, può far parte di qualsivoglia altro corpo sociale? La domanda non attiene alle associazioni di «fedeli» che sono previste dalla legge ecclesiastica (cann.298-329 CIC; cann.573-583 CCEO), bensì alle associazioni esistenti nella società civile. Ogni associazione, da un punto di vista fenomenologico, si caratterizza oltre che per le finalità statutarie, da perseguire, anche dal vincolo di solidarietà tra i soci nonché dal proprio ordinamento gerarchico. Il legame associativo e l’organizzazione disciplinare interna hanno forme e gradualità assai diverse, in riferimento ad una minore o maggiore cogenza. La Costituzione della Repubblica Italiana all’art. 18 dichiara: «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopo politici mediante organizzazioni di carattere militare». Tre, dunque, sono i limiti che il Costituente pone al diritto di associazione: le finalità delittuose, la segretezza, l’azione paramilitare. Sulla segretezza, che contrasta con l’esigenza essenziale, in quanto connaturata all’assetto democratico, della pubblicità, è intervenuta la Legge 25 gennaio 1982 n.17 «Norme di attuazione dell’articolo 18 della Costituzione in materia di associazioni segrete e scioglimento della associazione denominata Loggia P2». Secondo questa Legge sono da considerarsi associazioni segrete «quelle che, anche all’interno di associazioni palesi, occultano la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali ovvero rendendo sconosciuti, in tutto o in parte ed anche reciprocamente, i soci, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici non economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale». La suprema autorità della Chiesa è intervenuta, più volte, sull’incompatibilità, da parte dei battezzati, di appartenere ad alcune associazioni. Si pensi alla Bolla «In eminenti» pubblicata il 28 aprile 1738 da Papa Clemente XII, alla quale sono poi seguiti, sullo stesso argomento, altri interventi pontifici. Nella Bolla «In eminenti» si prende atto dell’esistenza di società, circoli, assemblee generalmente col nome di massoni o sotto altra denominazione. In esse – scrive il Papa – uomini di tutte le religioni e sette si uniscono fra loro in uno stretto legame segreto secondo leggi ed usanze stabilite ed agiscono in pari tempo in comune, impegnandosi con un giuramento sulla Sacra Scrittura e sotto minaccia di gravi pene ad uno scrupoloso silenzio. Tenuto conto dei danni originati da tali associazioni non solo contro la pace dello Stato, ma anche contro la salvezza delle anime, il Papa comminava la scomunica per chi fosse iscritto a siffatte società o chi in qualunque modo le avesse favorite. La preoccupazione di Clemente XII non è rivolta soltanto alle teorie e ai riti delle società massoniche, che risultano essere una congerie di elementi illuministici ed esoterici completamente estranea alla dottrina cattolica, ma agli inquietanti vicoli di «osservanza» e di «fratellanza», ritenuti superiori all’obbedienza cristiana e alla carità verso tutti, aggravati, poi, dalla mancanza di avvertibilità sociale. La condanna di Clemente XII, reiterata dai suoi successori, fu inserita nel «Codex iuris canonici» del 1917, al can.2335, dove si prevedeva la scomunica per coloro che si iscrivevano alle sette massoniche o a qualsiasi genere di associazioni che macchinavano contro la Chiesa. Nel vigente «Codex iuris canonici», promulgato nel 1983, al can.1374 si stabilisce che colui che appartiene ad un’associazione che macchina contro la Chiesa sia punito con giusta pena. Come si può notare è scomparso l’esplicito riferimento alle logge massoniche, ma ciò è dovuto al criterio redazionale del «Codex» che ha scelto una dizione più ampia per includere tutte le associazioni che, sotto qualsiasi denominazione, macchinano contro la Chiesa, come del resto aveva già fatto Clemente XII. Ma oltre ai delitti canonici di chi aderisce ad associazioni, che cospirano contro la Chiesa o le cui dottrine portano all’apostasia o all’eresia (can.1364 § 1 CIC; can.1436 § 1 CCEO), vi può essere il grave peccato di chi obbedendo a vincoli pseudo-fraterni e pseudo-gerarchici viola la giustizia. Non si deve, infatti, mai dimenticare l’insegnamento di San Leone Magno: amare Dio è amare la giustizia.