Presentazione degli articoli del mese di febbraio 2020

The_Candlemas_day_1731Andrea Drigani a mille anni dalla nascita di Ildebrando di Soana-Gregorio VII, ricorda l’opera di questo santo pontefice per la riforma dei costumi, per la rivendicazione della libertà della Chiesa nei confronti delle autorità politiche e per la santità del sacerdozio. Giovanni Campanella presenta il volume di Salvatore Natoli sulla storia dell’antropologia, che pone in rapporto la «metafisica del tragico» caratterizzante la mitologia greca, con la «teologia del patto» propria della Bibbia che nella relazione con Dio pone l’elemento stabile del mondo. Dario Chiapetti recensisce uno studio del medievista Dominique Poirel che illustra, anche con precise note storiche e filologiche, un manoscritto contenente un commento al «Padre nostro» che gran parte della critica attribuisce con molta probabilità a San Francesco d’Assisi. Leonardo Salutati ripercorre le tappe della storia dello «Stato sociale», che oggi viene contestato in nome del libero mercato il quale, tuttavia, per l’insegnamento cristiano, deve essere funzionale al bene comune e allo sviluppo integrale della persona. Giovanni Pallanti invita alla lettura del Diario 1930-1943 di Alcide De Gasperi dal quale emerge, in modo documentato, la compromissione di gran parte della gerarchia cattolica col fascismo e col nazismo. Carlo Parenti collega nella figura di Don Giulio Facibeni, l’essere stato dichiarato Venerabile e l’essere stato riconosciuto Giusto tra le Nazioni, all’insegna della carità di Cristo che non ha confini. Antonio Lovascio richiama l’attenzione sulla circostanza che l’anno prossimo sarà il settimo centenario della morte di Dante, la cui profonda dimensione cristiana è proclamata anche dal magistero degli ultimi pontifici iniziando da San Paolo VI. Mario Alexis Portella si sofferma sulla grave crisi nel Medio Oriente, che il Presidente USA Trump tenta di risolvere, che vede la difficile coesistenza tra israeliani e palestinesi, tra ebrei, cristiani e musulmani che appare assi difficile da risolvere, senza un forte impegno nel rispetto del diritto. Francesco Romano prende spunto dalle recenti decisioni di Papa Francesco per rammentare le differenze tra segreto naturale, segreto d’ufficio, segreto pontificio e sigillo sacramentale, nonché tra riservatezza e segretezza. Stefano Liccioli attraverso il libro-testimonianza del vescovo Luigi Bettazzi, ultimo padre conciliare italiano vivente, ripropone alcune passaggi storici dei lavori del Vaticano II, in particolare sull’opera di San Paolo VI per giungere il più possibile vicino all’unanimità nelle votazioni. Gianni Cioli con il manuale di Paolo Carlotti sulla teologia della morale cristiana, rileva che la teologia morale si comprende quale scienza interpretativa pratica che ha per oggetto la Rivelazione e si occupa dell’agire del credente in quanto partecipe di questa Rivelazione. Francesco Vermigli annota sulla figura di Santa Giovanna d’Arco, nel centenario della canonizzazione, in particolare sul suo essere donna in un mondo di soli uomini, che può essere utile per una riflessione sullo spazio che le donne possono avere nella Chiesa. Stefano Tarocchi dal saggio di Frédéric Manns prende l’occasione per riflettere sulle origini ebraiche, sovente oscurate, di Gesù, poiché l’incarnazione è anche umanizzazione e inculturazione. Alessandro Clemenzia relaziona su in incontro, svoltosi a Firenze con la presenza del cardinale Giuseppe Betori e dell’imam Izzeddin Elzir, nel primo anniversario del Documento di Abu Dhabi, nel quale sono state riconfermate le considerazioni che hanno ispirato il Documento: il risveglio religioso, l’educazione dei giovani, la risposta all’individualismo e all’estremismo. Carlo Nardi mediante gli studi di Massimo Bini, ci spinge a conoscere l’abate Ambrogio Autperto, vissuto nella prima età carolingia, che nelle sue opere, tra l’altro, indica Maria, come modello della Chiesa e sopra la Chiesa, nell’offerta di Gesù al tempio in vista della sua offerta sulla croce.




Teologia della morale cristiana, recensione a un manuale di Paolo Carlotti.

download (1)di Gianni Cioli • Il manuale di Carlotti, Teologia della morale cristiana (EDB, Bologna 2016), è un’opera che rende ragione della complessità della materia che affronta e che può risultare uno strumento efficace per consentire allo studente, con la mediazione di un docente, di individuare alcuni dei possibili percorsi interpretativi di questa complessità.

Il primo capitolo del libro – con una scelta significativa operata per altro da altri manuali di teologia morale fondamentale recenti, come quello del 2013 di Cataldo Zuccaro – è dedicato alle tematiche della “Epistemologia e metodologia in teologia morale”, e mette bene in evidenza come la teologia morale si autocomprenda quale scienza interpretativa pratica che ha per oggetto, formale e materiale, la rivelazione cristiana e che si occupa dell’agire del credente in quanto partecipe di questa rivelazione.

Si tratta di un capitolo denso e ricco, nel quale emergono, tra le altre, le questioni della necessaria interdisciplinarietà, dei diversi possibili approcci filosofici, del rapporto col diritto, nonché dei diversi criteri di verità che possono essere presenti nella definizione dello statuto concettuale di verità morale: ad esempio, il criterio della coerenza sistemica, o del consenso, piuttosto che della corrispondenza dell’intelletto con l’oggetto.

Precisata la prospettiva scientifica della teologia morale come una scienza interpretativa pratica che muove dalla rivelazione cristiana e che si occupa dell’agire umano in quanto partecipe di questa rivelazione, Carlotti sviluppa una sezione per così dire esperienziale e descrittiva del dato, sia antropologico che teologico, che costituisce la premessa di tutta la trattazione.

Il percorso descrittivo si articola nei capitoli secondo, terzo e quarto. Nel secondo, viene considerato in particolare il dato antropologico attraverso “La descrizione psicologica dell’esperienza morale” nel quale si mettono a confronto alcuni modelli interpretavi della psicologia morale, a partire da quello cognitivista e costruttivista di Lawrence Kohlberg. Questa analisi è presumibilmente debitrice anche degli anni di studio alla Gregoriana che Carlotti ha condiviso con me – erano gli anni ’80 – quando vi insegnava, fra gli altri, padre Bartolomew Kiely, sagace fautore del dialogo interdisciplinare fra psicologia e teologia morale.

Il terzo capitolo si concentra invece sul dato teologico a partire dalla rivelazione, attraverso la presentazione de “Il messaggio morale della Bibbia”. Qui colpisce la vastità della documentazione riportata, come pure la lucidità con cui vengono affrontate le problematiche ermeneutiche relative ai generi letterari.maxresdefault

Nel quarto capitolo il percorso descrittivo si sviluppa nella considerazione de “La vicenda storica della teologia morale” articolandosi in due sezioni: la prima è una presentazione molto sintetica ma efficace della teologia morale fino al Vaticano II; la seconda è piuttosto un’esegesi analitica delle indicazioni conciliari presenti nel famoso testo di OT 16, cui vengono premesse considerazioni opportune sui criteri interpretativi e sugli aspetti della recezione del concilio. Nella conclusione, si dedica un paragrafo alla dimensione pastorale della teologia morale in linea con gli intenti conciliari. Un particolare rilievo meritano le sottolineature date da Carlotti alla centralità della questione pedagogica e formativa e alla dimensione pastorale dell’insegnamento morale di Papa Francesco: «È giunto il tempo, e sembra proprio questo, il nostro tempo, – scrive Carlotti a proposito del carisma di papa Francesco – in cui si tratta di aprire un dialogo più intenso con l’esistenza concreta dei singoli, dei popoli e delle culture per incarnare la salvezza di Cristo nei dilemmi reali dell’uomo e del cristiano e mostrare nuovamente la capacità di risposta di quella a questi» (p. 130).

A partire dal capitolo quinto, si sviluppa quella che possiamo definire la sezione interpretativa del manuale. Questo sviluppo interpretativo, che segue e completa quello descrittivo dei primi quattro capitoli, va articolato, secondo l’autore, a sua volta in due momenti: un momento speculativo cui segue un momento pratico.

Il momento speculativo dello sviluppo interpretativo viene affrontato nel capitolo quinto che si intitola di “Elementi di antropologia”, dove vengono enucleati, appunto, una serie di elementi ritenuti costitutivi della persona umana, indicando, a mo’ di premessa, la categoria della storicità come costitutivo antropologico chiave. La scelta di incentrare la proposta antropologica attorno alla categoria della storicità mi è parsa particolarmente felice, e vi ho ravvisato ancora una volta la possibile influenza di un altro comune maestro della Gregoriana, Klaus Demmer, qui del resto espressamente citato insieme ad altri autori.

Con il capitolo sesto Carlotti ci introduce nel momento pratico dello sviluppo interpretativo del suo manuale. Il capitolo si intitola “Lettura cristologica dell’antropologia morale”. «In Cristo – sottolinea l’autore – Dio e l’uomo sono pienamente rivelati: Dio all’uomo e quindi l’uomo a se stesso». Il testo chiave di riferimento è evidentemente GS 22. «In questa rivelazione – afferma ancora Carlotti – per l’uomo si dischiudono sia l’ultima definitività del suo significato e sia la reale abilitazione cristiana del suo agire. Qui è posta, in un unico e stesso movimento, l’inevitabilità del raccordo cristologico e il conseguente ritrovarsi della teologia antropologica e della teologia morale» (p. 151). Vengono dunque esposti prima di tutto alcuni spunti di cristologia sistematica che servano da base per lo sviluppo del discorso sulla rilevanza cristologica della morale cristiana, ripercorrendo fra l’altro il noto dibattito fra etica della fede ed etica autonoma, soffermandosi poi sulla questione dello specifico della morale cristiana, per giungere infine a considerare la fondamentale tematica del rapporto fra magistero ecclesiale e morale cristiana, mettendo particolarmente in evidenza l’ecclesialità della morale cristiana.

Nel settimo capitolo, intitolato “L’interpretazione della moralità”, Carlotti intende appunto offrire un’interpretazione della moralità nella sua oggettività a partire da una presentazione e valutazione ordinata delle diverse linee interpretative che emergono attualmente nell’ambito della morale.

L’autore delinea tre approcci interpretativi di base della moralità, che non escludono tuttavia l’esistenza di paradigmi mediani. Gli approcci interpretativi fondamentali possono essere individuati a partire dal punto di osservazione del fenomeno etico, esterno o interno al soggetto agente. Così si possono distinguere etiche di “terza persona”, caratterizzate da un punto di vista esterno al soggetto (è il caso della teoria consequenzialità dell’agire); etiche di “seconda persona”, incentrate sulla dimensione relazionale della persona (come il personalismo di Levinas, ma anche l’etica della situazione); e, infine, etiche di “prima persona”, caratterizzate dal punto di vista interno all’agente stesso. Fra quest’ultime, Carlotti considera l’etica trascendentale di derivazione kantina, con particolare attenzione all’impostazione di Demmer e alla proposta di un’etica esistenziale formale di Karl Rahner; l’approccio fenomenologico alla morale, con una particolare attenzione alla proposta di Giuseppe Angelini; e, infine, l’approccio etico che comprende la persona come soggetto morale intenzionale, approccio tipico – secondo Carlotti – del pensiero scolastico in genere, e in modo particolare di Tommaso d’Aquino, e secondo lui il più adeguato per interpretare il significato della morale cristiana.

Nel corso del capitolo Carlotti assume e valorizza alcune fondamentali istanze della Veritatis splendor, e illustra con efficacia didattica e valuta con equilibrio tematiche controverse della morale tradizionale, come la questione dell’intrisece malum in relazione alla tradizionale considerazione delle fonti della moralità.

Nel capitolo ottavo l’accento è posto sulla soggettività del processo decisionale nell’esperienza morale, mettendo in evidenza come l’etica di prima persona (e in essa quella intenzionale) risulta compatibile con due moduli interpretativi, differenti ma complementari, quello della virtù (preferito da Carlotti) e quello della norma. Entrambi i moduli si posso articolare, con accentuazioni diverse, nelle tematiche chiave delle virtù teologali e cardinali, della legge morale naturale, dell’opzione fondamentale e della coscienza morale. L’autore non ha timore di affrontare in modo diffuso e articolato queste tematiche, che sono ampiamente presenti e dibattute nelle trattazioni teologiche e nei pronunciamenti magisteriali recenti. Ho apprezzato particolarmente le pagine dedicate alle virtù, un vero e proprio piccolo trattato. Del resto l’autore aveva dedicato recentemente al tema una breve monografia: La virtù e la sua etica (2013).

L’ultimo capitolo, il nono, prende in considerazione il tema de “La negatività morale”, ovvero del male morale, e la sua specifica dimensione teologica, cioè il peccato, per concludere in positivo con uno sguardo al tema della conversione.

Come si è detto all’inizio e come si sarà potuto constatare, il manuale di Carlotti è un’opera che rende ragione della complessità della materia che affronta. La densità del linguaggio che caratterizza lo stile di Carlotti, soprattutto in questa sua ultima fatica, risulta a mio avviso un indicatore onesto della densità di un percorso che non può, oggi men che mai, permettersi scorciatoie semplificanti ma deve accogliere la sfida della fatica del concetto.

A mio avviso già il titolo caratterizzato da un inconsueto genitivo: “Teologia della morale cristiana”, anziché “Teologia morale cristiana” o piuttosto “Teologia morale fondamentale”, è indicativo della volontà di offrire una riflessione sulla riflessione, illustrando oggettivamente e criticamente, per così dire, lo stato dell’arte del cantiere “teologia morale” alle prese con le nuove e antiche sfide.




L’Ambrogio Autperto di Massimo Bini

7RuYhf5pOuUP_s4di Carlo Nardi • Massimo Bini, prete fiesolano, curò per la collana Biblioteca patristica delle Dehoniane di Bologna una edizione critica di due sermoni mariani ad opera di Ambrogio Autperto (+784), abate del monastero di San Vincenzo al Voltumo nella prima età carolingia. Dei sermoni uno è Sulla purificazione e l’altro Sull’assunzione della Vergine. L’introduzione, ben strutturata e documentata, è sobria per quanto attiene ai tempi, all’ambiente, alle idee. Bini con finezza interpretativa offre una ricognizione della spiritualità e in specie della vasta teologia mariana. Egli ricostruisce la tormentata vicenda umana, ecclesiastica e politica di Autperto per soffermarsi sulla produzione maggiore, il Commento all’Apocalisse, ed una minore con i testi morali, agiografici e omiletici, tra i quali appunto i due Sermoni mariani.

Con rilevante dottrina storica e letteraria il curatore si mette sulle tracce di un percorso mariologico che dalle fonti bibliche e patristiche, specialmente latine, si addentra nel cuore del medioevo. Proprio per effetto della meditazione di Autperto, dottrina e culto attinente alla Vergine Maria conoscono svolte che percorreranno ampiamente il secondo millennio. Al contempo l’autore non dimentica la semplicità a cui attinge per una rielaborazione. Tra gli ulteriori sviluppi rispetto alla tradizione patristica si ravvisa in Autperto la concezione della Madonna come “modello (typus) della Chiesa sopra la Chiesa” nell’offrire il bambin Gesù al tempio in vista della sua offerta sulla croce. Ne derivano l’intercessione universale ed efficace di Maria avvocata con tratti di filiale confidenza nella contemplazione, nella lode e nella supplica. Don Massimo si sofferma su titoli mariani inaugurati da Autperto, titoli che ben esprimono la mariologia è costituiscono un ‘germoglio’ di litanie, destinato a fiorire nel medioevo di san Bernardo e fino alla devozione modema.

A Bini dobbiamo pertanto un testo critico che, oltre a quello offerto dal Corpus Christianorum, è frutto della collazione dei codici dell’uno e l’altro sermone. Pertanto il testo da lui restituito offre molteplici apporti. Ancora. L’Autperto mariano che abbiamo tra le mani è dotato di riferimenti ai Padri della Chiesa, che contribuiscono a decodificare il molteplice e accattivante mondo immaginifico relativo a Cristo, a Maria, alla Chiesa e ad ogni cristiano. L’antico monaco, interprete attento e dotto, ci inoltra in un mondo pregnante di risvolti teologici – penso alla curiosa immagine Cristo noce -, e prepara una fiorente fortuna di motivi mariani nei secoli successivi.

L’opera di don Bini, sotto l’auspicio dell’abate Autperto, offre pertanto al lettore studi rigorosi, di gustose meditazioni e semplicemente di preghiere. Con la lettura del libro saremo grati a don Massimo per averci piamente illuminati e piamente incuriositi.download (3)

E per saper la storia? Si legga La Purificazione di Maria. Traduzione e commento, Istituto superiore di Scienze religiose Beato Ippolito Galantini. Classici 4 (Montespertoli (Firenze), Aleph Edizioni) gennaio 2008, con mia Presentazione (pp. 7-10). Poi, martedì 19 febbraio 2008 nell’Aula Giuliotti della Biblioteca Bandiniana in Fiesole (Piazza Mino 1) fui invitato a presentare il libro suddetto, e delle riflessioni mi diventarono articoletti: Oltre le consegne dell’antico Fauno. San Valentino e dintorni, in Vivens homo 19 (2008), pp. 81-111, e Candelora, purificazione, presentazione. Attorno a un’omelia di Ambrogio Autperto, in Memoria Verbi. Saggi in onore di mons. Benito Marconcini a cura di L. Mazzinghi, B. Rossi e S. Tarocchi, in Vivens homo 21 (2010), pp. 255-265. Dopo la dissertazione dottorale in Patristica e Scienze patristiche presso l’Augustinianum a Roma, relatore il prof. Manlio Simonetti, correlatore me medesimo, 30 gennaio 2012, nel 2015 apparvero i Sermoni mariani. Introduzione, testo, traduzione e commento, Bologna, Dehoniane (Biblioteca Patristica no 52 a cura del Centro di Studi Patristici, diretta da Carlo Nardi e Manlio Simonetti) 2015. Infine giovedì 28 maggio nel 2015, ore 17 in Via dello Studio 1 in Firenze, nella serie delle Letture Patristiche 2014-2015 a cura del Centro di Studi Patristici una conferenza: La Madre dei credenti. Le omelie mariane di Ambrogio Autperto nell’edizione di Massimo Bini, con le considerazioni di Manlio Simonetti e Rocco Ronzani. È di lì a poco inviai Dai tempi di Carlo Magno l’abate Autperto ci, parla di Maria. La raccolta curata da don Massimo Bini a Toscana Oggi – L’Osservatore Toscano, domenica 31 maggio 2015, p. 8. Intanto Manlio Simonetti scriveva: Nei sermoni mariani di Ambrogio Autperto Magnifica donna, in L’Osservatore Romano, mercoledì 17 giugno 2015.




Giovanna d’Arco a 100 anni dalla canonizzazione: una donna tra gli uomini

Giovanna d'Arcodi Francesco Vermigli • Abbiamo un po’ di timore a parlare di Giovanna d’Arco a cento anni dalla sua canonizzazione, avvenuta a Roma il 16 maggio 1920, ad opera di papa Benedetto XV. Abbiamo timore, perché scrivere di Giovanna d’Arco è un po’ come scoperchiare la storia di Francia degli ultimi sei secoli. Ricordare la “Pulzella d’Orléans” significa infatti richiamare una vicenda – che ben presto è divenuta leggenda – fatta di speranze disilluse e di tradimenti, di guerra e di tregue armate, di castelli e di cattedrali, di visioni e di profezia, di patria da difendere, di popolo che si mobilita nel suo ricordo e di partiti politici che l’hanno usata, di ideologie che se ne contendono l’eredità, di cultura popolare e di arte che ne hanno costruito l’immaginario. Davvero della storia di Giovanna è intrisa la memoria di un’intera nazione.

In un fermo immagine di uno dei primi film su di lei, di poco anteriore alla sua canonizzazione, si legge qualcosa di assai interessante, che può essere inteso per noi come lo spunto per provare a dire qualcosa su Giovanna. È un film muto americano del 1916, diretto da Cecil B. DeMille e intitolato, significativamente, Joan the Woman: la cornice consiste nella storia di un soldato inglese che tra le trincee in Francia durante la Grande Guerra sogna la vita di Giovanna. In quel fermo immagine, vi si legge, in inglese, dopo meno di un minuto dall’inizio: «Fondato [il film] sulla vita di Giovanna d’Arco, la ragazza patriota, che ha combattuto con gli uomini, è stata amata dagli uomini, è stata uccisa dagli uomini, e nonostante questo ha mantenuto un cuore di donna». E per quanto la trama della vita raccontata nel film sia molto arbitraria e a dir poco bizzarra, quelle poche parole possono diventare per noi come la pista da percorrere per parlare di Giovanna; giovane donna della più profonda campagna francese, che prende la spada, sotto la spinta di alcune voci misteriose, per la difesa della patria dall’esercito inglese. E fa tutto questo in un mondo di soli uomini.

Se vengono percorsi gli atti del processo che condurrà alla sua condanna e al rogo il 30 maggio 1431, nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen, si rimane colpiti dall’insistenza con cui gli interrogatori si avvolsero su una questione che parrà marginale ai nostro occhi, ma che fu uno dei capi di imputazione più rilevanti ai fini della condanna: il fatto, cioè, che Giovanna vestisse abiti maschili, dal giorno in cui aveva iniziato a guidare le truppe francesi sotto assedio a Orléans. In fondo, quel capo d’accusa ben rappresenta lo sconcerto che provocò fin dall’inizio di questa vicenda l’arrivo di una donna giovanissima tra le truppe francesi fedeli al Delfino di Francia, poi consacrato re a Reims, il 17 luglio 1429; proprio sotto la spinta dei successi militari, indotti dalla fama che quella ragazzina aveva acquisito, tra moltissime resistenze, nell’esercito. Una donna, per di più giovanissima e appartenente ad una famiglia di contadini, si pone come guida e ispiratrice di un esercito e di un popolo; sotto la protezione di San Michele Arcangelo, di Santa Caterina e di Santa Margherita e a seguito della volontà divina.unnamed

Questa è dunque la storia di una donna che vive e combatte e prega in un mondo di soli uomini: un mondo fatto di uomini increduli e sempre assai sospettosi nei suoi confronti; di uomini calunniatori e volgari; di uomini che hanno provato a violentarla, o di uomini che l’hanno usata per ragioni di potere, per poi finire con l’abbandonarla. Ma è anche una storia di uomini che le hanno creduto dopo molti dubbi, di uomini che l’hanno seguita nelle sue follie belliche, che l’hanno soccorsa quando è rimasta ferita, che l’hanno difesa in tribunale – denunciando, a rischio del carcere e della libertà, le scorrettezze del processo – che l’hanno confessata e assolta, che hanno avuto per lei ultimi gesti di pietà sulla pira infame a Rouen. Uomini che infine l’hanno riabilitata, per volontà del papa Callisto III a venticinque anni dalla morte e in un contesto politico e militare ormai ribaltato.

Nella vicenda di Giovanna si aggrumano elementi diversissimi: l’origine umile ma dignitosa, la schiettezza della fede aperta agli influssi della spiritualità minoritica, l’indole decisa e battagliera… eppure l’essere donna in un mondo di soli uomini, appare come l’aspetto forse più decisivo in un mondo e in una Chiesa che si chiedono ai nostri giorni che spazio abbia la donna nella società e nella comunità dei credenti. In una mirabile catechesi proprio su Giovanna (link), Benedetto XVI mostrava come vi siano stati momenti nella storia della Chiesa e nella stessa storia della salvezza in cui le donne hanno svolto un ruolo decisivo e profetico: per semplificare, momenti in cui le donne hanno scelto con chiarezza il bene e lo hanno additato a tutti. Come ha fatto Giovanna d’Arco tanto sulle mura di Orléans sporche di sangue, quanto a Rouen; indicando a tutti anche nell’ultimo istante della sua vita l’amore per Gesù, per la sua croce, per il suo Nome.




Il segreto pontificio e gli abusi su minori e persone vulnerabili alla luce dell’Istruzione sulla «riservatezza delle cause» (17.12.2019)

normadi Francesco Romano • Il Santo Padre Francesco il 4 dicembre 2019 ha stabilito di emanare il “Rescriptum ex audientia SS.MI con cui si promulga l’Istruzione sulla riservatezza delle cause”, pubblicato il 17 dicembre 2019.
Parlando di “riservatezza” occorre precisare che a diversi livelli viene richiesto di custodire il segreto su cose di cui si è venuti a conoscenza a diverso titolo che “se rivelate o se rivelate in tempo o in modo inopportuno, nuocciono all’edificazione della Chiesa o sovvertono il bene pubblico oppure offendono i diritti inviolabili di privati o comunità” (cf. Communio et progressio, 121).

L’inviolabilità assoluta del segreto riguarda il sigillo sacramentale a cui è tenuto il sacerdote confessore, senza eccezione alcuna, anche a costo della sua stessa vita, pena la scomunica latae sententiae. Vi è poi il normale segreto d’ufficio previsto dal can. 471, 2, oppure il segreto al quale sono tenuti i chierici per quanto sia stato loro confidato in ragione del sacro ministero, ma anche chi svolge una professione come medici, avvocati, magistrati ecc. In tal senso il diritto processuale canonico regola la capacità o meno di essere testimoni (cf. can. 1549) o chi può essere esentato dal rispondere come testimone (cf. can. 1548).

Un’altra tipologia di segreto che ha motivato il recente Rescritto con le nuove norme sulla riservatezza delle cause, è il “segreto pontificio”. La materia coperta dal segreto pontificio fu regolata da norme emanate con il Rescritto “Secreta continere” di Paolo VI il 4 febbraio 1974 che nel preambolo recita: “in alcune questioni di maggior rilevanza viene richiesto un particolare segreto, detto segreto pontificio che deve essere custodito con grave obbligo”. Si tratta di uno speciale dovere di riservatezza, assunto con una speciale formula di giuramento, tutelata dalla legge canonica e imposta a una determinata categoria di persone come i vescovi e gli ufficiali di curia. Tra le materie coperte dal segreto pontificio, così come è rimasto in vigore fino al 17 dicembre 2019, prima della promulgazione dell’Istruzione sulla “riservatezza delle cause”, sono incluse le denunce di delitti contro la fede e i costumi, e di delitti perpetrati contro il sacramento della penitenza. Nello specifico, sono soggette al segreto pontificio le cause sottoposte al giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede per i delitti contro la fede e i delitti più gravi commessi contro i costumi previsti dal Motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela” del 21 maggio 2010 (il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni e l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori sotto i quattordici anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento) o nella celebrazione dei sacramenti.
Il Motu proprio “Vos estis lux mundi”, senza fare riferimento al segreto pontificio, mentre impone a chierici e consacrati l’obbligo di denunciare le notizie di abusi sessuali su minori commessi da chierici e consacrati, e uguali comportamenti commessi anche con adulti vulnerabili o con chiunque venisse costretto con abuso di autorità, violenza o minaccia, precisa che la segnalazione non sarebbe stata considerata una “violazione del segreto d’ufficio” (Art. 4 §1).cq5dam.thumbnail.cropped.1500.844
Per superare i limiti imposti dall’Istruzione “Secreta continere” che regola il segreto pontificio relativamente a denunce, processi e decisioni gravi contro la morale, l’Istruzione sulla “riservatezza delle cause” (n. 1) modifica la predetta Istruzione su due punti: A) facendo decadere il segreto pontifico di cui “all’Art.1 del Motu proprio “Vos estis lux mundi”(sub 1 §1a: abuso di autorità nel costringere ad atti sessuali; abuso sessuale di minori o di persone vulnerabili; utilizzo di materiale pornografico che rappresenti un minore; sub 1 §1b: occultamento di queste condotte in inchieste ecclesiastiche); B) “Normae de gravioribus delictis riservati al giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede, di cui al Motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela”, di S. Giovanni Paolo II, del 30 aprile 2001, e successiva modifica del 21 maggio 2010 di Benedetto XVI” (cf. “Rescritto ex audientia […] modifiche alle Normae de gravioribus delictis” del 17.12.2019, Art. 1: circa il reato da parte di un chierico di acquisizione o detenzione o divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche l’età del minore è innalzata a diciotto anni). Tali condotte non sono più oggetto di segreto pontificio anche nel caso in cui venissero compiuti in concorso con altri reati che pure siano oggetto di segreto pontificio (cf. “Rescritto ex audientia sulla riservatezza delle cause”, 17.12.2019, n. 2). Il segreto pontificio nella materia di cui si tratta decade anche rispetto all’adempimento degli obblighi stabiliti dalle leggi statali, compresi gli obblighi di segnalazione (cf. “Rescritto ex audientia sulla riservatezza delle cause”, 17.12.2019, n. 4).
L’Istruzione sulla “riservatezza delle cause”, nella sua brevità che consta di soli cinque numeri, eleminando il segreto pontificio su una materia complessa che vede coinvolte persone e istituzioni nel compimento di reati gravissimi non significa che abbia cancellato il segreto come tale. L’Istruzione richiama a due obblighi: a) “garantire la sicurezza, l’integrità e la riservatezza ai sensi dei canoni 471, 2 CIC e 244 §2, 2 CCEO, al fine di tutelare la buona fama, l’immagine e la sfera privata di tutte le persone coinvolte” (n. 3); b) “Il segreto d’ufficio non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché all’esecuzione delle richieste esecutive delle autorità giudiziarie civili” (n. 4).
Il segreto d’ufficio regola il dovere di riservatezza al quale sono tenuti i vescovi, gli ufficiali di curia e quanti sono chiamati a collaborare per ragioni d’ufficio, soprattutto per tutelare il diritto alla buona fama delle persone previsto dal can. 220, come veniva richiesto anche dal Motu proprio “Vos estis lux mundi” (Art. 2 §2).
Quindi il segreto d’ufficio comporta l’obbligo della riservatezza per quanto attiene ciò che è stato conosciuto in ragione dell’ufficio svolto e che non deve essere condiviso con nessun’altro che sia estraneo alla trattazione della causa.

L’Istruzione sulla “riservatezza delle cause” regola altri due ambiti circa il diritto alla riservatezza. Il primo è dato dal n. 4 in cui si ribadisce che il segreto d’ufficio non costituisce ostacolo “all’adempimento degli obblighi previsti dalle leggi statali per questi casi. Il secondo riguarda il n. 5, relativamente alla persona che fa la segnalazione di essere stata offesa e ai testimoni non può essere imposto alcun vincolo di silenzio.

Nessun richiamo viene fatto in questa Istruzione al sigillo sacramentale, proprio perché questo è evidente per ciò che riguarda la sua integrità e intangibilità e di questo si era già occupata anche la recente Nota della Penitenzieria Apostolica del 1° luglio 2019 sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale.

In definitiva il Motu proprio “Vos estis lux mundi” avendo ampliato l’ambito e le modalità della segnalazione di determinati abusi sessuali, estendendola anche a membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica (Art. 3), sottolinea che una segnalazione fatta a norma dell’Art. 3 non costituisce una violazione del segreto d’ufficio (Art. 4), ma essendo rimasto in vigore il Rescritto “Secreta continere” circa l’obbligo di osservanza del segreto pontificio, si rendeva necessaria una normativa ad hoc per superare i limiti che da esso derivavano per quanto attiene alla materia oggetto del Motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela” e al Motu proprio “Vos estis lux mundi”.

Pertanto, potremmo dire che il Rescritto sulla “riservatezza delle cause” (17.12.2019) è il punto di arrivo e di completamento del Motu proprio “Vos estis lux mundi”, della “Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale” (1.07.2019), del “Rescritto del S. Padre Francesco con cui si introducono alcune modifiche alle Normae de gravioribus delictis” (17.12.2019).

Per concludere è necessaria una parola di chiarezza rispetto a notizie generiche divulgate in diversi casi dalla Stampa. Non è stato abolito il “segreto pontificio” come tale, ma è stata introdotta una deroga all’Istruzione “Secreta continere” per quanto attiene alle materie descritte nell’Art. 1 del Motu proprio “Vos estis lux mundi” (abuso di autorità, violenza o minacce da parte di un chierico o di membri di Istituti di vita consacrata o di Società di vita apostolica nel costringere ad atti sessuali, abuso sessuale di minori o di persone vulnerabili, occultamento di queste condotte in inchieste ecclesiastiche) che a quelle contenute nell’Art. 6 del Motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela” (reati di abuso sessuale con minori di diciotto anni o con soggetti incapaci; reati di acquisizione, o detenzione, o divulgazione a fine di libidine di immagini pornografiche da parte di un chierico che abbiano per oggetto giovani al di sotto di diciotto anni). Per questi casi l’abolizione del segreto pontificio non significa aver cancellato il normale segreto d’ufficio, cioè l’obbligo di garantire la sicurezza, l’integrità e la riservatezza da parte di chi viene a conoscenza di notizie a motivo dell’ufficio svolto, come è stabilito dal can. 471, 2 del Codice di Diritto Canonico, che lederebbe non solo un principio morale, ma anche giuridico (cf. can. 220) “al fine di tutelare la buona fama, l’immagine e la sfera privata di tutte le persone coinvolte” (Rescritto sulla “riservatezza delle cause” n. 3). Il “segreto d’ufficio” tuttavia non osta agli obblighi stabiliti dalle leggi statali circa questa materia (cf. “Rescritto sulla riservatezza delle cause” n. 4).




Don Giulio Facibeni, Giusto tra le Nazioni e Venerabile

don-facibeni-la-pira-440x264di Carlo Parenti • Voglio qui collegare due avvenimenti per affrontare la tematica universale del bene contro il male:

1- il decreto firmato il 12 dicembre scorso da Papa Francesco che ha riconosciuto le virtù eroiche del fondatore dell’Opera Madonnina del Grappa, il Servo di Dio Giulio Facibeni, che così è stato proclamato Venerabile. Il decreto è un atto del processo di beatificazione e il futuro riconoscimento di un miracolo attribuito a don Facibeni potrebbe adesso consentire di proclamarlo Beato.

2- il Giorno della Memoria, ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno per commemorare le vittime dell’Olocausto, istituito dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005. Esso cade negli anniversari della liberazione dei sopravvissuti dal campo di concentramento di Auschwitz. Questo del 2020 è il 75° anniversario.

Ebbene il legame tra i due eventi è giustificato dal fatto che il Padre, come i suoi orfani appellavano don Giulio, è un Giusto tra le Nazioni per la sua opera a favore degli ebrei a Firenze durante l’olocausto. Il termine Giusti tra le nazioni (Righteous Among the nations, in ebraico: Chasidei Umot Haolam) indica i non ebrei che hanno rischiato la propria vita per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista, dalla Shoah. Sono oltre 20.000 i Giusti nel mondo e 417 gli italiani e l’elenco di questi è nel sito: storiaxxisecolo.it alla voce: deportazionegiusti.

Infatti don Facibeni nascose nella sua Opera molti ebrei ricercati dai tedeschi insieme anche a patriotti, partigiani e clandestini.

Ne scrive lo stesso don Giulio [vedi: Enzo Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI, 2 voll. (Roma: Carocci, 2007)] in una relazione sul passaggio del fronte inviata alla curia fiorentina il 19 gennaio 1945 : “dagli ultimi del 1943 fino alla liberazione [l’Opera] ha ricoverato e provveduto al mantenimento di dieci fanciulli, tre donne, tre giovani e due uomini ebrei”. Tra di essi vi sono i fratelli Cesare e Vittorio Sacerdoti, di due e cinque anni, (accolti a Montecatini Terme) e Louis e Harry Goldman (di 18 e 16 anni) e Willy Hartmayer (di 16 anni), affidati alla cura di don Facibeni da don Leto Casini –altro indimenticabile Giusto- e della cui salvezza egli si occupa in prima persona a Rifredi.targa

Ricorda Louis Goldman, in un libro da lui pubblicato negli Stati Uniti [Goldman L., Friends for Life: The Story of a Holocaust Survivor and His Rescuers, 1993] e poi tradotto in Italiano [Louis Goldman, Amici per la vita ,Ed. SP44,Firenze, 1983] che in primavera sarà nuovamente nelle librerie per iniziativa dell’Opera Madonnina del Grappa, con prefazione di don Corso Guicciardini, successore del Padre:

«La fama delle buone azioni di Mons. Facibeni si era sparsa fuori dell’orfanotrofio ed egli era stimato e rispettato in tutta Firenze… Era impossibile non essere toccati dalla sua umiltà, gentilezza e salda fede nella Divina Provvidenza… Divenne una abitudine accompagnarlo nei suoi giri per l’orfanotrofio. Spesso egli mi invitava perfino nella sua stanza a fare quattro chiacchiere… Il più delle volte chiacchieravamo toccando una ampia gamma di argomenti, la guerra naturalmente, sempre la guerra: sarebbe mai finita?… Parlavamo anche di argomenti più elevati: natura umana, filosofia, religione… Dalle sue finestre guardavo fuori attraverso il cortile fino alla casetta dove vivevamo Willy ed io. “Poveri ragazzi!” gli sentii sussurrare all’improvviso. Mi voltai e mi resi conto che mi guardava ma proprio allora la sua compassione lasciò il posto al sorriso: “Coraggio, su coraggio”… La cosa più sorprendente era che il Padre, anche nella cordiale intimità dei nostri “téte a téte”, non fece mai il minimo sforzo per allontanarmi dal giudaismo e convertirmi… Mons. Facibeni, al contrario, fece tutto quello che poteva per rafforzarmi nella mia: “Mantieni la tua fede, le tue tradizioni… Anche se ora stai attraversando un difficile periodo della tua vita non rinunciare mai alla tua fede”. In una occasione mi disse eccitato: “Ho qualcosa che voglio darti”, e andò a cercarlo tra i molti libri lì nei suoi scaffali, lo trovò e me lo consegnò con ovvio piacere. Un piccolo volume di grammatica della lingua ebraica. Fui toccato dal suo gesto, e alla vista dei caratteri familiari ne restai commosso. Ma lui mi strinse al petto con un abbraccio affettuoso

Per ulteriori notizie sull’azione di don Giulio Don Facibeni nel soccorso agli Ebrei stranieri rifugiati a Firenze e sull’aiuto dato a Louis e Harry Goldman e all’altro giovinetto, Willy Hartmayer, si veda anche (Link). In particolare, per maggior sicurezza, Don Facibeni nascose i tre ragazzi in un piccolo edificio separato dall’Opera procurando loro documenti falsi che li identificano come profughi italiani di guerra provenienti da Nizza. I tre in realtà erano scappati prima dalla Francia e poi dalla caserma-prigione sul Lungarno Pecorari dove sono state rinchiuse le famiglie di Ebrei stranieri arrestati durante la retata del 6 novembre 1943, in attesa della deportazione ad Auschwitz.

In altra relazione redatta nel maggio 1945 da Eugenio Artom (rappresentante della comunità ebraica fiorentina nel periodo bellico), risulta anche che “Mons. Giulio Facibeni, Parroco di Rifredi” – assieme alla “Superiora del Monastero della Calza, quella del Monastero di San Ambrogio, [e] il Parroco di S. Francesco di Piazza Savonarola” – fu uno dei religiosi incaricati dai primi mesi del 1944 dal card. Elia Dalla Costa della “corresponsione materiale” di un sussidio individuale mensile di L.150 corrisposto clandestinamente ad ebrei dalla DELASEM, che aiutò tanti ebrei fiorentini nascostisi in città.[cfr il citato libro del Collotti]. DELASEM è l’acronimo di Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei, che è stata un’organizzazione di resistenza ebraica che operò in Italia tra il 1939 e il 1947 per la distribuzione di aiuti economici agli ebrei internati o perseguitati, potendosi avvalere anche del supporto di numerosi non ebrei.

Altri i Giusti che operarono a Firenze oltre il Padre e don Leto Casini: Il card. Elia dalla Costa, don Cipriano Ricotti, madre Maria Agnese Tribbioli, Mons. Giacomo Meneghello, Gino Bartali e anche il lucchese don Arturo Paoli. Quanto al cardinale Dalla Costa così scrive lo Yad Vaschem di Gerusalemme nella motivazione della nomina a Giusto: «per aver offerto rifugio a oltre 110 ebrei italiani e 220 stranieri».

Come si legge nel Talmud: «Chi salva anche solo una vita, salva il mondo intero».




I Diari di De Gasperi 1930-1943: la compromissione della chiesa col fascismo e col nazismo

di Giovan51bdQSul-jLni Pallanti • La lettura del diario di Alcide De Gasperi negli anni in cui è stato in Vaticano è agghiacciante ( Alcide De Gasperi Diario 1930 – 1943 a cura di Maria Luisa Lucia Sergio; prefazione di Maria Romana De Gasperi  Ed. Il Mulino 2018). Una lettura sconvolgente perché in questo diario lungo tredici anni De Gasperi annota di volta in  volta gli avvenimenti più importanti e le reazioni che questi causavano in Vaticano. Il 28 ottobre 1922 Mussolini arriva al potere con la complicità del Re d’Italia Vittorio Emanuele III e l’arrendevolezza di una classe dirigente liberale in progressivo disfacimento. Il primo governo Mussolini ebbe l’appoggio anche del Partito Popolare Italiano di Don Luigi Sturzo  di cui De Gasperi era deputato.  Dopo una breve collaborazione il Congresso di Torino del PPI del 1923 constatò la natura violenta e totalitaria del fascismo e ruppe l’alleanza di governo. Sturzo fu costretto da Mussolini e dal Cardinale Gasparri, segretario di stato di Pio XI, a lasciare la politica e l’Italia andando in esilio prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. De Gasperi venne arrestato a Firenze l’11 marzo del 1927 e  rinchiuso a  Regina Coeli a Roma. Quando uscì dal carcere fu assunto in Vaticano come bibliotecario soprannumerario: un lavoro avventizio e mal pagato. Il diario comincia da questa assunzione che lo mette in contatto con la Curia romana e i maggiori esponenti della Chiesa Cattolica italiana e internazionale. De Gasperi non veniva contattato per il lavoro che svolgeva ma per quello che era stato nella politica austriaca e dopo la prima guerra mondiale in quella italiana fino all’avvento del fascismo. De Gasperi annota tutto quello che di importante viene a sapere: il sostanziale isolamento del Papa Pio XI, il filo fascismo e filo nazismo del Cardinale Eugenio Pacelli, nuovo segretario di Stato, la viltà di alcuni prelati che si adoperavano in tutti i modi possibili per umiliarlo: in modo particolare Mons. Giuseppe Monti segretario generale della esposizione della stampa cattolica mondiale dove De Gasperi fu chiamato, dal conte Dalla Torre, a svolgere un lavoro come capo ufficio stampa perennemente criticato e contestato da Mons. Monti. I vescovi cattolici italiani dopo che Mussolini firmò il Concordato tra Stato Italiano e Vaticano, l’11 febbraio 1929, si schierarono quasi all’unanimità dalla parte del Duce del fascismo. In modo particolare si distinsero il Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster Arcivescovo di Milano, l’arcivescovo di Napoli e un vescovo di Curia molto importante come Mons. Pizzardo che non mancavano in ogni occasione religiosa di svolgere prolusioni fascistissime con De Gasperi che si domandava: “ma come era possibile che dei cristiani, dei vescovi chiudessero gli occhi di fronte al Fascismo, fenomeno politico anti democratico, totalitario e violento”. Molti preti, tra cui don Giovanni Minzoni, ed esponenti dell’Azione cattolica e del partito popolare furono uccisi e picchiati dai fascisti e fatti oggetto di violente rappresaglie come  successe all’avvocato  Giorgio Montini deputato del PPI e  padre del futurotimthumb Papa San Paolo VI. In modo particolare e in maniera più subdola il Cardinale Pacelli faceva tutto quanto era necessario per accontentare il dittatore Mussolini purché nessuno mettesse in discussione da parte fascista il Concordato del 1929 con la Chiesa Cattolica. Quando scoppiò la guerra di Etiopia nel 1935 il Papa Pio XI si schierò duramente contro la guerra con un famoso discorso di cui l'”Osservatore Romano” non riportò neppure un rigo per ordine di Pacelli e per la debolezza del direttore Dalla Torre. De Gasperi nel suo diario fa intendere che l’iperclericalismo aveva una ragione molto precisa nell’atteggiamento della Curia Romana:  Il desiderio della gerarchia cattolica in Vaticano e in Italia di spartirsi il potere con il fascismo diventando la seconda gamba del Regime, con tutti i privilegi  che da questa condizione discendevano. In Vaticano c’erano pochissimi antifascisti tra questi : Giovanni Battista Montini, il suo collaboratore Padre Bevilacqua che Montini Papa elevò alla dignità cardinalizia, il Cardinale francese Eugenio Tisserant e il Cardinale Alfredo Ottaviani. Questi personaggi fecero quanto era nelle loro possibilità per agevolare la permanenza di De Gasperi in Vaticano, presenza scomoda che molti cardinali, vescovi e prelati consideravano nefasta per il buon nome del Vaticano agli occhi di Benito Mussolini. Anche Iginio Giordani esponente del PPI e antifascista lavorava nella Biblioteca Vaticana ma il fascismo voleva soprattutto, dopo la cacciata di Sturzo, la testa di De Gasperi. Il  Cardinale tedesco  Michael von Faulhaber in visita in Vaticano  nel 1933, si dichiarò convinto che la Curia papale ( non il Papa ) fosse simpatizzante di Hitler in funzione anticomunista. Questa era la realtà della Chiesa in quegli anni.




Breve storia dello Stato sociale

 

coesione-socialedi Leonardo Salutati • Lo Stato sociale, nato e consolidato in Occidente durante il XIX ed il XX secolo di pari passo con la storia della civiltà industriale, si fonda sul principio di uguaglianza sostanziale da cui deriva la finalità di ridurre le disuguaglianze sociali. Per questo si propone di fornire e di garantire diritti e servizi sociali quali: assistenza sanitaria; pubblica istruzione; sussidi familiari; previdenza sociale; accesso alle risorse culturali; difesa dell’ambiente naturale. Servizi che gravano sui conti pubblici attraverso la spesa sociale finanziata in buona parte dal prelievo fiscale.

La sua origine ed evoluzione può essere colta in tre fasi successive. Una prima, elementare, forma di Stato sociale o più precisamente di Stato assistenziale, venne introdotta nel 1601 in Inghilterra con la promulgazione delle Leggi sui Poveri che, oltre a rivelare un evidente contenuto filantropico, originavano dalla considerazione che riducendo il tasso di povertà, si riducevano fenomeni negativi quali la criminalità.

La seconda fase, risale alla prima rivoluzione industriale ed alla legislazione inglese del 1834, che si estenderà in seguito al continente europeo tra il 1885 ed il 1915. In questo periodo sorsero forme assistenziali rivolte a minori, orfani, poveri e le prime assicurazioni sociali che garantivano i lavoratori nei confronti di incidenti sul lavoro, malattie e vecchiaia. Sempre in Inghilterra si istituirono successivamente le Case di lavoro e accoglienza, che si proponevano di combattere la disoccupazione e di tenere basso il costo della manodopera (anche se di fatto la permanenza in questi centri pubblici equivaleva alla perdita dei diritti civili e politici in cambio del ricevimento dell’assistenza governativa).

La terza fase, la fase dell’attuale Stato del welfare, ovvero uno Stato caratterizzato da un sistema normativo con il quale si traducono in atti concreti le finalità dello Stato sociale, ha inizio nel 1942 quando, nel Regno Unito, si introdussero e definirono i concetti di sanità pubblica e pensione sociale per i cittadini, sulla base del Rapporto Beveridge, che dettero vita ad una riorganizzazione sociale ad opera del laburista Clement Attlee, divenuto Primo Ministro nel 1945. Nel 1948 la Svezia per prima introdusse la pensione popolare fondata sul diritto di nascita. Da questo momento in poi il Welfare State divenne sempre più diffuso affiancandosi ai diritti civili e politici acquisiti alla nascita. Nel periodo che va dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta/novanta del secolo scorso, la spesa pubblica crebbe notevolmente, specialmente nei Paesi che adottarono una forma di welfare universale, ma la situazione rimase tutto sommato sotto controllo grazie alla contemporanea sostenuta crescita del prodotto interno lordo generalmente diffusa. Negli anni ottanta/novanta, i sistemi di welfare entrarono però in forte crisi per ragioni economiche, politiche, sociali e culturali.41xxD7zrlbL._SX322_BO1,204,203,200_

Di fronte alla crisi dello Stato sociale e dei ceti medi, alcuni economisti hanno sostenuto la necessità di diminuire la spesa pubblica ed il prelievo fiscale, proponendo allo stesso tempo nuove forme di socialità per rendere i servizi più efficienti e meno costosi, affidando a questo fine, in tutto o in parte, a gestori privati servizi come le pensioni (fondi pensione privati), la sanità e l’istruzione.

Tuttavia i problemi di giustizia ed equità sociale, nonché il ridotto ruolo dello Stato nella redistribuzione della ricchezza, che deriverebbero da simili scelte, per molti altri economisti non sono affatto trascurabili, specie alla luce di quanto avvenuto a seguito della crisi economica del 2008. Infatti si ritiene che il modello basato sulle privatizzazioni e sul primato assoluto del libero mercato, sia responsabile del fatto che negli ultimi anni la ricchezza si sia polarizzata verso un numero sempre più ristretto di persone e che le differenze tra i ceti sociali, in termini di tenore di vita e di disparità di reddito si siano drammaticamente accentuate. Altri ancora pensano che questi modelli, rispecchiati nelle politiche economiche neoliberiste, tendendo a mettere sempre più da parte lo Stato, possano condurre a realtà in cui lo Stato stesso perda la capacità di tutelare il cittadino dalla furia predatoria dei liberi mercati.81Tz7GUB9cL

A questo riguardo il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa al n. 348 rivolge a tutti un forte richiamo, quando invita a considerare che: «Il libero mercato non può essere giudicato prescindendo dai fini che persegue e dai valori che trasmette a livello sociale. (…) L’utile individuale dell’operatore economico, sebbene legittimo, non deve mai diventare l’unico obiettivo. Accanto ad esso, ne esiste un altro, altrettanto fondamentale se non superiore, quello dell’utilità sociale, che deve trovare realizzazione non in contrasto, ma in coerenza con la logica di mercato. Quando svolge le importanti funzioni sopra ricordate, il libero mercato diventa funzionale al bene comune e allo sviluppo integrale dell’uomo, mentre l’inversione del rapporto tra mezzi e fini può farlo degenerare in una istituzione disumana e alienante, con ripercussioni incontrollabili».




Un testo inedito di san Francesco o della prima comunità francescana e il senso e l’importanza della predicazione

51WhTvzNzZLdi Dario Chiapetti • Nel 2007 lo studioso Jacques Delarun scoprì cinque frammenti di testo, copiati in cinque manoscritti diversi, che ipotizzò appartenere a una Vita di san Francesco, chiamata dallo studioso Leggenda umbra, avente per autore Tommaso da Celano, anteriore alla Vita seconda, sempre dello stesso autore. Brevemente, essa sarebbe una sintesi della Vita prima, anche questa di Tommaso da Celano, che prenderebbe a prestito materiale della Vita di Giuliano da Spira e della Leggenda del coro e che influenzerebbe la Leggenda dei tre compagni e il Trattato dei miracoli. Il suo tratto peculiare è che presenta una visione positiva della figura di fra Elia da Cortona, controverso successore di Francesco alla guida dell’Ordine. Sulla base di ciò, si ipotizza che il presente testo sia molto primitivo e si spiega il suo essere stato presto dimenticato, si ricordi anche come l’Ordine fece distruggere nel 1266 tutte le Vite anteriori a quelle di Bonaventura.

Nel 2014 si venne a conoscenza di un manoscritto privato, acquistato dalla Biblioteca Nazionale di Francia che, per la scrittura, la messa in pagina e i testi, è stato datato attorno al 1240, ossia molto prossimo al 1226, anno della morte di Francesco. Ebbene, esso contiene una Vita beati patris nostri Francisci, che corrisponde precisamente alla Leggenda umbra e che è preceduta da una lettera dedicatoria indirizzata proprio a fra Elia. Prima e dopo di essa si trovano: la Regola composta da Francesco nel 1223 e inserita nella relativa bolla d’approvazione, Solet annuere di Onorio III; una versione molto antica delle Ammonizioni; e altri scritti, come testimonianze della predicazione di sant’Antonio. Tra la Regola e le Ammonizioni vi è un commento al Padre nostro che il medievista Dominique Poirel ha ricevuto l’incarico di studiare e che ora presenta al pubblico nella presente edizione bilingue, preceduta da un’introduzione: Francesco d’Assisi, Commento al Padre nostro. Un testo finora sconosciuto del Poverello?, D. Poirel (ed.), San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2018, 94 pp., 12 euro.

Poiriel, nel suo studio, osserva, innanzitutto come il testo presenti errori che sono di copiatura, il che fa pensare al fatto che riporti tracce di un testo precedente. Dallo stile vivace e costruito sintatticamente, a volte in modo impreciso, si ipotizza ad una sorta di omelia o un sermone pronunciato oralmente. Oltre agli errori di copiatura, si osserva una consistente pervasività della lingua italiana e una scarsa padronanza del latino, aspetti, questi, attribuibili, nel caso, più all’autore che al copista. Quindi, non si tratta, forse, della produzione di un istruito chierico ma di un semi-letterato e, probabilmente, di un discorso pronunciato oralmente e ricostruito poi sulla base dei ricordi di un ascoltatore e di note prese al volo, come i repentini cambi di argomento lasciano supporre.unnamed

Anche la struttura del testo è significativa. Esso si compone di otto sezioni, una iniziale commenta la formula introduttiva del Pater nel canone della messa, le successive trattano le sette richieste. Ogni sezione è, a sua volta, quadripartita. In ogni partizione vi è la voce di un personaggio: vi è quella del “colto” – probabilmente non l’autore – che offre delle minute spiegazioni; quella del Padre, o, in un caso, di Cristo Crocifisso, che biasima e rimprovera i peccatori per l’incoerenza tra la vita, da un lato, e la fede professata e il culto praticato, dall’altro; quella dei peccatori che sono così portati a riconoscere il loro peccato e a implorare la misericordia divina; infine, quella del predicatore che commenta il dialogo e ne commenta gli aspetti salienti.

Ciò che attira l’attenzione è la grande vivacità del discorso e la struttura dialogale che invita chi ascolta e chi legge a inserirvisi. Tale dialogo risulta intavolato da un Dio che, con profonda passione per l’uomo, mette questi davanti al suo peccato e, con sapiente fare pedagogico, lo conduce a comprendere la sua situazione, pentirsi e mendicare misericordia, la quale prontamente viene concessa. Il testo risulta assai coinvolgente giacché, non da ultimo, dà viva voce alle numerose citazioni scritturistiche che lo costellano, segno di una frequentazione stretta tra il predicatore e la Bibbia.

Ma siamo in presenza di un testo di Francesco? 1- L’autorità data al discorso (trascritto e inserito nel manoscritto dopo la Regola); 2- un certo rapporto intimo tra il suo autore e il Crocifisso (il primo parla a nome del secondo); 3- la vivacità del tono (quasi un’azione teatrale); 4- la spiritualità che esso rivela, non di un chierico ma di un penitente; 5- le accuse agli uomini di blasfemia (frequenti in altri discorsi dell’Assisiate); 6- il rimprovero “cavalleresco” messo in bocca a Cristo di essere stato abbandonato sul campo di battaglia (si pensi ai due fallimentari tentativi di spedizione di Francesco o all’appartenenza nobiliare dei suoi primi compagni); fanno pensare di sì.

Del resto, 1- il fatto che nel manoscritto il testo non riporti il nome di Francesco; 2- che questo testo non compaia nei diversi corpora degli Scritti del Poverello; 3- che il commento al Padre nostro in questi ultimi sia molto diverso dal presente; 4- che il vocabolario usato appare, anch’esso, diverso dagli altri scritti di Francesco, così come le citazioni bibliche; 5- e la presenza di due citazioni di Agostino (quando il Santo non cita mai altrove i Padri della Chiesa); fa pensare di no.

Ad ogni modo – osserva Poirel – è vero che: 1- in molti manoscritti le opere di Francesco non riportano sempre il suo nome; 2- l’idea di raggruppare in un’opera omnia gli scritti di Francesco è molto posteriore al presente testo, e la più antica non riporta i testi più privati; 3- il commento tradizionale al Pater, per la sua prosa artistica, più di un chierico, porta a ritenere che faccia poco fede come termine comparativo; 3- ogni scritto dell’Assisiate contiene una serie di hapax (è noto che Francesco non scriveva da solo); 4- le citazioni bibliche sono innumerevoli e non esistono versetti privilegiati; 5- è verosimile che Francesco conoscesse in qualche modo Agostino, data la presenza di alcuni scritti di quest’ultimo nel breviario francescano derivato da quello di Innocenzo III che egli usava.

Il testo sembra proprio attribuibile a Francesco o ad uno dei suoi primi compagni. Ad ogni modo, aldilà di tale questione, esso riveste grande importanza. Questo commento inedito al Padre nostro fa entrare in contatto con la vitalità spirituale e la passione apostolica della prima comunità francescana tutta intenta alla predicazione, concepita non come «parole, parole, parole», ma come vita che si fa parola e parola che si fa accesso, per l’uomo, alla relazione con Dio e, per Dio, alla relazione con l’uomo; realtà – questa dell’uomo mediatore, nella sua carne e parola, tra Dio e l’uomo – che solo in un con-croce-fisso può verificarsi.

E tutto ciò risulta di grande provocazione anche per i predicatori della Chiesa, anche oggi nuovamente sotto il segno di Francesco.




Uomo tragico e uomo biblico

41Z6oUz0lcL._SX354_BO1,204,203,200_di Giovanni Campanella • Agli inizi di ottobre 2019, la casa editrice Morcelliana ha pubblicato, all’interno della collana “Piccoli Fuochi”, un piccolo ma interessante libriccino tascabile intitolato Uomo tragico, uomo biblico – Alle origini dell’antropologia occidentale. Il libretto delinea sinteticamente ma con precisione alcune cruciali idee sull’uomo emerse in quei primissimi laboratori di pensiero che furono la Grecia antica e il popolo ebraico e che incisero profondamente su tutta la successiva antropologia.

L’autore è Salvatore Natoli (Patti, 18 settembre 1942), filosofo e accademico italiano. Si è laureato in Filosofia presso l’Università Cattolica di Milano, dove ha trascorso gli anni di studio nel Collegio Augustinianum. Ha insegnato logica alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e Filosofia della politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Attualmente è professore ordinario di Filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze della formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Si potrebbe dire che l’operetta mette a confronto due sistemi fondamentali della prima antropologia, aventi in comune la consapevolezza della finitudine umana di fronte all’indomabile. Il modo di gestire il problema è tuttavia diverso. Il primo scenario è ciò a cui l’autore si riferisce trattando della cosiddetta “metafisica del tragico”, che permea l’antica mitologia greca e sta a fondamento di opere celeberrime come i poemi omerici e le tragedie del teatro (una su tutte l’Edipo re). Il secondo scenario è la “teologia del patto”, che percorre tutta la Bibbia e che individua nella relazione con Dio l’unico elemento stabile nel mondo (Natoli prende in considerazione soprattutto le figure di Giobbe e di Qoèlet).

Nel mito greco, l’uomo è indifeso, in balia delle forze della natura: la vita è una lotta continua e la natura è lacerata e lacerante. Nel dissidio interiore che testimonia la vicenda del sacrificio della figlia Ifigenia da parte di Agamennone e poi nella tragedia di Edipo (la massima espressione del tragico secondo Aristotele), si evidenziano non soltanto forze in contrasto al di fuori dell’uomo ma anche e soprattutto all’interno dell’uomo: l’uomo stesso è enigma.

«Nel pensiero greco arcaico – e a seguire in quello dell’età classica – nessun uomo può modificare il suo destino e, tuttavia, può adattarsi a esso o meglio adattarselo. Il destino, infatti, riguarda certo ciò che ci toccherà in futuro, ma più ancora – come in Edipo – quel passato che ci precede e, a suo modo, ci destina. Non si tratta di un passato individuale, ma di un’eredità sociale. È ciò che si dice quando si afferma che è il futuro che sta alle nostre spalle» (p. 27).

Per Israele, invece, non tutto è effimero, sfuggevole, magmatico, avverso: esiste un’unica stabile ancora di salvezza al quale l’ebreo deve aggrapparsi per salvarsi dai vorticosi flutti della vita. È la relazione con Dio, da coltivarsi assecondando la sua volontà, inscritta nella Legge da lui data al popolo. È un Dio unico, non legato, come gli dei di altre mitologie, a particolari e circoscritti fenomeni della natura. È soprattutto un Dio non astratto, un Dio concreto che si immerge concretamente nella vera storia del popolo: l’evento cruciale è la liberazione dall’Egitto. Natoli riprende alcune osservazioni di Ouaknin, il quale nota che la parola Yehuda («ebreo») è formata da cinque lettere (yod, he, waw, dalet, he), che sarebbero le quattro lettere del Tetragramma con l’aggiunta della lettera dalet, che rinvia al concetto di “porta”. La bella suggestione è che essere ebreo rinvia all’essere “porta verso Dio”. In Giobbe, è forse portata alle estreme conseguenze l’idea che solo la relazione con Dio rimane e solo essa conta: tutto il resto è contorno. La vicenda di Giobbe scardina la teologia della retribuzione, alla quale anche il personaggio di Qoèlet sembra ancora avvinghiato e da ciò, sembrerebbe suggerire Natoli, deriva la sua malinconia.1515001392804_1515001443.jpg--salvatore_natoli_come_stare_al_mondo

L’invito alla relazione con Dio è in fondo anche un invito ad uscire da sé perché solo l’uomo in uscita verso l’Altro e gli altri riesce a gattonare a tentoni verso un senso e una pienezza nell’apparente marasma che presenta il mondo.




Nel millenario della nascita di San Gregorio VII Papa

20417_papa-gregorio-viidi Andrea Drigani Nell’anno 1020 nasceva a Soana o Sovana, nel comune di Sorano, Ildebrando che verrà eletto papa, nel 1073, scegliendo di chiamarsi Gregorio VII. Il millenario di questa nascita verrà, in particolare, ricordato dalla diocesi di Pitigliano-Sovana-Orbetello con una serie di iniziative spirituali e culturali, tra le quali la traslazione della salma dalla cattedrale di Salerno, città nella quale Gregorio VII morì nel 1085, alla cattedrale di Soana, ove il 25 maggio, che il calendario liturgico assegna alla sua memoria, avrà luogo una solenne celebrazione eucaristica presieduta dal Cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin. Nel Martirologio Romano si legge: «San Gregorio VII, papa, che, portando il nome di Ildebrando, condusse dapprima la vita monastica e con la sua attività diplomatica aiutò molto i pontefici del suo tempo nella riforma della Chiesa; salito alla cattedra di Pietro, rivendicò con grande autorità e forza d’animo la libertà della Chiesa dal potere secolare e difese strenuamente la santità del sacerdozio». In questo breve ma efficacissimo testo sono compendiati i tre elementi fondamentali dell’opera di San Gregorio VII: la riforma ecclesiastica, la rivendicazione della libertà della Chiesa e la difesa della santità del sacerdozio. All’epoca di Ildebrando, per l’ambigua e pericolosa confusione tra benefici ecclesiastici e benefici feudali, soverchianti di interessi economici e politici senza controllo, che conducevano al malaffare e alla corruzione, all’interno della Chiesa si era smarrito il senso della sua legge suprema: la «salus animarum». Da qui la necessità di una riforma («reformatio») per correggere la deformazione («deformatio») che, a causa dei peccati, aveva deturpato e sfigurato il volto della Chiesa. L’impegno per la riforma, costituirà un tema costante e continuo nella storia del cristianesimo, poiché gli uomini, compresi gli ecclesiastici, sono imperfetti e difettosi e non sempre sono capaci di contenere le imperfezioni e i difetti, col rischio di gravi e dannosi debordamenti. Ildebrando, divenuto monaco benedettino, prestò la sua attività di consulente, teologo e canonista, nonché come legato pontificio, soprattutto a Papa Leone IX e Papa Stefano IX, nella decisa contestazione teorica e pratica al concubinato del clero e alla simonia cioè al mercato delle «res sacrae», due piaghe che dilagavano nella compagine ecclesiale, se non con l’approvazione, certamente con la tolleranza e l’indifferenza dei più. Nel sinodo del 1074, il primo dopo la sua elezione al Pontificato Romano, Gregorio VII rinnovò la scomunica contro i simoniaci e i chierici concubinari. La situazione era altresì aggravata dal pesante dominio delle autorità politiche laicali nella vita della Chiesa, per questo Gregorio VII, nel 1075, decretò il divieto del conferimento degli uffici ecclesiastici da parte dei laici, e in special modo l’investitura dei vescovi che in Germania Enrico IV di Franconia, «rex romanorum», addirittura conferiva mediante la consegna del pastorale e dell’anello. Contro questo decreto si scatenò Enrico IV, che tra l’altro provvide alla nomina di Tedaldo ad arcivescovo di Milano, anche se la sede non era vacante. Gregorio VII minacciò Enrico IV di scomunica, se avesse continuato nella sua disobbedienza. Per tutta risposta il «rex romanorum» nel gennaio 1076 convocò a Worms una dieta nella quale ventisei vescovi proclamarono la condanna e la deposizione di Gregorio VII. Il Papa, un mese dopo scomunicò Enrico IV, sciogliendo anche i sudditi dal giuramento di fedeltà. Questa scomunica ebbe un’enorme risonanza e delle notevoli conseguenze, poiché i vassalli di Enrico IV non erano più disponibili all’obbedienza nei suoi confronti finchè non si fosse riconciliato col Papa ed avesse ottenuto la remissione della scomunica. Perciò Enrico IV, nel gennaio 1077, si recò in modo umile e penitente a Canossa da Gregorio VII, colà ospitato dalla contessa Matilde di Toscana, la quale assieme ad Adelaide di Susa e ad Ugo di Cluny, intercedette presso il Papa affinchè Enrico IV fosse assolto e rientrasse nella comunione. E così avvenne. Questo atto di generosità di Gregorio VII, che, come è stato osservato, fu più da sacerdote che da capo politico, non fece demordere Enrico IV dai suoi intenti; infatti, dopo aver sconfitto i feudatari ribelli, proseguì imperterrito nella sua azione. Gregorio VII, perciò, nel 1080 rinnovò la scomunica ad EnricoCanossa-three IV, il quale convocò a Bressanone un sinodo di vescovi compiacenti che ancora una volta dichiararono la deposizione di Gregorio VII ed elessero nella persona dell’arcivescovo Viberto di Ravenna un antipapa con il nome di Clemente III. Enrico IV occupò inoltre la città di Roma, nella quale ben tredici cardinali erano passati dalla parte di Clemente III. Roberto il Guiscardo, duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia, intervenne con le sue milizie, preoccupato dalla incolumità fisica di Gregorio VII, e riuscì a far ritirare da Roma l’esercito di Enrico IV. Gli eccessi dei soldati mercenari di Roberto il Guiscardo, costrinsero però Gregorio VII ad abbandonare Roma e a recarsi a Salerno dove morì pronunciando, ispirandosi al Salmo 44, la celebre frase: «Dilexi iustitiam et odivi iniquitatem propterea morior in esxilio» («Ho amato la giustizia e ho odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio»). La sua morte, tuttavia, non fu la sconfitta del ruolo del primato della Sede Apostolica, poiché i suoi successori, facendo tesoro della sua testimonianza e della sua opera, continueranno a promuovere il consolidamento dell’autorità giuridica e morale della Chiesa romana di fronte all’autorità règia e imperiale. Nel registro delle lettere di Gregorio VII fu reperita una serie di 27 brevi formule presentate come «Dictatus Papae». E’ stato autorevolmente annotato (cfr. J. Gaudemet, Storia del diritto canonico. Ecclesia e Civitas, Cinisello Balsamo (MI), 1998, pp. 348-360) che la loro natura e il loro oggetto restano incerti: lo schema per un’allocuzione pontificia? La bozza per un documento sui diritti della Sede Apostolica? L’indice di una collezione canonica? Il «Dictatus Papae» era un documento interno alla Curia Romana non destinato a grande pubblicità, ma esprimeva chiaramente il pensiero teologico e canonico di Gregorio VII. Mi pare assai significativo, a mo’ di conclusione, di riportare la colletta della sua memoria liturgica: «Dona alla tua Chiesa, Signore, lo spirito di fortezza e l’ardore per la giustizia, che hai fatto risplendere nella vita del papa san Gregorio VII, perché rifiutando ogni compromesso ci dedichiamo con piena libertà al servizio del bene».




Il Concilio Vaticano II raccontato da Mons. Luigi Bettazzi

9788810521694di Stefano Liccioli • Con il libro «Il mio concilio Vaticano II» (EDB, 2019) Mons. Luigi Bettazzi ci regala un testo ricco di retroscena sul Concilio Vaticano II di cui egli è l’ultimo vescovo italiano ancora vivente che vi ha preso parte. Bettazzi ha partecipato a tre sessioni del Concilio a partire da quell’ottobre del 1963 in cui fu consacrato vescovo per poter svolgere il servizio di ausiliare di Bologna il cui arcivescovo era il Cardinal Giacomo Lercaro. La ricostruzione di Bettazzi non indugia sull’aneddotica, ma i retroscena vengono richiamati per far comprendere meglio le conclusioni ai cui è arrivato il Concilio Vaticano II e per rendere più evidenti i processi che hanno portato all’approvazione delle quattro costituzioni o di alcuni dei documenti più importanti.

Pur nella brevità del testo, i lavori conciliari ci vengono restituiti in presa diretta e sembra di respirare il clima di quei mesi e di quegli anni, un periodo fatto di momenti concitati, di attese, gioie, speranze, delusioni sia tra i partecipanti sia tra i fedeli di tutto il mondo.

Tra i passaggi del libro che ho trovato interessanti quello in cui si precisa che Papa Paolo VI seguiva attentamente le assemblee conciliari pare con una televisione interna, ma sicuramente con le relazioni del segretario generale del concilio Mons. Pericle Felici. Papa Montini non si limitò ad essere uno spettatore, ma, racconta Bettazzi, non mancava d’intervenire soprattutto per venire incontro alla minoranza al fine di giungere il più possibile vicino all’unanimità delle votazioni. Tra le richieste di Paolo VI quella di precisare nel capitolo terzo della costituzione sulla Chiesa (la Lumen gentium) che il termine “collegio” non andava inteso in senso strettamente giuridico cioé «di un gruppo di eguali i quali abbiano demandato la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo stabile la cui struttura ed autorità deve essere dedotta dalla rivelazione.

L’autore ricorda poi che il “Centro di documentazione di Bologna” (che aveva presenti a Roma, a supporto del Cardinal Lercaro, don Giuseppe Dossetti ed il Prof. Giuseppe Alberigo) sosteneva l’idea che il Concilio Vaticano II, insieme al Pontefice, proclamasse santo Giovanni XXIII, prescindendo in via eccezionale dal regolare processo di canonizzazione. Bettazzi si fece portavoce di questa proposta in concilio, nonostante sapesse le resistenze di Paolo VI sull’argomento dovute, secondo il prelato, alla «sua prudenza nei confronti della curia romana, molto esitante per contrarietà al suo interno».

Un passaggio del libro è dedicato alla “Chiesa dei poveri”. Sul tema l’autore riferisce che in una delle assemblee conciliari il suo Arcivescovo, il Cardinal Lercaro, prese la parola per affermare che, nella Chiesa, Cristo è presente nell’eucarestia, nella gerarchia e nei poveri. Proprio a Lercaro Papa Montini aveva chiesto di preparargli del materiale per un’enciclica sulla Chiesa dei poveri. Anni dopo arrivò la Populorum progressio (1967) che però fu più un’enciclica sullo sviluppo dei popoli e della pace che sulla Chiesa dei poveri. Durante i lavori del Concilio c’era comunque tutto un gruppo di vescovi che si radunava al Collegio Belga molto attenti a questo tema come la “fraternità dei piccoli monsignori” a cui lo stesso Bettazzi apparteneva.Luigi-Bettazzi

Fu in questo clima che maturò il Patto delle Catacombe che si concretizzò il 16 novembre 1965 alle Catacombe di Domitilla e che impegnava i sottoscrittori, inizialmente una quarantina di vescovi tra cui anche Mons. Bettazzi, a vivere una vita semplice nell’abitazione, nei mezzi di trasporto, nell’uso dei titoli personali e negli stessi vestiti, a riservare una cura particolare ai poveri ed a chi si dedica a loro. I presenti s’impegneranno a far firmare il documento anche ai vescovi amici tanto che fu portato a Paolo VI con oltre cinquecento firme.

L’ultima parte del testo è dedicata ad alcune riflessioni di Bettazzi sul post-Concilio, sugli aspetti ancora da realizzare o da portare a compimento. Significative alcune osservazioni e precisazioni fatte dall’autore. Una di queste riguarda il concetto di “tradizione” il cui senso profondo non è una mera conservazione, ma una trasmissione: tradizione deriva dal verbo latino “tradere” cioé “trasmettere” «le verità di sempre, ma capite meglio ed espresse in modo adeguato all’umanità di oggi». Conclude infine Bettazzi:«Le crisi della Chiesa, che qualcuno si ostina ad attribuire al concilio, sono invece da addebitare alla minore accoglienza che gli abbiamo destinato, timorosi di dover abbandonare troppe nostre abitudini (che definivamo “tradizione”) e di doverci dedicare prima di tutto a rinnovare noi stessi, per poter poi contribuire a rinnovare il mondo».

Non dobbiamo però perdere la speranza, aggiungo io, se restano ancora degli aspetti da portare a compimento: padre Congar affermava che ci vogliono cinquanta anni per poter comprendere pienamente un concilio.