Presentazione degli articoli del mese di dicembre 2018

downloadAndrea Drigani in compagnia di San Tommaso d’Aquino annota, dal Vangelo di San Giovanni, intorno alla Luce («Lumen»), cioè Gesù Cristo, che rivelandosi ha illuminato la vita di ogni essere umano. Giovanni Campanella recensisce la biografia di Rosaria Cascio su Padre Pino Pugliesi, dalla quale emerge una vita «ordinaria», che proprio per questo diviene «straordinaria». Gianni Cioli introduce alla recente Lettera della Conferenza Episcopale Toscana sulla comunicazione e l’informazione a cinquant’anni dalla morte di Don Lorenzo Milani. Mario Alexis Portella dopo un viaggio in Iraq, fa presente che la sconfitta dell’Isis non ha risolto i problemi delle minoranze cristiane in quelle terre, da qui la necessità che la comunità internazionale si impegni ulteriormente per l’effettiva garanzia dei loro diritti. Francesco Romano riflette sulla «consuetudine» un antico istituto proveniente dal diritto romano, negletto dai vigenti ordinamenti civili, che nel diritto canonico, invece, è segno dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa. Antonio Lovascio illustra una catechesi di Papa Francesco sul VII Comandamento del Decalogo («Non rubare») dove, tra l’altro, si è rammentato uno dei punti principali della dottrina cristiana: quello della destinazione universale dei beni. Dario Chiapetti ricorda, nel 60° anniversario della morte, il teologo russo Vladimir Losskij, in particolare per il suo ricorso ai Padri della Chiesa, all’approccio apofatico della teologia e all’idea di persona nel suo carattere ecclesiale. Francesco Vermigli dal Documento finale del Sinodo dei Vescovi sui giovani fa emergere l’importanza dell’accompagnamento e del discernimento per partire e camminare dopo aver scoperto la propria vocazione. Carlo Parenti rende noto che in Italia vi sono oltre 80 gruppi che si intitolano al Venerabile Giorgio La Pira, anche per promuoverne la devozione, nonché il loro incontro con Papa Francesco. Giovanni Pallanti fa memoria di un cileno cristiano: Bernardo Leighton, che per la fede si impegnò, con zelo e dedizione, nell’attività sociale e politica fin quasi al dono della vita. Stefano Tarocchi osserva che il cosiddetto dialogo tra Pilato e Gesù sulla «verità», mostra come tale argomento, ieri come oggi, non suscita molto interesse preferendo, purtroppo, rimanere nella menzogna o nell’illusione. Leonardo Salutati ripropone le indicazioni del magistero sociale della Chiesa sul commercio delle armi, risalenti al 1994, sempre reiterate in questi anni, ma con una recezione soltanto formale che impedisce un rigoroso controllo etico e politico di questo fenomeno. Alessandro Clemenzia col libro di Erio Castellucci, arcivescovo di Modena, indica l’identità cristiana come un’identità di relazione con Dio e con gli altri. Stefano Liccioli richiama l’attenzione sul volume di Stefano Lessi, dove tra l’altro, appare la ferma fede di Giorgio La Pira nella Resurrezione di Cristo che mosse tutta la sua esistenza. Carlo Nardi trae spunto dal racconto omerico di Crise, padre addolorato per la schiavitù della figlia che vuole liberare, per considerare la passione di un Dio che ha redento tutti («Christe, redemptor omnium»).




Una voce molto antica. Crise sacerdote

downloaddi Carlo Nardi • Una voce molto antica. Una storia, o meglio leggenda, verso ottavo secolo avanti Cristo. Un racconto personale che ancora ci raggiunge il cuore. Ci raggiunge Omero, il quale con l’Iliade ci ricorda i banchi di scuola, e le memorie grate e sofferte ad un tempo, e perciò sospirose. Proprio all’inizio, nel primo canto del poema ecco l’Iliade di guai: le cause dell’ira di Achille e il pianto d’un vecchio padre, circonfuso di un’aura sacrale. È Crise, sacerdote di Apollo, nume diffusore di luce e pertanto garante di giustizia. Il padre addolorato confida in quel dio per la figlia, schiava per effetto di una razzia, asservita alle tremende conseguenze. L’uomo non demorde. Si reca supplice nel campo greco. Va con la speranza di una libertà, impetra la liberazione: chiede il “farsi sciogliere” la fanciulla, e dona oro e argento a profusione. È amore di padre che fa il possibile mediante un “compenso” per un “riscatto”. È quello che Omero dice con ápoina: la parola greca dice il venir meno di una situazione di pena, la “cessazione della pena” per effetto appunto di un riscatto, in quel caso assolutamente rifiutato (Iliade 1,377. cf. 364-392).

La volontà di “sciogliere” la figlia dalla “pena” della schiavitù, volontà d’un babbo disperato con parole antiche e attuali, e universali, mi ha indotto, per associazione di idee, a pensare a Cristo Gesù nel suo battesimo, come immersione nella nostra “condizione di schiavi” (Fil 29), e pertanto nel peccato e nella morte. Difatti Giovanni il Battista indica il Signore quale “agnello di Dio che prende su di sé, si sobbarca e distrugge il peccato del mondo” (Gv 1,29). Gesù non dà qualcosa, seppur di prezioso come i doni di Crise, ma se stesso, dona il “corpo della sua carne” (Col 1,22; 2,11) col suo sangue, per riscattare, sciogliere, liberare.

Anche le lacrime accorate d’un padre pagano possono dirci qualcosa della passione di un Dio redentore, per di più “redentore di tutti” (redemptor omnim), come canta l’inno del Natale.




«Giorgio La Pira». La fede cambia la vita e la storia

download (5)di Stefano Liccioli • «In un momento in cui la complessità della vita politica italiana e internazionale necessita di fedeli laici e di statisti di alto spessore umano e cristiano per il servizio al bene comune, è importante riscoprire Giorgio La Pira, figura esemplare per la Chiesa e per il mondo contemporaneo. Egli fu un entusiasta testimone del Vangelo e un profeta dei tempi moderni; i suoi atteggiamenti erano sempre ispirati da un’ottica cristiana, mentre la sua azione era spesso in anticipo sui tempi». E’ un passaggio del discorso che Papa Francesco ha pronunciato in occasione del convegno nazionale delle associazioni e dei gruppi intitolati al Venerabile Giorgio La Pira che si è tenuto in Vaticano venerdì 23 novembre 2018. L’attualità di La Pira richiamata dal Santo Padre è testimoniata anche dalla editoria che continua a pubblicare raccolte di scritti del Sindaco santo oppure saggi e profili biografici su di lui come il recente testo di Valerio Lessi intitolato “Giorgio La Pira. La fede cambia la vita e la storia” (Paoline, 2018). Nel presentare la sua opera l’autore prende spunto da una frase del Cardinal Benelli:«Nulla può essere capito di Giorgio La Pira se non è collocato sul piano della fede. Tutto, al contrario, diventa chiaro se si pone in un’ottica soprannaturale». E’ con questa chiave di lettura che Lessi intende interpretare i diversi passaggi della vita del Professore. Non solo dunque una ricostruzione della sua biografia, bensì una riflessione approfondita su tutte quelle visioni di fede che hanno fondato questa o quell’iniziativa di La Pira. «Per lui La fede – scrive Lessi – non è un pietismo formalistico e non è il rivestimento spirituale di una vita che continua a scorrere secondo altri criteri. La fede è il criterio, è l’ipotesi di lavoro». E’ così che si ripercorrono gli anni siciliani di La Pira, la sua conversione, il trasferimento a Firenze, l’apostolato in università, la nascita della Messa del Povero nella chiesa di San Procolo. Uno spazio è dedicato anche al periodo della guerra durante il quale La Pira, tra il 1943 ed il 1944, dovette allontanarsi da Firenze perché ricercato dalla polizia fascista. Non poteva mancare poi una presentazione del Professore e del suo contributo nell’assemblea costituente così come della sua esperienza di sindaco di Firenze. Tutti questi passaggi vengono ricostruiti, come si diceva, con un’attenzione particolare più che alla ricostruzione dettagliata dei fatti (che comunque si presenta accurata e puntuale) alle radici di fede di cui certe scelte politiche sono il frutto: si pensi alla vicenda della crisi della Pignone, alla costruzione di case in una città in espansione demografica, in generale alle “attese della povera gente”.

In questa ottica è degno di nota il capitolo intitolato “I pilastri dell’esperienza di fede di Giorgio La Pira” in cui, facendo riferimento ad una lettera scritta da La Pira in occasione della Pasqua del 1970, viene messo in luce tutto ciò in cui ha creduto ed ha mosso la sua vita: la fede ferma nella resurrezione di Cristo, un fatto da cui dipende la storia intera degli uomini e del cosmo, l’amore per la Vergine Maria, la fedeltà ai sacramenti ed alla preghiera così come alla Chiesa. Su quest’ultimo aspetto viene riportata una frase di Fioretta Mazzei, amica e collaboratrice di La Pira:«Fedeltà alla Chiesa, assoluta, fu la sua unica preoccupazione. Il dubbio di poterle non essere fedele era la sola cosa capace di farlo star male fino all’inverosimile».

Significative anche le pagine del libro dedicate alle amicizie del Professore anche queste intese come compagnie nel cammino insieme a Cristo verso il Padre. Ed a proposito di legami come non citare quello con don Raffele Bensi, parroco di San Michele Visdomini e padre spirituale di La Pira dal momento del suo arrivo a Firenze fino agli ultimi giorni di vita.

Un ampio spazio del volume di Lessi è riservato anche al Giorgio La Pira costruttore di pace: i suoi viaggi a Mosca ed in Viet Nam mossi non tanto da strategie diplomatiche, ma dal fatto che “gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9).

Concludo con le parole dell’autore:«Guardare alla vita ed alle opere di La Pira a partire dalla sua ipotesi di lavoro, la fede, permette di saper distinguere ciò che rimane valido della sua testimonianza da ciò che invece è frutto delle circostanze e dei condizionamenti storici. […] Possiamo insomma riferirci alla fede di La Pira ed imparare da lui che la fede è un grande fattore di cambiamento nella vita personale e nella storia del mondo».




«Solo con l’altro». Il contributo di Erio Castellucci

Castellucci1di Alessandro Clemenzia • «L’identità cristiana è un’identità in relazione e proprio nell’incontro con l’altro si modella e si precisa» (p. 15). Con queste parole, tratte dal libro Solo con l’altro. Il cristianesimo, un’identità in relazione (EMI, 2018), il teologo e vescovo Erio Castellucci intraprende un percorso articolato, fondativo ma non scontato, circa l’identità relazionale dell’esperienza di fede.

In un contesto quale quello odierno, caratterizzato da un continuo e inevitabile incontro con l’altro, non si può fare a meno di domandarsi: chi è l’io alla luce dell’incontro con il tu? Fino a che punto questo tu riesce a penetrare nell’io, tanto da riuscire a cambiargli lo sguardo che ha su di sé?

Per rispondere a queste domande, e alle tante che scaturiscono dall’incontro con l’altro, scrive l’autore, «non c’è bisogno di mettere tra parentesi la propria identità, come fanno i relativisti, e neppure, al contrario, di brandirla contro quella degli altri, come fanno gli integralisti; c’è bisogno piuttosto di scavare a fondo la propria identità: e si scoprirà che essa porta alla relazione e che la relazione costruisce l’identità» (p. 16).

Ed è proprio questo il percorso intrapreso da Castellucci: entrare sempre più in profondità alle radici della propria identità cristiana fino a trovare in essa, dal di sotto e dal di dentro, quella spinta essenziale alla relazione con l’altro, per ricomprendere se stessi alla luce di questo nuovo incontro. Per il cristiano, infatti, il fondamento interpretativo del rapporto tra individualità e pluralità non si rintraccia in qualche argomentazione filosofica, ma trova in Cristo la sua risposta prima e ultima.

Nell’evento del farsi carne, il Verbo di Dio si è reso visibile, e dunque dicibile e interpretabile; già durante il suo ministero pubblico (basti pensare alla domanda che Gesù stesso aveva posto ai suoi: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”) circolavano una molteplicità di ipotesi su di lui, sia positive sia negative, in base all’esperienza fatta. Nel tempo post-pasquale, tra i suoi discepoli, Gesù ha continuato ad essere raccontato in modi differenti: i quattro Vangeli esprimono per la Chiesa la necessità di potersi accostare al mistero della Parola incarnata attraverso una pluralità di approcci esperienziali. «Gesù è “uno”, ma è uno talmente ricco e poliedrico […] da poter essere compreso e annunciato solo a partire da tanti angoli prospettici» (p. 34). Con un’immagine pregnante Castellucci afferma ancora a proposito di Cristo: «Il suo mistero non è un raggio laser, che lancia un fascio di luce compatto in un’unica direzione, ma un prisma, che riflette colori e luci in tante direzioni e si arricchisce di tonalità ogni volta che lo si guarda da una visuale nuova» (p. 34).

Seguendo la strada del Maestro, la Chiesa comprende la propria missione ad extra come un’esperienza di dialogo e di annuncio, e questo vale per ogni “altro” che si incontra lungo il cammino. Secondo Castellucci, è proprio nel Simbolo di fede che la Chiesa può rintracciare un metodo e un paradigma per vivere il dialogo con le altre religioni in modo inclusivo: credere in un solo Dio, Padre e creatore universale, offre allo sguardo credente una positività di fondo verso ogni esperienza umana; credere in Cristo, figlio di Dio incarnato, morto e risorto, fa sì che tale presenza possa essere riconosciuta in ogni uomo, poiché in ognuno c’è una sua impronta; credere nello Spirito Santo, Signore e vivificatore, significa riconoscere che egli soffia dove vuole, tanto nella Chiesa quanto nel mondo.

Da un dialogo autentico che trova all’interno della propria fede la sua motivazione intrinseca, nasce l’esigenza dell’annuncio al fine, sia di realizzare quanto Cristo stesso aveva chiesto ai suoi, sia di testimoniare ad altri l’esistenza nuova che si è sperimentata nell’incontro con il Nazareno.

Nell’ultima parte del libro, Castellucci mostra l’apporto che il giudaismo e il cristianesimo hanno offerto alla formulazione di quei valori fondamentali dell’Europa, quali la dignità umana, la persona, la democrazia e la laicità. Per quanto riguarda la dignità umana, il giudaismo, affermando Dio come creatore di tutta la creazione, aveva messo le basi per comprendere l’equi-valenza di tutti gli esseri umani; il cristianesimo, per completare tale comprensione, predica una redenzione universale operata da Cristo. La persona è un termine specificamente cristiano, attraverso il quale si è voluto sottolineare la natura individuale e relazionale di ogni creatura. Il cristianesimo, inoltre, ha offerto quel tipo di accoglienza dell’altro che ha gettato le basi, lungo i secoli, all’attuale concetto di democrazia. Nelle prime comunità domestiche, infatti, si riunivano cristiani di diversa provenienza culturale e sociale, uomini e donne. La laicità, infine, ha trovato una forte propulsione proprio nell’esperienza cristiana: la distinzione operata da Gesù tra “Dio” e “Cesare” ha fatto sì che i discepoli, pur sapendo distinguere i due piani, non sentissero la frattura tra l’essere buoni cittadini e l’essere buoni cristiani. Alla luce dell’incarnazione, la Chiesa, occupandosi delle cose di Dio non può tralasciare l’uomo.

Un ultimo passo compiuto dall’autore per mostrare l’identità relazionale non solo del cristiano, ma anche del cittadino italiano, ha riportato l’esempio della Costituzione italiana, il cui testo porta le firme del capo di Stato Enrico De Nicola, il presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini e il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Sono uomini di tre culture realmente differenti: quella liberale, poneva l’accento sulla libertà del singolo cittadino; quella social-comunista, più sensibile ai diritti della collettività, puntava sull’uguaglianza di tutti i cittadini; e, infine, quella cattolica, basandosi sul concetto di persona (che conserva le dimensioni individuale e relazionale), voleva essere una mediazione tra le due precedenti inclinazioni: «Il principale miracolo della Costituzione italiana è stata proprio la fusione – tra tante discussioni e resistenze – di queste tre visioni di vita del popolo italiano» (p. 114).

La forza di uscire da sé, per dialogare e annunciare, trova nella propria interiorità la vera condizione di possibilità: è, infatti, l’incontro con l’altro a restituire al cristiano la consapevolezza della propria identità relazionale.




Bernardo Leighton: un cileno cristiano

bernardo leighton tripticodi Giovanni Pallanti • Bernardo Leighton è stato un uomo politico cileno di primissimo piano. Nella sua lunga militanza politica nella Democrazia Cristiana della Repubblica Andina ha ricoperto numerosi incarichi di governo: Ministro del Lavoro nel governo di Arturo Alessandri dal 24 Marzo 1937 al 12 Marzo 1938. Dopo la Seconda Guerra mondiale fu Ministro della pubblica Istruzione nel governo di Gabriel Gonzalez Videla dal 22 Febbraio 1950 al 4 febbraio 1952. Quando Eduardo Frei diventò Presidente della Repubblica del Cile divenne ministro dell’Interno e vice Presidente della Repubblica. Insieme a Frei Don Bernardo come lo chiamavano gli amici, fu uno degli artefici politici della riforma agraria e delle miniere del rame che furono in parte nazionalizzate per sottrarle a imprenditori anglosassoni. La rivoluzione agraria e mineraria del Cile fu presa ad esempio dalle forze progressiste dell’America Latina. In un continente che veniva trattato dagli Stati Uniti come una colonia, Eduardo Frei e Leighton rappresentarono la via democratica e cristiana alla giustizia sociale e allo sviluppo economico senza ricorrere alle tradizionali politiche degli economisti di destra né aderendo a teorie marxiste. In modo particolare Leighton aveva una fortissima personalità: cristiano senza se e senza ma, con la testa rivolta all’eterno ma i piedi ben piantati per terra. Assomigliava nel modo di pensare e di agire a Giorgio La Pira (era nato il 16 Agosto 1909 ed era quindi quasi coevo di La Pira che era nato nel 1904). Rispetto a La Pira Leighton aveva avuto una maggiore esperienza nei governi nazionali e un ruolo fondamentale durante il periodo della presidenza di Eduardo Frei. Politico a tutto tondo aveva una cultura umanistica ed economica di livello straordinario. Sapeva fare politica: una volta gli domandai:” come mai Radomiro Tomic ha perso le elezioni per la Presidenza della Repubblica?” Leighton mi disse sorridendo:” Tomic è un grande economista. Purtroppo i numeri non entusiasmano. La politica o la si fa col cuore o siamo destinati a perdere”. In quella occasione escluso Tomic rimasero in lizza i due candidati classificati al primo e secondo posto nella elezione diretta del Presidente della Repubblica: un candidato della destra democratica Arturo Alessandri e Salvador Allende. I democratici cristiani elessero Eduardo Frei Presidente del Senato e decisero di votare in Parlamento, visto il fallimento numerico dei candidati in lizza per l’elezione diretta del presidente, per Salvador Allende. Il tutto per non interrompere l’opera riformatrice del governo Frei. Il governo Allende fu praticamente mangiato dalla politica estremista dei socialisti e in parte dei comunisti. La democrazia fu messa duramente alla prova. Il generale Pinochet, nominato capo di stato maggiore delle forze armate dal governo Allende, scatenò un golpe che costrinse Allende al suicidio. Fu instaurata una dittatura di destra Leighton insieme ad altri 12 esponenti nazionali della DC cilena si dichiararono contrarissimi a Pinochet. Invitato in Italia dal deputato democristiano Gilberto Bonalumi fu ferito gravemente in un attentato a Roma il 5 ottobre 1975. L’attentato, in cui fu ferita gravemente anche la moglie, era stato organizzato dalla DINA (la polizia segreta di Pinochet). Qualche tempo dopo tramite Bonalumi che gli aveva parlato di me diventammo amici. Fu a Firenze per una settimana ospite della DC. Lo accompagnai a conoscere la città per i musei e nel giardino di Boboli. Con grande gioia della moglie di Leighton che era rimasta paraplegica dopo l’attentato dell’ottobre 1975. Bernardo Leighton è una delle figure più grandi del cattolicesimo democratico mondiale. Per spiritualità, cultura e capacità politiche non era inferiore né a Moro, né a Dossetti, né a La Pira, né a Fanfani. Morì in Cile nel 1995. Un uomo così doveva essere onorato anche dalla Chiesa cattolica cilena. Purtroppo sarà difficile che questo accada: la maggioranza dei Vescovi cileni, come hanno dimostrato le iniziative di Papa Francesco contro di loro, sono agli antipodi di Bernardo Leighton.




La nuova fase delle persecuzioni cristiane in Iraq: qualcuno se ne cura?

S. E. R. Moms. Bashar Warda, Arcivescovo Caldeo di Erbil (Iraq)

S. E. R. Moms. Bashar Warda, Arcivescovo Caldeo di Erbil (Iraq)

di Mario Alexis Portella Il governo degli Stati Uniti ha recentemente manifestato pubblicamente e con esultanza la sua soddisfazione per la vittoria militare riportata sull’ISIS in Iraq e in Siria, nonostante la piccola presenza dei militanti che ancora mantengano una presenza nel territorio siriano. Il presidente Donald Trump ha dichiarato: <<Grazie alle forze armate degli Stati Uniti e alla nostra collaborazione con molte delle vostre nazioni, sono lieto di annunciare che gli assassini assetati di sangue conosciuti come ISIS sono stati cacciati dal loro territorio una volta detenuti in Iraq e in Siria>>.

L’impressione di molti in Occidente è che, a seguito della sconfitta del “califfato” islamico, le minoranze religiose in Iraq, in particolare i cristiani, non siano più perseguitate. Almeno questa è la tesi dei media mainstream. Ma è una tesi ben lontana dalla realtà. Le persecuzioni, di fatto, hanno assunto una nuova forma anche se i persecutori hanno per lo più il medesimo volto e la medesima mente. Per esempio, ex-membri dell’ISIS si sono inseriti in posizioni-chiave di governi locali e nelle milizie sciite che controllano le città e i villaggi in cui vivono i cristiani. Il problema politico più grave consiste nell’assenza, almeno da parte irachena, di un’autorità in grado di operare, con opportune iniziative, un cambiamento di rotta che possa garantire la sicurezza dei cristiani ed una pace stabile in quel territorio martoriato. Ma non è solo un problema di assenza di autorità. E’ anche l’atteggiamento e l’impegno pro-cristiani degli Stati, in particolare occidentali, più potenti e, di conseguenze, più influenti sulla politica internazionale. Basta vedere i vescovi cattolici statunitensi, i quali non solo hanno assolto l’Islam dai crimini commessi in nome della religione ma, di fronte al genocidio dei cristiani ispirato dai testi islamici, insieme a tanti politici progressisti, hanno promosso o sostenuto la campagna contro l’islamofobia, cioè la criminalizzazione di qualsiasi critica ragionevole. E forse ancor più scoraggiante è il risultato di un sondaggio condotto da “Aiuto alla Chiesa che Soffre” in USA, McLaughlin & Associates: i cattolici americani sono più preoccupati del riscaldamento globale che della persecuzione contro i cristiani.

Avendo recentemente visitato la città di Mosul devastata dalla guerra – una delle prime regioni del mondo ad accogliere il messaggio del cristianesimo — ho avuto l’opportunità di parlare con un certo numero di cristiani residenti nel settore di Niniveh, nelle altre città e villaggi che circondano Mosul. Essi concordano sul fatto che la drastica riduzione della popolazione, e direi quasi una desertificazione, post-ISIS, sia sostanzialmente dovuta alla mancanza da parte degli Stati Uniti e di altri paesi di un accorto, lungimirante piano per continuare o, dove occorra, iniziare la ricostruzione nelle terre un tempo abitate dai cristiani. Ci sono anche i profughi che vivono in condizioni disperate in affollati e malsani campi d’accoglienza, piano che, se posto in essere, permetterebbe loro di tornare e riprendere una vita da cittadini liberi. Mi limito ad un esempio, ma ne potrei portare molti altri: a Karamless oggi abitano solo trecento famiglie cristiane sulle oltre ottocento ivi stanziate prima dell’occupazione dell’ISIS; i gruppi sciiti, come gli Shabak, poiché ora sono più numerosi, si sono appropriati della quasi totalità degli spazi ancora utilizzabili provando ad imporre la legge e la cultura islamica. Altri che sono aiutati dai finanziamenti governativi per la ricostruzione delle case, si son pure insediati nelle proprietà dei cristiani. Il parroco di S. Adeo a Karamless, p. Thabet Habeb, mi ha detto che è in corso una lotta continua con il governo per cercare di conservare o riottenere le abitazioni e tutto ciò che era di loro pertinenza.

Un altro problema è stato il “rafforzamento” della rule of law che le milizie sciite e curde — alcuni curdi di Niniveh

Sua Beatitudine Ignazio Youssef III Younan, Patriarca siro cattolico di Antiochia

Sua Beatitudine Ignazio Youssef III Younan, Patriarca siro cattolico di Antiochia

sono yazidi — hanno sancito di propria iniziativa senza provvedere a garantire la “sicurezza” nelle città prevalentemente cristiane prima dell’Isis. Invece di operare al fine di conseguire quella stabilità indispensabile per la rinascita di un’ordinata convivenza, permettono che i cristiani siano vessati per motivi puramente religiosi, senza conceder loro alcuna possibilità di ricorrere al governo centrale iracheno. Anzi, il sindaco della città di Teleskof, Bassim Bello, che è cristiano, mi ha parlato delle difficili e pericolose battaglie ingaggiate affinché ai cristiani sia concesso di riaprire, dopo averle messe in sicurezza e se possibile restaurate, le loro chiese e perché vengano loro riconosciuti dai governi locali e centrale pari diritti con l’eliminazione di ogni sorta di discriminazione. Ed anche a Erbil, la capitale del Kurdistan, che è autonoma dal governo centrale iracheno e che è forse la regione più sicura di tutto l’Iraq, molti cristiani subiscono soprusi di vario genere: le donne cristiane sono importunate perché non indossano la hijab (la sciarpa che copre la testa) e i curdi ubriachi di notte sventagliano colpi delle loro armi per riaffermare la loro supremazia: e questi sono solo due esempi, e non i più gravi, di quanto precaria sia la situazione in una città in una piazza nella quale si trova una statua della Vergine Maria.

I cristiani iracheni, i giovani in particolare, e gli occidentali che lavorano in Iraq per ripristinare la stabilità, mi hanno espresso tutta la loro sfiducia nei politici, sia occidentali, soprattutto statunitensi, che iracheni. Essi sono convinti, e lo affermano con forza, che i governanti delle varie potenze siano più interessati ai petrodollari che ai diritti umani.

L’unica luce in questo desolato panorama è che i cristiani iracheni conservano una forte volontà di continuare a combattere per la loro fede ed i loro diritti, con la speranza che il loro esempio possa portare altri iracheni, indipendentemente dalla religione professata e dall’etnia, al conseguimento di un costante rispetto reciproco. Alcune chiese distrutte durante la guerra con l’ISIS sono state riaperte al culto, nonostante le minacce scoraggianti e gli ostacoli frapposti dai loro connazionali musulmani. E’ doveroso, qui, ricordare che l’arcivescovo cattolico caldeo di Erbil, Basar Warda, alcui anni fa ha fondato l’Università cattolica di Erbil con la speranza che essa possa fornire un’istruzione superiore ai cristiani iracheni, di modo che essi possano non solo rimanere in Iraq, ma costruirvi un futuro più luminoso in un clima di pace e sicurezza. Se gli Stati Uniti e le altre Nazioni, e alcuni membri della gerarchia cattolica seguissero più seriamente e senza secondi fini questa fase della ricostruzione irachena, ci sarebbe una reale possibilità d’instaurare un’era nuova non soltanto sul piano politico-economico ma anche su di un piano religioso tale che possa garantire il diritto d’esistenza, di pratica e di diffusione alla fede cristiana.




Il Papa incontra gli 80 gruppi italiani che si intitolano al Venerabile Giorgio La Pira

Papa-Francesco-a-Gruppi-La-Pira-Ci-vogliono-profeti-di-speranza-di-santita_articleimagedi Carlo Parenti • Il 23 novembre 2018 Papa Francesco ha ricevuto in udienza privata nella sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano la Fondazione e i gruppi che raccolgono l’eredità del venerabile Giorgio La Pira, sindaco di Firenze dal 1951 al 1965 e instancabile costruttore di pace e carità cristiana.

All’incontro –presenti anche i cardinali Bassetti, Presidente C.E.I., e Betori, arcivescovo di Firenze- hanno partecipato circa 150 rappresentanti degli oltre 80 gruppi, centri culturali, circoli e associazioni che hanno deciso di intitolarsi a Giorgio La Pira e ne tengono viva la memoria e il messaggio in ogni regione d’Italia. Tutti convenuti a Roma per il loro 5° convegno nazionale dal titolo “Spes contra Spem”, sperare contro ogni speranza, parole di San Paolo, che La Pira trasformò in un motto. Inoltre vanno considerate alcune decine di associazioni e centri culturali che pur intitolati al Professore non hanno per scopo esclusivo quello sopra citato (si veda: link).

Dopo il saluto del presidente della Fondazione, Mario Primicerio, il Papa –che il 5 luglio scorso ha dichiarato venerabile questo “profeta dei tempi moderni” riconoscendone le virtù eroiche- ha auspicato che l’incontro possa contribuire a far crescere in Italia “l’impegno per lo sviluppo integrale delle persone”. Questo perché si vive in un momento in cui la complessità “della vita politica italiana e internazionale” richiede e necessita di “fedeli laici e di statisti di alto spessore umano e cristiano per il servizio al bene comune”. Francesco ha sottolineato questo aspetto per dare un segnale concreto ai cattolici verso l’impegno politico. L’esempio di La Pira -“i cui atteggiamenti erano sempre ispirati da un’ottica cristiana, mentre la sua azione era spesso in anticipo sui tempi”- è prezioso per i politici di oggi, ha detto ,tentati “dalla ricerca del profitto personale o di un gruppo” e dall'”eccessivo attaccamento al potere“.

Ma seguiamo direttamente la parte finale del discorso del Papa:

Cari amici, vi incoraggio a mantenere vivo e a diffondere il patrimonio di azione ecclesiale e sociale del Venerabile Giorgio La Pira; in particolare la sua testimonianza integrale di fede, l’amore per i poveri e gli emarginati, il lavoro per la pace, l’attuazione del messaggio sociale della Chiesa e la grande fedeltà alle indicazioni cattoliche. Sono tutti elementi che costituiscono un valido messaggio per la Chiesa e la società di oggi, avvalorato dall’esemplarità dei suoi gesti e delle sue parole”.

Il suo esempio è prezioso specialmente per quanti operano nel settore pubblico, i quali sono chiamati ad essere vigilanti verso quelle situazioni negative che San Giovanni Paolo II ha definito «strutture di peccato» (cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 36). Esse sono la somma di fattori che agiscono in senso contrario alla realizzazione del bene comune e al rispetto della dignità della persona. Si cede a tali tentazioni quando, ad esempio, si ricerca l’esclusivo profitto personale o di un gruppo piuttosto che l’interesse di tutti; quando il clientelismo prevarica sulla giustizia; quando l’eccessivo attaccamento al potere sbarra di fatto il ricambio generazionale e l’accesso alle nuove leve. Come diceva Giorgio La Pira: «la politica è un impegno di umanità e di santità». È quindi una via esigente di servizio e di responsabilità per i fedeli laici, chiamati ad animare cristianamente le realtà temporali, come insegna il Concilio Vaticano II (cfr Decr. sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 4).

Fratelli e sorelle, l’eredità di La Pira, che custodite nelle vostre diverse esperienze associative, costituisce per voi come una “manciata” di talenti che il Signore vi chiede di far fruttificare. Vi esorto pertanto a valorizzare le virtù umane e cristiane che fanno parte del patrimonio ideale e anche spirituale del Venerabile Giorgio La Pira. Così potrete, nei territori in cui vivete, essere operatori di pace, artefici di giustizia, testimoni di solidarietà e carità; essere fermento di valori evangelici nella società, specialmente nell’ambito della cultura e della politica; potrete rinnovare l’entusiasmo di spendersi per gli altri, donando loro gioia e speranza. Nel suo discorso, il vostro presidente per due volte ha detto la parola “primavera”: oggi ci vuole una “primavera”. Oggi ci vogliono profeti di speranza, profeti di santità, che non abbiano paura di sporcarsi le mani, per lavorare e andare avanti. Oggi ci vogliono “rondini”: siate voi.

La benedizione del Santo Padre, che ci ha salutati ad uno ad uno e ha invitato a pregare per Lui, ha concluso questo prezioso e emozionante incontro.




Il diritto consuetudinario e l’influsso dello Spirito Santo nel modo spontaneo di una comunità di fedeli di governarsi

9788820986100_0_0_300_75di Francesco Romano • Consuetudine è un concetto con significato a volte controverso che capita di sentire pronunciare racchiuso nella frase: “si è fatto sempre così”, per giustificare comportamenti ormai obsoleti e privi di senso che dovrebbero sopravvivere per una ineluttabile forza di inerzia.

Appena cerchiamo di approfondire la conoscenza allargando lo sguardo sul termine come categoria giuridica scopriamo un mondo di relazioni che trovano la ragion d’essere all’interno del tessuto sociale con le proprie finalità da realizzare. In questo caso la consuetudine quale fonte di produzione normativa, regolando la vita di una comunità è di sua natura razionale in quanto serve al consesso sociale per il raggiungimento di un determinato fine per cui si è costituita.

Nel sistema giuridico del diritto romano la consuetudine era fortemente radicata essendo normalmente la fonte da cui scaturiva la legge, da qui il brocardo secondo cui consuetudo est optima legum interpres.

Storicamente per il Popolo dell’Alleanza il sistema consuetudinario non ha trovato affermazione perché veniva visto in contrapposizione all’apparato normativo che discendeva direttamente da Dio quale unico Legislatore, mentre la consuetudine nella sua origine scaturisce dall’esperienza umana.

La Chiesa fin dalle sue origini si fa erede dell’esperienza giuridica consuetudinaria del mondo romano. Il diritto umano che promana dall’Autorità della Chiesa si armonizza con il diritto consuetudinario che si origina dal comportamento costante di una comunità favorendo l’inculturazione del messaggio evangelico e il successo della diffusa penetrazione missionaria con il progressivo adattamento del diritto universale alle più svariate esigenze pastorali presenti nel mondo. Si deve a Gregorio IX nel 1234 l’ufficializzazione nel sistema giuridico della Chiesa del diritto consuetudinario con la decretale Quum tanto (X, I, 4, 11).

Nel corso dei secoli, soprattutto in epoca moderna in cui si è affermato il processo di codificazione, il fenomeno consuetudinario ha dovuto fronteggiare anche posizioni dottrinali scettiche, o addirittura negazioniste come l’illuminismo razionalista secondo cui la legge scritta era l’unica forma che potesse garantire la certezza del diritto da renderlo immune da un uso arbitrario. Anche nella Chiesa sorsero posizioni timorose che il Popolo di Dio con l’affermarsi del diritto consuetudinario venisse sottratto alla legittima Autorità, ma anche vedendo nella consuetudine praeter legem il rimedio per supplire a una eventuale legge lacunosa.

Il fenomeno consuetudinario, a motivo del suo fondamento teologico, solo nella Chiesa ha mantenuto fino a oggi una posizione di rilievo sebbene l’autorità gerarchica, e non la volontà popolare, sia sempre stata la fonte di produzione normativa.

Il fondamento teologico trova una chiara illustrazione nella Costituzione Apostolica Lumen Gentium dove il Popolo di Dio, per il sensus fidei che lo Spirito Santo suscita e sorregge, è abilitato a cogliere la verità di fede e sotto la guida del Magistero, di quanto ha intuito “con retto giudizio penetra più a fondo e più pienamente l’applica alla vita” (LG 12).

L’applicazione pratica alla vita di quanto il Popolo di Dio, cioè la Chiesa intesa come universitas fidelium, intuisce in forza del sensus fidei viene letta come fonte di produzione normativa di natura consuetudinaria. Il sensus fidei dei fedeli si salda con il sensus Ecclesiae percepito come la totalità dei fedeli. Il dato rivelato trova concretezza con quello normativo per mezzo della consuetudine. Siamo già in grado di affermare che l’applicazione pratica di quanto ha avuto origine dal sensus fidei fidelium converge per analogia con la definizione di consuetudine del can. 23. “Ha forza di legge soltanto quella consuetudine introdotta da una comunità di fedeli che sia stata approvata dal legislatore”.

La reiterazione di un comportamento consuetudinario, espressione della communio fidelium, si forma intorno al sensus fidei fidelium. Da qui scaturisce l’intenzione della comunità di introdurre un nuovo diritto, il così detto animus iuris inducendi, al quale vuole vincolarsi. Il consenso del Legislatore si lega con il consensus fidelium, gli riconosce il carattere comunionale e in questo rende obbligante la consuetudine per realizzare il fine salvifico. Nei comportamenti ripetuti e giuridicamente vincolanti il legislatore, oltre al carattere comunionale, ne riconosce l’utilità sociale e salvifica che si radica nell’Incarnazione e nel mistero pasquale.

Il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali rende ancora più esplicita l’azione dello Spirito Santo ponendolo a fondamento della consuetudine: “Una consuetudine della comunità cristiana, nella misura in cui risponde all’attività dello Spirito Santo nel corpo ecclesiale può ottenere forza di legge” (can. 1506 §1). In altre parole, la presenza dello Spirito Santo nella comunità suscita comportamenti conformi al volere divino. Tuttavia, il valore normativo non può discendere dalla sola prassi, ma l’intervento della competente autorità ecclesiastica è chiamata a discernere se la consuetudine è razionale in ordine al bene della comunità.

All’origine del fatto consuetudinario c’è la prassi segnata dal comportamento stabile di una comunità di fedeli che l’introduce come consuetudo facti. L’oggetto della consuetudine viene approvato dal legislatore con un atto di natura amministrativa, non legislativa, perché da esso non nasce una legge, ma una consuetudine che di fatto già esiste. La semplice osservanza di una comunità di fedeli già costituisce una consuetudine di fatto, ma l’approvazione del legislatore cambia solo il carattere giuridico, non l’oggetto, divenendo consuetudo iuris, diritto vigente di quanto era già stato introdotto da quella comunità di fedeli come comportamento stabile. Infatti, l’approvazione non richiede una promulgazione, come per la legge, ma la semplice pubblicazione, in quanto il contenuto della consuetudo facti è già noto alla comunità.

Il comportamento consuetudinario di una comunità con l’approvazione del legislatore ottiene forza di legge se è razionale, cioè se realizza il bene comune dei fedeli, se è socialmente utile e di normale adempimento, non ultra vires.

Una consuetudine contra legem può assumere il carattere della ragionevolezza per una determinata comunità se il Legislatore la tollera per il suo bene facendola prevalere rispetto alla legge in vigore, come se si trattasse di una implicita abrogazione. Mai, però, una consuetudine contraria a elementi costitutivi di un atto o di un istituto può essere riconosciuta razionale perché determinerebbe la deformazione della loro struttura giuridica (cann. 86 e 124 §1). Una consuetudine contra legem espressamente riprovata dal Legislatore non potrà mai assumere il carattere della razionalità perché in nessun modo può rispondere al bene di una comunità e mai potrà essere fatta rivivere in futuro. La riprovazione non è una proibizione. Una consuetudine semplicemente proibita di per sé è illecita, ma non è irrazionale e può rimanere in vita se centenaria o ab immemorabili, oppure se il Codice lo consente in modo espresso.

Anche negli istituti religiosi la consuetudine secondo, contro e fuori della legge può entrare a fare parte del diritto proprio, purché la comunità, sia capace almeno di ricevere la legge (can. 26). In questo senso il diritto consuetudinario può formarsi negli istituti centralizzati, ma anche a livello di province. Ciò vale anche per i monasteri sui iuris e gli istituti a carattere federale. Sono escluse le singole comunità religiose che pur essendo ipso iure persone giuridiche non sono capaci di ricevere una legge e quindi di introdurre una consuetudine.

Riguardo a una consuetudine nell’ambito del diritto proprio previste dal can. 587 §4, la semplice osservanza di una comunità capace di ricevere una legge può dare vita a una consuetudo facti, ma perché diventi consuetudo iuris per la sua approvazione è richiesto l’intervento dell’Autorità competente. Se si tratta di consuetudine che deve entrare nel diritto proprio di rango superiore, come il Codice fondamentale (can. 587 §1-3) l’approvazione della consuetudine apparterrà alla Sede Apostolica o al Vescovo diocesano a seconda della dipendenza dell’istituto. Se la consuetudine tocca il diritto proprio di rango inferiore come i regolamenti, i direttori ecc. (can. 587 §4), può essere approvata dal Superiore collegiale, cioè il Capitolo generale o provinciale indipendentemente dalla potestà di cui gode, ovvero della potestà ecclesiastica di giurisdizione di cui godono gli istituti religiosi clericali di diritto pontificio (can. 596 §2) o della potestà comune quando non si riscontra anche uno solo dei suddetti requisiti (can. 596 §1). Il Superiore personale, cioè il Moderatore supremo o il Superiore provinciale, non ha competenza per l’approvazione a meno che non gli sia stata concessa esplicitamente dal Capitolo.

Quando una consuetudine è contraria o al di fuori del diritto proprio di un istituto religioso, spetta alla Sede Apostolica la competenza di intervenire su di essa. Per gli istituti di diritto diocesano spetta al Vescovo diocesano la competenza di vigilare sulla formazione del diritto consuetudinario, fatta salva la giusta autonomia per ciò che tocca il diritto proprio non sottomesso all’approvazione del Vescovo diocesano.

La consuetudine permette al Popolo di Dio di organizzarsi in modo spontaneo con comportamenti che i fedeli ripetono ininterrottamente nel tempo e ai quali intendono obbligarsi per la capacità che hanno di sentire ciò che è razionale e giusto. Di fronte alla realtà che di fatto ha originato la consuetudo facti, il Legislatore ne riconosce la razionalità, quale consuetudo iuris, elevandola al rango di fonte di produzione normativa dove è presente l’opera dello Spirito Santo che guida i fedeli nel prendere parte all’edificazione del Corpo Mistico.




«Ego sum lux mundi» (Gv 8,12). Noterelle con San Tommaso d’Aquino

ob_c03546_novena-san-tommasodi Andrea Drigani Nel Dizionario dei Sinonimi di Niccolò Tommaseo si legge: «Noterelle illustranti il senso, distinte dalle note critiche ed estetiche. Ma anco in noterelle brevi può essere espresso e ispirato il senso del bello». Quella che sto scrivendo è proprio una noterella, che parte da una rilettura di un’espressione evangelica. Il Vangelo ogni volta che lo si legge, infatti, ci spinge sempre verso nuovi approfondimenti anche secondo la migliore tradizione cristiana. Questa è la frase che mi ha ancora una volta colpito: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12) [«Ego sum lux mundi; qui sequitur me non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitae»]. Queste parole ci rimandano alla Rivelazione («Revelatio»), che per San Tommaso d’Aquino è una nuova luce, gratuita, soprannaturale, donata dalla Spirito Santo che tocca immediatamente la ragione. Il Dottore Angelico paragona la «Revelatio» all’azione del sole: come il sole con la sua luce rende visibili le cose materiali, così Dio facendo dono al nostro intelletto di questa luce, ci spalanca la visione di verità che prima gli erano inaccessibili ed invisibili. San Tommaso, per designare l’effetto speciale con cui il sole di Dio svela alla mente nuove verità, ricorre a varie espressioni, che però hanno sempre in comune il termine «lumen» (luce), che egli definisce «ciò che rende manifesto quanto prima era occulto». Ora mentre già col lume naturale («lumen rationis.») l’uomo può raggiungere un ampio orizzonte conoscitivo, col nuovo lume, lo sguardo della sua mente può andare più lontano: verso il futuro (e allora si avrà il «lumen prophetiae») o in profondità (e allora si ha il «lumen fidei»). L’effetto del «lumen revelationis» è comunque quello di svelare nuove realtà e nuove verità, o per meglio dire è un vedere nuovo che fa vedere oggetti nuovi. Come per quanto attiene alla legge naturale, già presente nella cultura precristiana (Sofocle, Platone, Aristotele), che viene ritenuta dall’Apostolo San Paolo (Rm 1,18-32; 2,14-15;7,22-23) come legge divina; il cui contenuto, secondo il monaco Giovanni Graziano, autore della «Concordia discordantium canonum» del 1140, è «in Lege et Evangelio» (cioè nella Sacra Scrittura), e che dal Dottore Angelico è definita impronta della luce divina in noi («impressio divini luminis in nobis»). Dall’epoca di Ugo Grozio (1583-1645) si è tentato di recidere la legge naturale della sua origine divina, creando un diritto naturale che prescinde da Dio («etiamsi daremus nongrozio_a esse Deum»), nell’intento di promuovere ampie convergenze giuridiche e politiche. Tale prospettiva, forse per ricercare larghe alleanze, in tempi recenti sembra essere stata riproposta con la frase «come se Dio ci fosse» («veluti si Deus daretur»). San Tommaso ci ricorda come la pienezza della Rivelazione si è avuta in Cristo. Lui è la stessa luce («lumen») che rispende nelle tenebre, una luce che è la stessa luce, anzi la medesima luce esistente e rende perfetta testimonianza alla verità e manifesta perfettamente la verità («Christus est ipsum Lumen comprehendens, immo ipsum lumen existens. Et ideo Christus perfecte testimonium perhibet et perfecte manifestat veritatem»). Nel corso della sua vita – osserva infine il Dottore Angelico – Gesù Cristo prima di affidare agli apostoli la missione di evangelizzare il mondo, li ha istruiti; a essi ha dato il suo spirito e la sua dottrina, in modo che potessero illuminare tutti gli uomini.




3P

016-505x306_cdi Giovanni Campanella • Nel mese di novembre 2018, la casa editrice Edizioni Dehoniane Bologna ha pubblicato un piccolo libro, intitolato Una vita per gli altri – Biografia di Padre Pino Puglisi, all’interno della collana “Lapislazzuli”. Il libro ripercorre le tappe più significative della vita del beato Puglisi, detto bonariamente 3P (Padre Pino Puglisi). L’autrice è Rosaria Cascio.

«Allieva di Pino Puglisi, ha frequentato per 14 anni i gruppi giovanili da lui diretti e, dopo la sua morte, ne ha studiato il metodo educativo e pastorale, diffondendone la conoscenza in incontri pubblici in tutta Italia. Da insegnante ripropone in classe la pedagogia e la metodologia dell’educatore Puglisi, che racconta in uno spettacolo rappresentato con i suoi alunni in numerose occasioni di eventi antimafia. Sul metodo di Padre Puglisi l’autrice ha scritto numerosi articoli e libri» (copertina).

La prefazione è del cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo metropolita di Agrigento, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni, presidente della Fondazione Migrantes. Il 20 maggio 2015 è eletto presidente della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute della Conferenza episcopale italiana e, in quanto tale, presidente di Caritas Italiana e della Consulta ecclesiale degli organismi socio-assistenziali.

La postfazione è di Giuseppe Carini, medico e testimone di giustizia. Era un giovane ragazzo quando conobbe Padre Puglisi. Quando Puglisi morì, Carini, da giovane tirocinante di medicina legale, partecipò all’autopsia del corpo dell’amico.

«Poco prima di morire, il sacerdote gli aveva raccomandato, in modo sibillino, di avere cura del suo corpo, un giorno. Giuseppe non aveva capito. Adesso, di fronte al cadavere di cui si sta occupando, gli è chiara la predizione. Partecipa all’autopsia e, rinvenuto il proiettile nel cranio, attesta la morte per uccisione del suo amico. Riveste il suo corpo dopo averlo lavato e ricomposto» (p. 87).

Di 3P il cardinale Montenegro dice:

«A vederlo, di per sé, non è niente di straordinario, né lui in verità si è mai sentito un uomo straordinario. Dove lo hanno messo ha lavorato. Si è ritrovato così anche in quell’ambiente difficile dove gli è stata tolta la vita, ma credo che l’abbia fatto con la semplicità e la modestia di chi sa che sta facendo quello che non può non fare» (p. 6).

Giuseppe Antonino Puglisi nasce a Palermo il 15 settembre 1937 da Carmelo e da Giuseppina Fana, calzolaio lui e sarta, all’occorrenza, lei. A 16 anni, il 10 settembre 1953, entra in Seminario. Il 2 luglio 1960 è ordinato presbitero. Esercita i primi anni di sacerdozio nelle zone comprese tra Romagnolo, Brancaccio, Decollati, Settecannoli, tutte aree limitrofe di Palermo. Nel 1964 è vicario cooperatore nella parrocchia del SS. Salvatore e aiuto dell’arciprete di Roccapalumba nei giorni di festa. Lungo tutta la vita insegna religione in numerose scuole di Palermo e dintorni. Nel 1968 si adopererà molto per aiutare materialmente e spiritualmente i terremotati del Belìce. Dal ’70 al ’78 è parroco a Godrano, un paesino a 40 km da Palermo, nella chiesa di Maria SS. Immacolata. Nel novembre 1979 è direttore del Centro Diocesano Vocazioni (CDV). Un anno dopo, il 24 ottobre 1980, è vice delegato regionale del Centro vocazioni e lo rimarrà fino al 1985, dato che il 5 febbraio 1986, e sino al 1990, è incaricato come direttore del CRV (Centro Regionale Vocazioni). Resta in carica fino all’ottobre del 1991 e, contestualmente, diventa consigliere nazionale del CNV (Centro Nazionale Vocazioni). Il 29 settembre 1990 è nominato parroco di San Gaetano a Brancaccio. La sua attività è instancabile e l’aiuto portato a ragazzini e ai bisogni delle persone in difficoltà sottrae potenziali adepti e opportunità di lucro alla mafia.

Per questo, proprio il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, il 15 settembre 1993, 3P riceve un colpo silenzioso di pistola alla nuca sulla porta di casa. Un attimo prima di morire, Don Pino guarda con un sorriso il proprio assassino e dice: «Vi stavo aspettando». Il 25 maggio 2013, Don Pino Puglisi è proclamato beato della Chiesa universale.




«La forza della parola». La Lettera dei vescovi toscani su comunicazione e formazione a 50 anni dalla morte di don Lorenzo Milani

downloaddi Gianni Cioli • La recente lettera della Conferenza episcopale della Toscana su «comunicazione e formazione a 50 anni dalla morte di don Lorenzo Milani» è un documento sui generis – un libretto di 88 pagine – che appare in sintonia con quanto auspicato dal papa in occasione del suo pellegrinaggio a Barbiana sulla tomba di don Lorenzo. A conclusione del suo discorso Francesco aveva infatti affermato: «non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al vescovo scrisse: “Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato…”. Dal card. Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco –, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa.

Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: “Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui… quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio… Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto. Per esempio il suo profondo equilibrio fra durezza e carità” (Nazareno Fabbretti, “Incontro con la madre del parroco di Barbiana a tre anni dalla sua morte”, Il Resto del Carlino, Bologna, 8 luglio 1970). Il prete “trasparente e duro come un diamante” continua a trasmettere la luce di Dio sul cammino della Chiesa. Prendete la fiaccola e portatela avanti! Grazie» (Francesco, Discorso commemorativo in occasione della visita alla tomba di don Lorenzo Milani, 20 giugno 2017 link .

La lettera della Conferenza episcopale della Toscana è sicuramente, sulla scia del pellegrinaggio e del discorso di Francesco, un atto di «purificazione della memoria» compiuto dalla Chiesa, ma soprattutto – non volendo certo risolversi antievangelicamente in un monumento al profeta incompreso dai padri (cf. Mt 23,27-32; Lc 11,47-48) – è un tentativo di raccogliere la fiaccola di don Lorenzo per portala avanti, interrogandosi sulla possibile attualità del suo carisma e del suo messaggio. In questa prospettiva, anche alla luce di numerosi spunti offerti dal magistero di Francesco, i vescovi hanno giudicato particolarmente significativa e attuale la riflessione di don Milani sul primato della comunicazione e sul valore della parola. La Chiesa appare oggi profondamente consapevole della necessità e dell’urgenza di comunicare il vangelo e si pone contestualmente alla ricerca in un nuovo linguaggio per l’annuncio della fede. Il carisma profetico di don Milani, concretizzatosi in particolare nella sua riflessione e nella sua attività di comunicatore e di formatore, sotto il costante stimolo della forza della parola, può dunque risultare per i vescovi toscani un impulso vivo e attuale, da cui lasciarsi scuotere affinché il fuoco del vangelo non si esaurisca e possa essere trasmesso alle generazioni di oggi e a quelle future.

Il testo dei vescovi si articola in otto capitoletti. Nel primo, di carattere introduttivo, si spiega la ragione fondamentale del documento, ovvero la consapevolezza dell’urgenza di restituire dignità alla parola, accogliendo, sull’esempio di don Milani, la sfida di vivere l’evoluzione del linguaggio come opportunità per annunciare il vangelo oggi. Nel secondo, Parole vuote e parole piene, ci si interroga sulla possibile crisi della parola nel tempo dei social media e sui possibili rimedi: occorre «offrire ai poveri non le parole vuote della retorica e della distrazione, ma quelle piene della verità e della giustizia» (p. 22). Occorre dunque semplificare il linguaggio senza banalizzarlo. Nel terzo capitolo, Parola che fa uguali, ci si sofferma sulla testimonianza di vita e sull’insegnamento di don Lorenzo Milani, mettendo in evidenza la sua convinzione che «solo la lingua fa eguali» (p. 15) e che occorre restituirla con urgenza ai poveri. Nel quarto capitolo, Parola che distrae, si riflette sulla degenerazione odierna del linguaggio, spesso banale, ingannevole e violento, e talora finalizzato, anziché alla comunicazione, alla manipolazione delle masse attraverso proposte accattivanti e orientate a distrarre dai veri problemi, una deriva, questa, della quale si diceva preoccupato già lo stesso don Milani in Esperienze pastorali. Nel quinto capitolo, Parola che forma, con riferimento all’impegno educativo di don Milani, come pure alla odierna riflessione della Chiesa italiana (cf. Conferenza episcopale italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020), si considera soprattutto la valenza formativa della parola. «Uno degli obiettivi indubbiamente più alti che l’essere umano è chiamato a raggiungere per mezzo della parola è quello dell’educazione. Solo la parola possiede la forza di nominare le cose, descriverle e valutarle» (p. 47). La parola presuppone e incrementa le relazioni sociali. La sfida educativa «è sempre e prima di tutto un’attenta e costante opera di discernimento, attraverso la quale imparare a sintonizzare le nostre parole, la nostra comunicazione e il nostro stesso cuore con le persone alle quali ci rivolgiamo» (p. 51). Nel sesto capitolo, Parola che informa, partendo dal desolante panorama di una comunicazione tanto pervasiva quanto poco affidabile (fake news) si esortano i cristiani ad impegnarsi al meglio per una informazione obiettiva: «Più il clima in cui viviamo si avvelena per il diffondersi di notizie false e distorte, tanto più cresce la nostra responsabilità nei confronti della verità alla quale il vangelo stesso continuamente ci richiama» (p. 56). Questa esortazione assume un particolare significato in una regione, come la Toscana, nella quale alla comunità ecclesiale fanno capo numerosi strumenti della comunicazione nel mondo del web e dei social, della radio-televisione, della carta stampata, del cinema e del teatro.

Gli ultimi due capitoli, Parola che incanta, accarezza e guarisce (VII), e Parola che annuncia (VIII), sono dedicati rispettivamente alla forza terapeutica della parola, e alla «forza dell’annuncio» che, afferendo alla parola, esige che questa non sia mai separata dalla coerenza della vita, pena la sua assoluta inconsistenza.

Nella Conclusione i vescovi rilanciano l’invito a tenere vivi gli interrogativi e le provocazioni di don Milani con l’auspicio che la loro lettera possa stimolare le comunità cristiane a prendere maggiore coscienza del valore della parola e della responsabilità affidata ai credenti proprio come uditori e discepoli della Parola.

Ritengo che l’invito, formulato dal papa e rilanciato dai vescovi toscani: «Prendete la fiaccola e portatela avanti!», possa e debba essere recepito anche e specialmente dalla teologia, che si pone a servizio della missione della Chiesa. Essa è chiamata in questo tempo, il tempo della Chiesa di papa Francesco, ad affrontare sfide analoghe a quelle sostenute a suo tempo, in posizione di avanguardia, dal priore di Barbiana. Egli fu disposto ad annunciare la Parola, insistendo opportune, importune (2Tim 4,2). Lo fece affrontando il rischio dell’interpretazione dei segni dei tempi e accollandosi la fatica della formazione dei poveri. In questo drammatico “oggi” in cui le masse – forse più attratte dalle seduzioni dei populismi e dei sovranismi che da quelle del comunismo – si mostrano sempre meno disposte ad ascoltare la voce della Chiesa, la teologia deve trovare il coraggio di “abitare le frontiere”, assumendosi il rischio d’interpretare i segni dei tempi e accollandosi la sfida di contribuire alla formazione delle coscienze.




Sintesi neo-patristica, apofatismo e personalismo. Ritratto di Vladimir Losskij a 60 anni dalla morte

essai-sur-la-thologie-mystique-de-l-39-glisedi Dario Chiapetti • Una delle figure più rilevanti della teologia ortodossa moderna, tra quelli della diaspora russa a Parigi e Vladimir Losskij che lasciava, 60 anni fa e a soli 55 anni, il suo percorso terreno. Egli ha influito non poco sia a far conoscere l’Ortodossia all’Occidente sia a far conoscere in modo rinnovato l’Ortodossia all’Ortodossia. Un profondo senso di appartenenza alla sua chiesa e di responsabilità ad impegnarsi a servirla lo contraddistingueva. È per questo che egli, se da un lato, diversamente da coloro che in terra straniera si unirono al patriarcato di Costantinopoli, rimase fedele a Mosca, dall’altro, si adoperò, grazie alle sue indubbie doti intellettuali e attitudine teologica, al rinnovamento della teologia ortodossa attuando quella sintesi neo-patristica che aveva iniziato a teorizzare Georgij Florovskij a metà degli anni ‘30. Losskij adempì a tale compito proprio con particolare riferimento ai padri greci – Gregorio di Nissa, Giovanni Damasceno, Pseudo-Dionigi, Massimo il Confessore e Gregorio Palamas – opponendosi duramente (solo in un primo momento, come ci tiene a precisare Olivier Clément) al pensiero sofiologico, di stampo marcatamente russo e di sapore idealistico, di Sergej Bulgakov.

L’influenza di Losskij nel panorama teologico ortodosso contemporaneo è consistente. L’unico libro pubblicato in vita, l’Essai sur la Théologie Mistique de l’Église d’Orient del 1944, è un punto di riferimento indiscusso per l’ortodossia e dopo la sua morte sono usciti altri importanti testi, raccolte di saggi – come Théologie négative et connaissance de Dieu chez Maître Eckhart (1960), Vision de Dieu (1962), A l’Image et à la Ressemblance de Dieu (1967) – che molto hanno ispirato e fatto discutere. Ma quali sono i temi principali della sua teologia e perché possono risultare interessanti oggi? Seguendo Michel Stavrou essi sono essenzialmente: l’orientamento neopatristico, l’approccio apofatico e quello personalista. Sulla base di questi tre aspetti, passo a tratteggiare uno svelto (svelto come le piccole tele impressioniste che sicuramente avrà ammirato a Parigi) ritratto di Losskij, teologico, quindi, e corale, facendo intervenire più studiosi suoi, tra i più autorevoli, come piccolo omaggio a un teologo di indubbio valore.
Quanto al primo aspetto si scorge nel nostro Autore un rapporto ai Padri fedele ma anche creativo, come si vedrà in riferimento allo studio della nozione di persona. In particolare, grande attenzione viene data alla teologia di Palamas e alla distinzione – già abbozzata dai Cappadoci – tra essenza divina impartecipabile, che dice Dio nella sua assoluta trascendenza, e le energie divine, eterne, increate e personali, che indicano Dio nella sua azione personale e nella sua immanenza, nel suo comunicare la natura divina.
È proprio a partire da tale distinzione che Losskij enuncia l’assoluto (assolutezza attenuata negli ultimi scritti) apofatismo, inteso come il rifiuto di attribuire a Dio le perfezioni che l’uomo conosce a partire dalla sua esperienza terrena. Il punto non è far rientrare Dio in concetti umani ma portare l’uomo nella sfera di Dio. Una netta distinzione tra teologia e economia è quindi rimarcata da Losskij per cui non si possono identificare l’essere e l’essenza di Dio con le sue manifestazioni o energie. Finanche l’amore – nota Johannes Miroslav Oravecz – non è per il nostro Autore l’essenza ma un’energia e quindi la più vicina descrizione alla vera immagine di Dio. In tale quadro, la teologia in Losskij è atta a esprimere – come scrive Aristotle Papanikolaou – il «realismo dell’unione divino-umana», unione che è la vera «mistica», che avviene nell’incarnazione tramite le energie divine, che rivela Dio come Trinità e che realizza l’uomo nel suo essere a immagine di Dio.
Vengo così al terzo aspetto, quello del personalismo. La nozione di persona è ravvisata da Losskij nel mistero trinitario ma proprio per questo è indefinibile. Essendo costituito il mistero della Trinità dalla persona, ogni ontologia è da questa contenuta e pertanto la sua realtà – della persona – costituisce una «metaontologia». Ebbene, l’uomo a immagine di Dio condivide nella sua personeità la nota di metaontologicità, pertanto quel che si può dire della persona è che è «l’irriducibilità dell’uomo alla sua natura». La persona comprende certamente in sé proprietà naturali, comuni ad altri uomini, ma possedute in modo assolutamente unico; col peccato essa si chiude nei limiti della sua natura – una natura che si individualizza, si scinde nei vari esseri – e così cede ai suoi impulsi. La redenzione consiste proprio nel portare a unità la natura e la persona. È qui che Losskij presenta il suo insegnamento della doppia economia di Cristo e dello Spirito Santo, uno degli aspetti più originali e discussi della sua teologia, sia per la singolare duplicità economica che egli ravvisa sia per – come possiamo concludere da Nikolaos Loudovikos – una debole connessione con la dottrina delle energie. Cristo riunisce nella sua natura umana le nature degli uomini, lo Spirito Santo realizza la distinzione delle persone in tale unità di natura. Ed è proprio questa la theosis: la realizzazione, in Cristo per lo Spirito Santo, della persona come unicità irripetibile nell’unità di un’unica natura. In tale realtà divino-umana trova attuazione la persona umana la cui immagine di Dio risiede nell’essere personale, non in un “qualcosa” – come osserva Norman Russell – ma nella relazione che costituisce la persona. Ebbene tale realtà divino-umana è la Chiesa, luogo della de-individualizzazione, del passaggio dalla coscienza individuale alla coscienza personale. Ora, la Chiesa non è se non è ipostatizzata. Come osserva Basilio Petrà, essa è per Losskij sì un soggetto di coscienza ma non un soggetto sovrapersonale ontologicamente identificabile: è quel modo di porsi della coscienza personale che, liberata dalle limitazioni individuali, può parlare come Chiesa.
Sono queste presenti brevi riflessioni, come detto sopra, un piccolo ma riconoscente tributo verso un teologo che ha posto al centro della riflessione ortodossa contemporanea temi di grande interesse come quelli passati in rassegna: il ricorso rigoroso ma creativo ai Padri greci, eredità e promessa tanto dell’Occidente che dell’Oriente; l’approccio apofatico della teologia che si attesta e focalizza sull’esperienza unitiva divino-umana che porta al superamento di una conoscenza non mistica, non trasfigurante ma intellettualistica e individualistica sul modello dell’adaequatio e che non arriva al carattere esistenziale-soteriologico del dogma; e, infine, l’idea di persona nel suo carattere ecclesiale che trova nell’economia divina la possibilità della realizzazione della sua verità, e che tanto ha influenzato e provocato la riflessione di grandi pensatori come Christos Yannaras, Ioannis Zizioulas e – si spera – altri ancora di una nuova generazione.