Presentazione degli articoli del mese di giugno 2021

Andrea Drigani propone un ideale trittico del cardinale Gianfranco Ravasi per aiutare ad entrare nella teologia del «poema sacro» di Dante. Giovanni Campanella recensisce il saggio di Mauro Gallegati nel quale si critica l’uso soverchiante dei modelli matematici nelle analisi economiche a discapito dei necessari approcci antropologici e sociologici. Carlo Nardi richiama l’attenzione sulla «Vita di Gesù Cristo» scritta dell’abate Giuseppe Ricciotti (1890-1964) con particolare riferimento all’Introduzione. Leonardo Salutati affronta la questione del rapporto tra la Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) e le scienze sociali, che si sono sviluppate in alternativa al pensiero cattolico, da qui il necessario inserimento della DSC nella teologia morale. Dario Chiapetti invita alla lettura del diario di Juliana Osorgin (1923-2017) moglie del teologo ortodosso Alexander Schmemann (1921-1983) che ha dato un grande contributo al rinnovamento della teologia orientale. Gianni Cioli prosegue le sue considerazioni sulla preparazione alla vita sacerdotale e consacrata che deve incentrarsi sull’educazione alla relazione. Francesco Vermigli illustra la Lettera Apostolica «Antiquum ministerium» con la quale il Papa ha istituito il ministero di catechista, che intende ribadire, in special modo nei nostri tempi, come la catechesi, l’annuncio e l’evangelizzazione sono al centro della missione della Chiesa. Carlo Parenti rammenta gli interventi di Pio XII e di Giorgio La Pira sul ruolo e la missione internazionale di Gerusalemme, che appaino quanti mai attuali anche ai nostri tempi, dinanzi a situazioni politiche irrisolte. Stefano Tarocchi dal confronto tra un episodio degli Atti degli Apostoli con i Vangeli sinottici, fa emergere l’autenticazione dell’insegnamento del Battista da parte del Signore, nella memoria che trasmette le parole di Gesù in tutto il loro significato. Alessandro Clemenzia si sofferma sulla dimensione ecclesiale del Sacramento della Riconciliazione, che sovente può rischiare di essere visto solo in una dimensione individuale. Mario Alexis Portella evidenzia nel Presidente USA Joe Biden degli elementi contraddittori e incoerenti sia nelle scelte militari come nella tutela dei diritti umani. Francesco Romano annota, anche alla luce della storia del diritto canonico, sulla distinzione all’interno della vita religiosa tra la manifestazione della coscienza e l’apertura d’animo. Antonio Lovascio ritorna sulla grave crisi demografica italiana, con pesanti conseguenze d’ordine economico, sociale e culturale, che richiede una precisa risposta, come hanno raccomandato il Papa e il Presidente Draghi. Stefano Liccioli svolge alcune osservazioni sulla gentilezza e sulla cortesia, che non appartengono soltanto al galateo, bensì, anche secondo quanto afferma l’Enciclica «Fratelli tutti», alla pienezza della vita cristiana. Giovanni Pallanti col diario della prigionia del cardinale George Pell riflette su una storia drammatica, anche se conclusasi bene, che si intreccia, però, con vicende misteriose e inquietanti. Nella rubrica «Coscienza universitaria» si traccia un primo bilancio alquanto positivo dell’apporto della FUCI di Firenze con la nostra rivista.




Il diario della prigionia del cardinale Pell.

di Giovanni Pallanti · Dopo il Concilio Vaticano II le più grandi piaghe della Chiesa Cattolica Universale sono due: la Corruzione e la Pedofilia. Su queste due tragedie si sviluppa la storia di un Cardinale australiano nato nel 1941 che ha combattuto la corruzione finanziaria e i diversi gruppi di potere che facevano capo ad essa in Vaticano e che è stato arrestato e processato in Australia con l’accusa di pedofilia “storica”. Il suo nome è George Pell .E’ una vicenda, per alcuni aspetti, ancora aperta. Vediamo la cronologia di questa storia: 16 luglio 1996 Papa Giovanni Paolo II nomina George Pell Arcivescovo di Melbourne in Australia. Il 26 marzo 2001 George Pell diventa Arcivescovo di Sidney. Il 21 ottobre 2003 Papa  Giovanni Paolo II nomina l’Arcivescovo Pell – Cardinale. Il 26 febbraio 2014 Papa Francesco nomina il Cardinale Pell Prefetto del neonato “Dicastero della segreteria dell’Economia”  che si occupa delle finanze della Santa Sede e dello Stato Vaticano. George Pell è un uomo di straordinaria intelligenza. Lui stesso si definisce un conservatore della tradizione giudaico cristiana ed un esponente di una Chiesa periferica di un continente come l’Australia dove i cattolici sono il 25 % della popolazione e si devono confrontare ogni giorno con la chiesa Anglicana, i protestanti e le religioni di origine asiatica. Il Cardinale Pell diventa così un intransigente guardiano delle finanze del Papa. Ne scopre di cose che non vanno riconducibili a diversi cardinali e prelati di Santa Romana Chiesa. I nemici cominciano a domandarsi: “Come è possibile rompere l’asse tra Papa Francesco e il Cardinale Pell ?”. L’accusa più bruciante, e da cui un prete difficilmente si può difendere, è quella di essere un pedofilo. Il 20 giugno 2017 la polizia australiana accusa il Cardinale Pell di diversi abusi sessuali “storici” su minori. Per storici si intende abusi commessi molti anni prima. Il 5 marzo 2018 dopo aver respinto le accuse ed essere tornato volontariamente in Australia, rinunciando all’immunità diplomatica, il Cardinale Pell compare davanti alla corte di Melbourne per il deposito delle accuse a suo carico. Il 1° maggio 2018 George Pell viene prosciolto da molte delle accuse a lui imputate. Viene rinviato a giudizio per l’accusa di avere abusato di due giovani coristi minorenni a fine messa.  Il 2 maggio i capi d’accusa vengono ripartiti in due processi riguardanti il periodo in cui Pell era arcivescovo di Melbourne negli anni ’90, il secondo riguarderà, invece, le accuse risalenti a quanto egli era un giovane sacerdote negli anni ’70. Il 20 settembre 2018 il primo processo iniziato il 15 agosto si conclude con un verdetto non unanime della Giuria. L’11 dicembre dello stesso anno il nuovo processo, iniziato il 7 novembre, si conclude con un verdetto di colpevolezza. Il 26 febbraio 2019 i Procuratori della Regina ritirano le accuse riguardanti il periodo risalente agli anni ’70. Il 27 febbraio 2019 il Cardinale Pell viene riportato in carcere ammanettato per attendere la sentenza di condanna per il processo riguardante il periodo di Melbourne. Il 13 marzo 2019 il Cardinale Pell è condannato a 6 anni di carcere. Nel giugno 2019 egli presenta l’appello alla Corte Suprema dello Stato del Victoria. Il 21 agosto 2019 l’appello è respinto. Uno dei due  giudici, quello  contrario alla condanna, scrive una memoria di 200 pagine dove dice che le accuse sono infondate che era impossibile che il Cardinale potesse violentare subito dopo la celebrazione della messa i due giovani coristi  nella cattedrale di Melbourne in cui era impossibile che fosse rimasto solo con le  vittime e che le decine di testimoni a favore di Pell non erano stati presi in considerazione per un evidente avversione al dramma della pedofilia che in una nazione come l’Australia vedeva “colpevoli” tutti i preti senza nessuna distinzione oggettiva. La stampa australiana scrisse in tutto questo periodo sul processo al Cardinale Pell dividendosi tra colpevolisti e garantisti. Quello che colpì l’opinione pubblica fu che il Cardinale Pell si proclamava sempre innocente e che volontariamente aveva lasciato il Vaticano per tornare in Australia per farsi processare. Durante questo periodo George Pell fu messo in carcere a Melbourne in una cella singola come un criminale comune. Ogni volta che riceveva una visita si doveva mettere la divisa da detenuto. Ogni volta che veniva trasferito dalla cella al tribunale veniva ammanettato. Evidentemente in Vaticano c’era chi godeva della carcerazione del Cardinale Pell, infatti il Cardinale australiano aveva cominciato a frugare tra i milioni di euro che erano nella completa disponibilità della Segreteria di Stato e direttamente e poi indirettamente gestiti dal Cardinale Becciu. Durante la detenzione e processo a Pell dalla Segreteria di Stato è stato recentemente accertato che sono partiti migliaia di euro (bonifici per 700.000 euro) per la Chiesa australiana. La Conferenza Episcopale Australiana ha negato di aver ricevuto questi soldi. Il sospetto, anzi qualcosa di più del sospetto, è che questi soldi siano stati inviati all’accusatore del Cardinale Pell. Questa vicenda è emersa nell’indagine a carico del Cardinale Becciu, ordinata da Papa Francesco, alla magistratura vaticana. Becciu era al centro di numerose speculazioni finanziarie, di favori fatti a suoi parenti, e di aver incaricato due signore conosciute nella mondanità romane di spendere e spandere soldi per improbabili azioni di spionaggio e controspionaggio. Il Cardinale Pell era un potenziale nemico di questo mondo corrotto che faceva capo al Vaticano. Il 7 aprile 2020 l’Alta Corte d’Australia assolve completamente da ogni accusa il cardinale Pell dalle condanne dei due precedenti gradi di giudizio con decisione unanime di 7 a 0. il Cardinale Pell viene scarcerato. E’ uscito nel 2021 “Il diario di prigionia” di George Pell edito da Cantagalli. Un diario struggente dove viene fuori la personalità carismatica, ironica, di questo uomo che affida la sua sorte a Dio senza rancore per nessuno e dove racconta le piccole e umilianti storie di un carcerato come se si trattasse di un proficuo ritiro spirituale. Un diario sconvolgente e bellissimo che testimonia una delle pagine più crudeli vissute da un Cardinale di Santa Romana Chiesa che voleva mettere a posto le finanze vaticane. Quando Papa Francesco ha fatto dimettere il Cardinale Becciu da “Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi” , levandogli tutti i privilegi cardinalizi, il Cardinale George Pell, rientrando a Roma, rivestito  nuovamente della porpora rossa commentò quel che il Papa aveva deciso per il Cardinale Becciu dicendo :” Era l’ora!”. 




Perchè serve una cultura che promuova la natalità

di Antonio Lovascio · Certo, è una sfida da non perdere il Piano nazionale di ripresa e resilienza che, per i prossimi cinque anni, mette a disposizione del governo ben 248 miliardi di fondi Ue.. Ma non ci sarà una vera ripartenza se, insieme al finanziamento di nuove opere pubbliche ed alle riforme richieste dall’Europa, l’Italia non attuerà un’inversione di rotta per porre fine al cosiddetto “inverno demografico”, su cui hanno richiamato l’attenzione anche i vescovi nell’annuale assemblea della CEI, dopo l’accorato appello lanciato da Papa Francesco e dal premier Mario Draghi agli Stati generali della Natalità promosso dal Forum delle Associazioni familiari. Tutti concordi nell’affermare che un’Italia senza figli è una realtà che non crede e non progetta, destinata lentamente a invecchiare e scomparire. Una consapevolezza suffragata dai dati che da anni accendono l’allarme dipingendo un Paese morente, colpito ulteriormente dalla pandemia: nel 2020 sono nati 404mila bambini, il 30% in meno rispetto agli ultimi 12 anni, record negativo dall’Unità italiana. Con 1,24 figli per donna contro i 2,1 che assicurerebbero un ricambio generazionale, l’Italia sta dissolvendosi progressivamente con ricadute drammatiche sul sistema pensionistico e sanitario, ma anche con una penalizzazione del desiderio, che pure c’è, di avere figli: l’80 per cento dei giovani italiani vorrebbero due o più figli. E nel 2021 – secondo l’ISTAT- il confine dei 400mila nati lo scorso anno è destinato ad essere superato al ribasso, fino ad arrivare a soli 350mila nati in un Paese di 60 milioni di abitanti, anche per il continuo calo dei matrimoni, ormai dimezzati e scesi a poco più di 96 mila.

Ora l’obiettivo di raggiungere 500mila nati non è solo un sogno ma un traguardo possibile, se favorito da nuove politiche per la famiglia e le giovani coppie.

Avere mezzo milione di nati in più vuol dire inserire iniezione di futuro e far dimenticare il presente, tratteggiato con incisività da Bergoglio: da una parte, lo “smarrimento per l’incertezza del lavoro”, dall’altra, i “timori dati dai costi sempre meno sostenibili per la crescita dei figli” e la “tristezza” per le donne “che sul lavoro vengono scoraggiate ad avere figli o devono nascondere la pancia”. Sono tutte “sabbie mobili che possono far sprofondare una società” e che contribuiscono a rendere ancora più “freddo e buio” quell’inverno demografico ormai costante in Italia, che “si trova così da anni con il numero più basso di nascite in Europa, in quello che sta diventando il vecchio Continente non più per la sua gloriosa storia, ma per la sua età avanzata”.

Per risalire la china – è la ricetta della Chiesa italiana – servono ovviamente interventi di carattere fiscale e amministrativo, riassunti ad esempio nell’assegno unico in via d’implementazione per tutte le categorie di lavoratori e lavoratrici, servono le politiche attive del lavoro soprattutto femminile, rispettose dei tempi della famiglia e della cura dei figli, visto che la nostra spesa sociale in questo settore è molto più bassa che in altri Paesi come la Francia e il Regno Unito.

C’è poi la questione giovani, di quelli segnati dalla precarietà nell’occupazione e dalla difficoltà a metter su famiglia: ben vengano la realizzazione di asili nido (in alcune parti del Paese la disponibilità è al 50%, in altre al 3%) e di scuole per l’infanzia, l’estensione del tempo pieno e il potenziamento delle infrastrutture scolastiche. Così come i preannunciati investimenti nelle politiche attive del lavoro, nelle competenze scientifiche e nell’apprendistato. Nel complesso, misure da venti miliardi, con una clausola per incentivare le imprese, come condizione per partecipare al Piano, ad assumere più donne e giovani.

Emerge dunque l’importanza di coniugare famiglia-lavoro, dopo aver constatato che i lavoratori sostenuti a livello familiare siano più produttivi. C’è, quindi, anche un discorso culturale da portare avanti, sostenendo il piano di Papa Francesco per un Patto educativo globale. La scuola italiana ha molti problemi ma anche molte risorse. È dopo la famiglia la prima comunità che i bambini incontrano ed è l’unica istituzione che li vede diventare ragazzi, adolescenti e infine giovani, donne e uomini. E’ un’istituzione che li accompagna nella trasformazione di corpo e mente e deve insegnare come vivere anche il dolore. La grande sfida per cambiare l’Italia deve partire proprio dalla Scuola e dall’Università, che devono ricostruire un sapere. Avendo ben presente la realtà delle tante famiglie che in questi lunghi mesi di pandemia hanno dovuto fare gli straordinari, dividendo la casa tra lavoro e scuola, con i genitori che hanno fatto da insegnanti, tecnici informatici, operai, psicologi. Senza dimenticare i sacrifici dei nonni, “scialuppe di salvataggio delle famiglie” nonché memoria che ci apre orizzonti più rassicuranti.




La Dottrina sociale della Chiesa e il suo rapporto con le Scienze sociali

di Leonardo Salutati · Una delle difficoltà con cui si confronta la Dottrina sociale della Chiesa (da ora in poi DSC) è quella di trovare adeguata considerazione nel mondo delle scienze sociali (politica, etnologia, sociologia, economia), tanto che nel tempo si è passati dal desiderio di proporre una scienza sociale cattolica, al confronto dialettico, all’ancoraggio della DSC alla teologia morale.

La problematicità di questo rapporto risale all’atto fondativo delle scienze sociali moderne, che nascono come rottura con la visione della vita umana in società guidata per secoli dalla morale cattolica. L’origine delle scienze sociali si colloca, infatti, in quel movimento di graduale abbandono della religione e di rifiuto di una visione trascendente che, con Machiavelli, porta a elaborare una scienza politica non più incentrata sul fine dell’uomo e della città ma su come esercitare e mantenere il potere (P. Manent, 1987). A sua volta la scienza economica, con Adam Smith, sviluppa un pensiero che insiste sulla ricerca dell’interesse individuale come strumento per canalizzare le passioni umane verso un maggiore arricchimento materiale di ogni individuo, contro un cattolicesimo che cerca di regolare comportamenti “peccaminosi” legati all’avarizia (A.O. Hirshman, 1980). La sociologia, infine, analizza il sociale come tale, affrancato da ogni riferimento esplicitamente morale, con il sociologo che si sforza di mettere ordine nell’apparente caos della vita sociale, più che interrogarsi sulla sua eccellenza e sul suo significato (R. Aron, 1967).

La DSC nel suo sorgere prende atto di questa rottura, riproponendo la possibilità di un approccio “cattolico” alle scienze sociali e, nel contempo, denunciando i limiti dei fondamenti delle scienze economiche e sociali moderne. Pio XI, per esempio, dichiara senza ambiguità che la concorrenza in assenza di regole nel funzionamento dei mercati è una “fonte avvelenata”, considerando ugualmente erronei marxismo e liberismo (QA 89) e denunciando la separazione metodologica tra scienza e morale (QA 133). Uno scontro frontale che si ritrova anche nel pensiero di Pio XII, che disapprova esplicitamente le correnti economiche sue contemporanee (1956), con una determinazione sostenuta dalla convinzione che una scienza sociale cattolica sia possibile.

Il periodo successivo al Concilio Vaticano II fa registrare il superamento di questa prospettiva, con la Octogesima adveniens di Paolo VI del 1971, che riconosce la difficoltà a «proporre una soluzione di valore universale» (OA 4), dando l’impressione di accantonare l’idea stessa di una Dottrina sociale e la possibilità di affiancare tale dottrina a una scienza sociale cattolica. Paolo VI (e prima di lui di Giovanni XXIII) analizza la dimensione sociale con metodo induttivo, senza necessariamente applicarvi i principi teorici derivanti da una filosofia sociale cattolica (M.D. Chenu, 1979) e avvalorando le categorie proprie degli ambiti economici, politici e sociali. Egli sottolinea che le scienze umane possono «aiutare la morale sociale e cristiana» (OA 40) anche se, comunque, questa mantiene la sua funzione critica nel mostrare il carattere relativo dei comportamenti e dei valori inerenti alla natura stessa dell’uomo che la società presenta come definitivi (cf. ibid.; anche OA 38-39). In breve il periodo immediatamente successivo al Concilio è caratterizzato da una volontà di dialogo della DSC con le scienze sociali, anche se “sotto condizione”.

Una terza fase nella storia della DSC è caratterizzata dalla definizione dei suoi fondamenti, in una prospettiva che la collega al Vangelo e agli insegnamenti della Tradizione cristiana sull’uomo e che afferma la sua appartenenza alla teologia morale. Non si tratta né di un programma politico né di una dettagliata ripetizione del Magistero del passato, né di una ideologia. Al n. 41 di Sollicitudo rei socialis del 1987 questa prospettiva è chiaramente specificata da Giovanni Paolo II nella definizione molto densa che offre della DSC.

In questo passaggio Giovanni Paolo II specifica la DSC come una riflessione che ha la finalità di guidare il comportamento cristiano e non solo di descrivere la realtà. Poiché, poi si situa su un terreno differente da quello delle scienze umane, non pretende di confrontarsi con quest’ultime, anche se il suo fondamento teologico può mettere in discussione tali discipline e farsi da queste interpellare.

Su questa linea Papa Benedetto XVI afferma che la DSC può essere pensata come luogo di unificazione della conoscenza dell’uomo troppo spesso frammentata. Difendendo e riproponendo l’«importante dimensione interdisciplinare» di questa dottrina, egli indica quanto quest’ultima possa aiutare a combattere «l’eccessiva settorialità del sapere» e in particolare «la chiusura delle scienze umane alla metafisica» (CV 31).

A sua volta papa Francesco, sempre sulla linea di Giovanni Paolo II, nella Laudato si’, si mette in ascolto del mondo attingendo ai risultati delle scienze umane (LS 15), per poi rileggerli alla luce della tradizione teologica giudaico-cristiana. Papa Francesco, inoltre, richiama frequentemente l’autorità della DSC, che invita a non sminuire rispetto ad altri campi ritenuti più importanti della teologia morale (GE 102-103).

Questa breve ricognizione, che richiederebbe ben altro approfondimento, fa emergere come il posizionamento della DSC come teologia morale, le permetta di collocarsi con più chiarezza nell’ambito accademico del dialogo e del confronto con le scienze sociali, evidenziando come l’approccio adottato dalla DSC a partire da Giovanni Paolo II, lungi dall’essere banale, costituisce un importante passo in avanti per qualificare la proposta cattolica e renderla intellegibile nel confronto con le scienze sociali (J.B. Rauscher, 2021).




L’ecclesialità del sacramento della Riconciliazione

di Alessandro Clemenzia · Nel corso dei secoli si sono alternati due differenti e complementari sguardi sul sacramento della Riconciliazione, influenzati soprattutto dal contesto culturale in cui la Chiesa ha vissuto: uno ha sottolineato soprattutto l’indole individuale (senza mai perdere di vista la sua dimensione ecclesiale), l’altro invece ha marcato la sua indole comunitaria (senza obliare l’individualità del penitente). Il Magistero è più volte intervenuto per ribadire l’importanza di entrambi gli sguardi, per cogliere nella sua globalità la prassi confessaria.

L’odierno contesto culturale è determinato da una visione neoromantica della realtà; pur evidenziando l’importanza del noi comunitario, ciò che determina il giudizio è in particolare il sentimento dell’io, non lasciando esente da questo atteggiamento anche il popolo di Dio. Questa logica, non di rado, è entrata anche nella riflessione teologica ed ecclesiologica, per cui dietro la ripresa di alcune questioni, l’intento è quello di arrivare al sentimento della gente. Eppure, tornando al sacramento della Riconciliazione, se il contesto odierno è così marcatamente centrato e concentrato sul sentimento dell’io, come mai il sacramento della Riconciliazione , che – come mostra la stessa struttura del confessionale – è così attento alla dimensione individuale, non rappresenta un luogo di raccolta dei fedeli per farli riappropriare del valore e del significato della Chiesa?

Si può rispondere a tale domanda affermando che il sacramento in questione è già di per sé un’esperienza ecclesiale, un evento comunitario, e questo non soltanto in virtù della presenza del confessore, ma anche per quella dello stesso penitente.

Nei Prenotanda al rito della Penitenza, lì dove sono presentate la preghiera del penitente e l’assoluzione del presbitero, viene spiegato «l’aspetto ecclesiale del sacramento per il fatto che la riconciliazione con Dio viene richiesta e concessa mediante il ministero della Chiesa» (n. 19). È necessario, dunque, andare a fondo sul significato dell’affermazione «mediante il ministero della Chiesa».

Il recupero della dimensione ecclesiale è di fondamentale importanza per non ridurre il sacramento della Riconciliazione a un atto unicamente interiore e intimistico. Se si rivolge l’attenzione alla preghiera del Confiteor, che introduce ogni giorno la celebrazione eucaristica si può scorgere la marcata presenza dell’io, come afferma tutto il popolo di Dio: “io ho peccato”, “io confesso”. Si intravede così quanto è scritto nella Lumen Gentium: «Ecclesia … sancta et semper purificanda, poenitentiam et renovationem continuo prosequitur» (n. 8). La Chiesa è Santa e ha sempre bisogno di purificazione. È vero: è il singolo io che si confessa ma in comunione con gli altri, con altri io dove ciascuno riconosce la propria colpa, il proprio peccato. Non solo: in questa confessione davanti a Dio ciò che si domanda è la comune riconciliazione. L’io deve sempre essere salvaguardato, come insegna il Motu proprio Misericordia Dei. Dio, infatti, non tratta il singolo come se fosse parte di un collettivo, ma conosce ciascuno per nome. Per questo motivo sono parti costitutive del sacramento, sia la confessione personale dei peccati, sia il perdono offerto al penitente (l’assoluzione collettiva è una forma straordinaria ed è possibile solo in determinati casi di necessità). Dunque, affermare la dimensione ecclesiale del sacramento non oblia il singolo io; quest’ultimo viene sempre salvaguardato.

Tutto il noi ecclesiale è penitente. La santità e il peccato della Chiesa hanno impedito, sin dalle origini della comunità cristiana, toni trionfalistici: i cristiani sono coloro che non hanno un’umanità migliore degli altri, ma hanno una umanità graziata. Sin dai primi secoli, infatti, non ci si è vergognati di parlare della Chiesa ricorrendo ad alcune figure bibliche di prostitute perdonate.

L’evidenza del peccato nel noi della Chiesa è sempre stato colto come qualcosa di paradossale. Eppure non basta parlare del peccato nella Chiesa, a causa di un certo numero di peccatori al suo interno, ma anche del peccato della Chiesa, come soggetto responsabile di alcuni atti. Come il noi della Chiesa non è la somma degli io che la compongono, ma qualcosa che precede i singoli e conferisce loro una particolare nuova identità, così il peccato della Chiesa non può essere compreso come un recipiente riempito dei peccati di ciascuno. Paolo VI ha chiaramente affermato che la Chiesa, per essere evangelizzatrice, deve mostrarsi essa stessa evangelizzata, vale a dire aperta all’ascolto di Cristo e disposta a fare scaturire dall’incontro col suo Signore una nuova prassi. Recuperando quanto affermato nell’Esortazione postsinodale Reconciliatio et paenitentia (2 dicembre 1984), soltanto una Chiesa riconciliata può essere una Chiesa riconciliatrice.

Perché è importante sottolineare che tutta la Chiesa è peccatrice? La tentazione è sempre quella di cogliere l’ecclesialità del sacramento della Riconciliazione soltanto nel confessore, in colui che personifica quanto è riportato nella formula di assoluzione: «mediante il ministero della Chiesa». Un’altro rischio sarebbe quello di cogliere l’ecclesialità nel sacramento stesso, il quale, essendo sacramento della Chiesa-sacramento, ha in sé una sua ecclesialità. C’è tuttavia un’ecclesialità anche nel singolo penitente, anche se egli spesso non è capace di raggiungere una piena consapevolezza di ciò.

Ma come mettere insieme l’io del singolo penitente con il noi ecclesiale? Il singolo penitente è la Chiesa stessa: anche in lui si può rintracciare quell’ecclesialità che, più facilmente, si trova nel ministro confessore. In realtà, anche il peccato non è mai solamente individuale, ma ecclesiale, perché ciò che una persona compie ha sempre delle conseguenze sociali. Il peccato dell’io, infatti, va a contaminare anche tutte le relazioni che stanno intorno all’io. Per questo, recuperando una delle più belle frasi di Papa Francesco contenuta in Evangelii gaudium: «Gesù ha redento non solo il singolo individuo, ma anche la relazione sociale» (n. 178).

Proprio per questo carattere ecclesiale del sacramento della Riconciliazione, che non riguarda solo il ministro, ma anche il penitente, il professor Andrea Drigani, in un articolo recentemente uscito su Il mantello della giustizia, ha approfondito il tema del foro interno e del foro esterno, sottolineando come l’uno e l’altro riguardino anche il penitente, proprio in virtù della sua ecclesialità: se il ministro è chiamato alla segretezza, da parte del penitente deve esserci almeno riservatezza (anche se nulla è previsto dal Codice di diritto canonico sulle eventuali dichiarazioni pubbliche del penitente).

Il sacramento della Riconciliazione, dunque, ha una intrinseca dimensione ecclesiale, data dal sacramento in quanto tale, dalla ministerialità del confessore e dallo stesso penitente. L’assoluzione, infatti, non tocca soltanto quest’ultimo, ma tutte le relazioni che l’io ha costruito, raggiungendo i tu con i quali egli si è rapportato, sia nel bene che nel male. Così anche il penitente, per la sua ecclesialità, è un intermediario della grazia, in quanto essa, pur essendo conferita sacramentalmente al singolo, attraverso di lui raggiunge la molteplicità di persone. Ogni grazia conferita all’io è già all’insegna del noi.




Il ministero del catechista. Al servizio nella Chiesa

di Francesco Vermigli · Come noto, il 10 maggio scorso è stata promulgata da papa Francesco una Lettera apostolica in forma di motu proprio dal titolo Antiquum ministerium. Con tale motu proprio viene istituito il ministero del catechista; caso specifico di una più diffusa ministerialità laicale nella Chiesa. Seguire passo passo il testo del documento papale ci aiuta nella presentazione che di esso vogliamo fare. In conclusione, proveremo a trarre delle considerazioni più complessive sul ministero del catechista e sul suo significato nella comunità.

I primi due numeri del motu proprio colgono in modo particolare il ministero del catechista nel contesto evangelico e nell’ambito della letteratura paolina: con brevi cenni si risale alle testimonianze di come la comunità cristiana delle origini riconoscesse una certa forma di ministerialità a credenti impegnati nell’insegnamento della dottrina cristiana. Il n. 3 punta la propria attenzione sulla tradizione ecclesiale, sulla schiera innumerevole di donne e di uomini che nel corso della storia hanno servito la Chiesa nell’ambito dell’insegnamento catechistico.

I numeri dal 4 al 7 sono la sezione più ampia del documento e vertono sulla presentazione di affermazioni conciliari fondamentali, recenti passi magisteriali più rilevanti, alcuni passaggi del Catechismo della Chiesa Cattolica e del Codice di Diritto Canonico circa l’impegno del laicato nell’evangelizzazione, del fatto che esso si svolge per definizione entro le normali condizioni secolari, della singolare importanza del catechista all’interno dei servizi svolti dal laico entro la Chiesa. In modo particolare, il n. 7 del motu proprio serve da ponte con il momento normativo del documento, perché allude alla «lungimiranza di san Paolo VI» che con la Lettera apostolica Ministeria quaedam – nell’atto in cui istituiva i ministeri di lettore e accolito – non escludeva che le conferenze episcopali istituissero anche altri ministeri, tra i quali veniva segnalato proprio quello di catechista. L’ipotesi descritta in quell’occasione diventava, poi, un invito e un’esortazione accorata in Evangelii nuntiandi, 73; collegando in particolare il ministero del catechista con la plantatio Ecclesiae nei territori di missione.

Il n. 8 prima delinea il profilo di colui che è impegnato nella catechesi, quindi «dopo aver ponderato ogni aspetto, in forza dell’autorità apostolica» istituisce il ministero laicale del catechista. La prima parte del n. 8 afferma che l’istituzione del catechista ha una dimensione vocazionale ineliminabile; implica il discernimento della Chiesa, nella persona del vescovo; tale ministerialità viene resa evidente attraverso la celebrazione di un rito. Coloro che – uomini e donne – siano chiamati a questo servizio, dovranno essere caratterizzati da «profonda fede e maturità umana», partecipare alla vita della comunità cristiana, essere «capaci di accoglienza, generosità e vita di comunione fraterna», essere introdotti alla «formazione biblica, teologica, pastorale e pedagogica», aver già fatto esperienza di un previo servizio di catechesi.

La seconda parte del n. 8 – dopo la frase di istituzione – annuncia che in breve tempo la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti provvederà a pubblicare il Rito per l’istituzione del ministero laicale del catechista; mentre le Conferenze Episcopali vengono chiamate a stabilire l’iter formativo e i criteri normativi per potere accedere al ministero del catechista.

Proviamo a trarre delle considerazioni più generali. Pare che emergano due fattori decisivi dal motu proprio che stabilisce che il catechista sia un ministero istituito: uno riguarda il posto della catechesi nella vita della Chiesa, l’altro il ruolo del catechista nell’articolazione complessiva del popolo di Dio.

Sul primo punto, appare decisivo l’aggancio della catechesi di oggi con l’insegnamento svolto da alcuni credenti nella Chiesa degli origini, secondo la testimonianza neotestamentaria. Così facendo, il papa conferisce una posizione centrale alla catechesi, all’insegnamento, all’annuncio nella vita della Chiesa. In altri termini, la catechesi partecipa al compito che Gesù medesimo ha consegnato ai suoi discepoli di trasmettere a tutti i popoli e a tutti tempi i tesori incommensurabili del suo insegnamento. La catechesi, cioè, appartiene all’appello a trasmettere la Rivelazione di Cristo nel tempo e nel mondo. Lo farà con i metodi e lo stile che le sono propri, ma essa è parte di una dinamica più ampia e complessa.

Sul secondo punto, invece… Affermare che vi sono alcune persone nella comunità chiamate a svolgere un servizio che come tale è riconosciuto dalla Chiesa – dopo un periodo di formazione e secondo l’opera di discernimento del vescovo – significa che essere catechista è una modalità di servizio propria di alcuni credenti e corrisponde ad un determinato scopo. Ma rientra nella più generale valorizzazione della ministerialità laica; nel senso di una maggiore condivisione di aspetti essenziali della vita ecclesiale con coloro che vivono da battezzati nella comune vita secolare.




La doppiezza di Biden

di Mario Alexis Portella · Il mese scorso in questa rivista ho riferito dell’annuncio del presidente statunitense Joe Biden di ritirare tutte le truppe americane (ufficialmente 2.500 soldati) dall’Afghanistan prima del 20° anniversario degli attentati dell11 settembre. Tanti l’hanno lodato con la pretesa che lui “stia delineando la nuova politica estera americana del dopo Trump, [prendendo così un] duro atteggiamento contro i regimi autoritari,” presentando Biden siccome fosse un leader di principio morale.

A parte che Biden lascia 18.000 fra mercenari e agenti del Pentagono in Afghanistan, così privatizzando e ridimensionando la guerra—una prassi in vigore da decenni—ma senza porne fine, l’occupante della Casa Bianca sta diventando una minaccia contro la stessa democrazia!

Il mese scorso Biden ha detto:

«Tutte le persone dovrebbero essere in grado di praticare la loro fede con dignità, senza timore di molestie o violenze. Difenderemo il diritto di tutti, come lo facciamo con te. E per questo motivo [la mia] amministrazione difenderà la libertà religiosa di tutte le persone, compresi gli Uiguri in Cina e i Rohingya in Birmania.»

Biden sembra dimenticare, o piuttosto sceglie di non ricordare, che l’anno scorso circa 340 milioni di cristiani hanno subito livelli molto alti o estremi di persecuzione—sono stati molestati, picchiati, violentati, imprigionati e/o massacrati solo per il fatto di essere cristiani. Statisticamente, ogni giorno:

  • 13 cristiani sono stati uccisi per la loro fede;

  • 12 arrestati o incarcerati ingiustamente;

  • 5 (donne) rapite;

  • 12 chiese o altri edifici cristiani attaccati.

Perché i cristiani sono stati assenti nel discorso di Biden? Forse per la stessa ragione per cui ha rifiutato di invocare Dio nell’annuale Proclamazione della Giornata Nazionale di Preghiera il 6 maggio—ogni presidente americano è tenuto per legge ogni primo giovedì del mese di maggio di ricordare e incoraggiare tutti gli americani di a pregare Dio per il bene comune dell’America e del mondo. Questa consuetudine è stata iniziata dal presidente Dwight D. Eisenhower nel 7 febbraio 1954, per contrapporsi contro la dottrina atea dell’Unione sovietica.

Ciò che appare più inquietante è che, in conformità con le politiche pro-LGBTQI del Partito Democratico, con alcuni progetti come l’Equality Act (EA), l’amministrazione di Biden sta man mano limitando l’esercizio della libertà religiosa..

Come la proposta Zan in Italia, l’EA, che attende la ratifica finale del Senato, modificherà due leggi fondamentali sui diritti civili per cambiare la definizione di “sesso”. Invece di riferirsi a uomini e donne biologici, coprirebbe anche l’orientamento sessuale o l’identità di genere nell’ambito del lavoro, alloggio, alloggi pubblici, giustizia, istruzione e programmi federali.

Secondo il disegno di legge, il termine “orientamento sessuale”, definisce l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi. Per “identità di genere”, infine, si intende il genere che ciascuno sente di avere, anche se non corrisponde al sesso di origine: questo vale a prescindere dall’aver concluso o meno un percorso di transizione, ovvero di “cambiamento” del proprio sesso.

Tutto ciò potrà significare che un sacerdote potrà incorrere in sanzioni penali se predica, per esempio che l’atto sessuale non può avvenire fuori del matrimonio tra uomo e donna. E secondo delle credenze religiose di istituzioni religiosi, l’EA potrebbe creare vari conflitti legali a qualsiasi tipo di organizzazione laica o religiosa che:

  • creda nella santità della vita nel grembo materno, cioè coloro che si oppongano contro l’aborto;

  • siano in opposizione alla ridefinizione dei tradizionali ruoli di genere che coinvolgono attività didattiche a livello universitario;

  • si oppongano alla copertura sanitaria per determinati tipi di procedure mediche, come l’aborto o gli interventi transgender.

La cosiddetta politica di Biden per sostenere e promuovere la libertà religiosa è la stessa di quella della Cina comunista, cioè una politica farisaica che cerca di sopprimere e punire noi che crediamo all’ordinamento naturale tra uomo e donna creati nell’immagine e somiglianza di Dio.

E tutto questo è espresso da un presidente che continua a identificarsi come un “devoto cattolico”.

Il Monsignore Antonio Suetta, Vescovo di Ventimiglia-Sanremo, durante un discorso il mese scorso nell’occasione della Marcia per la Vita a Roma ha detto che tali politici (come Biden) provano di “smascherare ogni falsa idea di progresso e di libertà e a capire che chi vorrebbe condurci contro la verità di Dio non vuole il nostro bene, ma piuttosto i nostri beni, la nostra libertà e la nostra sottomissione.”

E questa è la vera doppiezza del nuovo occupante della Casa Bianca. Uno che in privato sostiene la sua lotta contro l’aborto e il movimento LGTBQI, ma pubblicamente difende tali diritti che contraddicono la legge naturale di Dio.

Facciamo nostre le parole attribuite al martire San Tommaso More, Cancelliere della Corte reale di Enrico VIII: “Credo che quando gli uomini di stato abbandonano la propria coscienza privata per il bene dei loro doveri pubblici, conducano unicamente il loro paese tramite un percorso breve verso il caos”.




La formazione dei candidati al ministero ordinato come educazione alla relazione. A proposito di due recenti pubblicazioni

di Gianni Cioli · Nel recentissimo Sussidio del Servizio Nazionale per la tutela dei minori della Conferenza episcopale italiana, La formazione iniziale in tempo di abusi, a cura di Amedeo Cencini e Stefano Lassi ho trovato alcuni spunti particolarmente stimolanti che riporto estesamente: «Nel cristianesimo tutto è relazione. Dio è Trinità, cioè comunione; la creazione esprime un Dio che addirittura fa esistere chi non è, per intessere con lui un dialogo; fede è fidarsi d’un Tu, a lui abbandonandosi; pregare è mantener viva la relazione che fa vivere, e se il peccato distrugge relazione e capacità di relazione, salvezza è il Creatore che non vuol perdere il contatto con la creatura, e per questo elimina ogni distanza e ristabilisce il rapporto con essa. La vita d’ogni vivente è relazione, la sessualità è relazione, e l’uomo è essere non solo razionale, ma anche e soprattutto relazionale…; ma è relazione anche la vocazione, così come lo sono il Vangelo e ogni annuncio e catechesi, ogni ministero e ogni sacramento. Persino la verità è relazionale, perché si scopre meglio assieme e tende a esser condivisa creando a sua volta relazione; pure la libertà “è un rapporto a due…, non è qualcosa che l’uomo ha per sé, ma per gli altri…, perché l’altro mi ha legato a sé”. E cos’è la vita eterna se non relazione per sempre, che comincia ora e non finirà mai…? ».

D’altra, parte ci avverte il sussidio: «Se è vero […] che la relazione esprime la natura umana (e divina), è pur vero che non viene naturale all’uomo vivere la relazione per ciò ch’essa significa; c’è qualcosa che spinge l’uomo a chiudersi in se stesso o ad aprirsi alla relazione solo apparentemente, ingannando l’altro e se stesso».

È il mistero della concupiscenza che l’antropologia cristiana ha ben presente. Si tratta di una realtà che si profila come insidioso ostacolo alla libertà d’amare e di cui dobbiamo essere avvertiti.

Per cui, continua il Sussidio: «Sarà dunque necessario partire da una comprensione corretta della maturità relazionale, intesa come la capacità/libertà di uscire da sé per mettere l’altro, col suo mistero di vita e di morte, di gioia e sofferenza, al centro della propria vita, e – assieme all’altro – mettere Dio al centro della relazione stessa.

Insomma, la maturità relazionale come un duplice autodecentramento: in favore del tu umano, e poi del Tu divino».

Per questo: «Occorre, allora, prestare attenzione nel tempo della prima formazione a chi in qualche modo sembra evitare la relazione, in nome d’una malintesa idea di spiritualità, oggi pericolosamente diffusa in una certa generazione giovanile (che sembra difendersi dalla relazione o cerca solo quella virtuale), o in vista d’una perfezione di stampo sostanzialmente individualistico (per la quale la relazione è solo un accidens); così come è necessario, d’altro canto, correggere da subito un certo spontaneismo relazionale, senza criteri di riferimento e alla fine senza senso, ove la relazione è di fatto cercata per metter se stessi al centro del rapporto con l’altro, per servirsene, senza più alcuna apertura autodecentrante e autotrascendente verso il mistero. Allora l’abuso è già in qualche modo in atto» (Servizio Nazionale Per La Tutela Dei Minori Della Conferenza Episcopale Italiana, Sussidio 3. La formazione iniziale in tempo di abusi e per giovani in formazione per formatori al presbiterato e alla vita consacrata, Pubblicato online 2021, pp. 31-32.).

A proposito di educazione alla relazione ho trovato particolarmente stimolante anche la lettura del libro collettaneo a cura di F.J. Insa Gómez, Amare e insegnare ad amare. La formazione dell’affettività nei candidati al sacerdozio (Edusc, Roma 2018). Al di là del valore dei singoli contributi è interessante la visione che emerge dall’articolazione dei contributi stessi: quella dell’intrinseco legame che esiste e si alimenta in modo circolare fra vita teologale (esercizio della fede, della speranza e della carità) e disposizione alla castità, ovvero alla gestione del desiderio attraverso l’educazione della ragione, dei sentimenti, delle passioni e delle pulsioni in modo tale da liberare la potenzialità relazionale e fecondante insita nella sessualità dell’essere umano. La castità va ovviamente letta come concretizzazione della virtù temperanza e quindi collocata nell’organismo delle virtù cardinali (prudenza, giustizia fortezza e temperanza) a loro volta connesse con la prospettiva psicologica, a motivo della loro essenziale relazione con la concretezza. Queste virtù ci sfidano a stare con i piedi per terra e quindi a diffidare di chi giudica il ricorso alla psicologia e alla psichiatria come un riduzionismo. Come pure ci sfidano a non separare l’esercizio della carità teologale dalla gioia dell’amicizia umana che è importante imparare a coltivare. Senza una paziente, concreta e umile attenzione ai bisogni psicoaffettivi di chi è in discernimento vocazionale, disposta onestamente a fare realisticamente i conti con le ombre e le immaturità segnano cammino di tutti noi, la cosiddetta “maturità umana”, tanto evocata nei documenti della chiesa sui seminari, rischia di risultare come l’araba fenice nella lirica di Metastsio: «che ci sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa» (Metastasio, Demetrio (1731), II.3).




«Il mio viaggio con padre Alexander» L’esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann

di Dario Chiapetti · Sono pagine dense di storia, di storia della teologia e di storia dello spirito quelle del diario di Juliana Osorgin (1923-2017) (Il mio viaggio con padre Alexander, Lipa, Roma 2021, 111 pp., 12 euro), moglie di Alexander Schmemann (1921-1983) – il grande teologo ortodosso che ha dato un prezioso contributo al rinnovamento della teologia orientale, oltre che alla vita ecclesiale ortodossa americana, concentrandosi soprattutto sulla liturgia, l’ecclesiologia e la storia della Chiesa – che il lettore italiano ha tra le mani, tradotte dall’originale russo.

In non molte pagine si è immersi nelle vicende di Juliana e Alexander, dei loro genitori, nonni, figli e nipoti, che trasportano chi legge dall’Europa dell’est della Prima Guerra Mondiale alla Francia della Seconda Guerra Mondiale e del dopo guerra agli Stati Uniti d’America quasi dei giorni nostri. Sono presentati con toni vivi i drammi delle guerre, le difficoltà dell’emigrazione, ma anche la luce che scaturisce dalla fede, vissuta nella famiglia e nella liturgia, oltre che il realizzarsi, in mezzo a queste circostanze, dei disegni di Dio, sorprendentemente rilevanti per la Chiesa e il mondo.

Juliana racconta di sé, della sua nascita in Germania da una famiglia nobile russa, emigrata per la guerra civile russa, che vanta tra i loro avi santa Juliana di Lazarevo del XVII secolo. Narra di quando, ancora piccola, si trasferì con la famiglia a Parigi, in un sobborgo presso una chiesa, il cui sacerdote era il nonno. Ricorda la sua formazione presso un collegio cattolico e il conseguimento del baccalaureato e della licenza in lettere alla Sorbona. Ripercorre l’episodio di quando, a 17 anni, presso l’Istituto di teologia Saint Serge, dove si recò per fare visita a suo zio, uno dei fondatori, incontrò il diciannovenne Alexander, nato in una famiglia russa di origine tedesche e arrivato in Francia dall’Estonia già da piccolo, il quale aveva iniziato lo studio della teologia, dopo anni di lenta, travagliata, ma progressiva e profonda maturazione spirituale. Racconta poi di quando nel 1943 si sposarono e nel 1945 Alexander divenne sacerdote. Rievoca come all’Istituto Saint Serge, dove questi redigeva il dottorato e muoveva i primi passi nell’insegnamento, vi erano prestigiosi insegnanti, come Sergej Bulgakov, ma anche altri, tra i vertici, che non davano spazio a quelle nuove figure che avrebbero rotto alcuni equilibri. Riferisce di come, all’epoca, il professor Georgij Florovskij, emigrato negli Stati Uniti, fermamente convinto dal potenziale dell’azione missionaria dell’Ortodossia in America, invitò Alexander ad insegnare al piccolo seminario St Vladimir a New York di cui era a capo. Coinvolgente è la parte che informa sulla scelta di Schmemann di accettare, rifiutando una proposta dell’Università di Oxford, e sul trasferimento, con Juliana e i tre figli che nel frattempo erano nati, mosso dal desiderio di avere una vita attiva come insegnante. Ella racconta con ammirazione di come Alexander si spendesse intensamente per rendere il Seminario una realtà accademica altamente qualificata, oltre che un luogo di vita fraterna. Riferisce della vita economicamente precaria ma anche intensa per quanto concerneva lo sviluppo del Seminario, così come pure delle incomprensioni e degli scontri tra suo marito e Florovskij che portarono quest’ultimo a ritirarsi. Ricorda poi come Alexander si buttò a capofitto nella sua attività teologica e didattica, divenendo un punto di riferimento per l’Ortodossia americana, di come si adoperò per l’ottenimento dell’autocefalia dalla Chiesa ortodossa russa, che dopo molte difficoltà, nel 1970, arrivò, e di come trascinava in un’intensa amicizia con sé non credenti, ebrei ed ex marxisti. Ella rammenta inoltre come, oltre a tutto ciò, vi fu l’impegno trentennale con Radio Liberty, per la quale egli trasmise innumerevoli sermoni in Unione Sovietica, ascoltati e apprezzati, tra gli altri, da Aleksandr Solženicyn, col quale divenne grande amico. Juliana confessa che la famiglia si sentì finalmente a casa grazie allo spirito accogliente della vita cristiana in America e giunge così all’ultima fase della vita di Alexander, caratterizzata dall’impegno per la famiglia – nel frattempo ingrandita dai nipoti, dei quali curò la formazione cristiana – e dall’esperienza della malattia (un tumore ai polmoni che aveva generato metastasi al cervello) che lo trasferì in «un altro livello di esistenza». Il diario termina con le pagine, che trapelano profondo amore, sulla morte di Alexander nel 1983 e con l’ultimo testo che egli compose per la radio, che rivela lo spirito con cui egli la visse: il suo mirabile Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace.

Ciò che vividamente emerge da questo diario è quella profonda unitarietà della vita – che compone affetti familiari, vicissitudini storiche, personali, inquietudini, difficoltà, aspirazioni, impegno teologico, ecclesiale, pastorale – che si fa spazio nella vita nello Spirito e che la liturgia prefigura e anticipa come memoria del suo stato definitivo del regno.

Tutto è carico di disarmante umanità. La teologia, per Alexander Schmemann, altro non era che l’unica cosa che, forse, dovrebbe essere: l’esposizione, più o meno sistematica, dei contenuti dogmatici appresi nell’esperienza personale come Chiesa, e riconoscibile nel suo statuto servile nei confronti della comunità cristiana e della famiglia umana.

«Un giorno Alexander stava camminando lungo una strada di Harlem quando un mendicante gli si avvicinò. Era un grosso uomo di colore e chiaramente una persona gentile. “Padre, la prego, vorrei parlarle”. Alexander allungò la mano alla tasca, gli porse degli spiccioli e gli disse di comprarsi un caffè e del cibo. “No, no, padre”, disse l’uomo, “Non mi servono i suoi soldi, voglio solo parlare con lei”. Allora Alexander lo portò in un caffè e gli chiese: “Dunque, di cosa vuole parlare?”. Più tardi Alexander raccontò che c’era una premura nella sua voce. “Padre, mi spieghi la Santissima Trinità. Chi sono e perché sono tre?”. Alexander non dimenticò mai questa conversazione. La considerava l’incontro teologico umano e divino più significativo della sua vita».




La Vita di Cristo dell’abate Ricciotti tra sangue e vangelo.

di Carlo Nardi · Precisamente: Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo [anno 1941] con una introduzione critica del Autore e una premessa di Luigi Santucci, I-II, Arnoldo Mondadori Editore, prima edizione Oscar Mondadori nel settembre del 1974.

Prefazione alla 1a edizione

La prima vaga idea di scrivere questo libro mi venne molti anni fa in circostanze straordinarie. Ero stato trasportato in un ospedaletto da campo, che stava rimpiattato sotto un bosco d’abeti in un vallone delle Alpi: per qualche tempo rimasi là tra la vita e la morte, più vicino a questa che a questa; notte e giorno il vallone rintronava schianto delle granare, attorno a me gridavano feriti e rantolati moribondi, il lezzo delle cancrene che ammorbava l’aria sembrava un preannunzio del cimitero. Aspettano la mia sorte, a un certo momento pensai che, se fossi sopravvissuto, avrei potuto scrivere una Vita di Gesù Cristo; il vangelo di lui, infatti, stava là sul mio pagliericcio, e le sue pagine ove le macchie di sangue si erano sovrapposte a guise di rubriche alle lettere greche mi parevano un simbolo intrecciato di vita e di morte.

Guarito che fui e tornato alla vita normale, quell’idea della Vita di Gesù Cristo invece di attirarmi mi sgomentava, e ogni volta che vi ripensavo ne avevo sempre più paura: eppure non solo non mi abbandonava giammai, ma piuttosto diventava per il mio spirito una specie di necessità. Come si fa istintivamente di fronte alle necessità paurose, cominciai con girarle dattorno, quasi per illudere me stesso: mi detti a pubblicare studi su testi ebraici e siriaci, quindi una Storia d’Israele e poi ancora la guerra giudaica di Flavio Giuseppe, ma la cera roccaforte restava ancora là intatta nel bel mezzo nei mie giri, risparmiata dalla mia paura. Ben poco mi scossero esortazioni d’amici e inviti d’autorevolissimi persone: risposi immutabilmente per molti anni che le mie forze non reggevano davanti a una Vita di Gesù Cristo.

Invece più tardi, contro ogni previsione, ho ceduto. Ma ciò è avvenuto perché l’agonia dell’ospedaletto da campo, dopo tanti anni, si è rinnovata e in circostanze assai peggiori: quando cioè vidi che la tempesta di una nuova guerra s’addensava sull’umanità, e che l’Europa secondo ogni più facile previsione sarebbe stata nuovamente allagata di sangue, allora mi parve che non la mia persona ma tutta intera l’umanità, quella cosiddetta civile, giacesse moribonda con un vangelo macchiato di sangue sul suo pagliericcio.

Quest’immagine divenne allora così imperiosa su di me fui costretto ad obbedire: essendo tornato il sangue sul mondo, bisognava pure il vangelo. E così il presente libro è stato scritto mentre l’Europa era nuovamente in preda alla guerra ossia a ciò ch’è la negazione più integrale del vangelo.

Se faccio queste confidenze al lettore non è per parlare della mia insignificante persona: è invece per avvertite in quale stato d’animo è stato scritto questo libro. La quale avvertenza è, a parer mio, importantissima per giudicare ogni biografia di Gesù: il lettore che avrà la pazienza di scorrere l’ultimo capitolo all’Introduzione si convincerà facilmente che le biografie di Gesù scritto dallo Strauss, del Renen, del Loisy e di tanti ricevettero le loro particolari coloriture soprattutto allo stato d’animo del rispettivo aurore. Altrettanto avvenuto a me – e lo confesso onestamente – giacché lo stato d’animo con cui ha scritto è stato quello di uscite dal presente e raccogliermi nel passato, uscire dal sangue e raccogliermi nel vangelo.

Ma appunto per questa ragione ho voluto fare opera esclusivamente storico-documentaria: ha cercato cioè il fatto antico e non la teoria moderna, la sodezza del documento e non la friabilità d’una sua interpretazione in voga: ho perfino osato imitare la nota ‘impassibilità’ degli evangelisti canonici, i quali non hanno né una esclamazione di letizia quando Gesù nasce né un accento di lamento quando egli muore. Ho mirato, dunque, a far opera di critica.

So benissimo che quest’ultima parola, comparsa critica è soltanto demolitrice e la sua ultima conclusione dove essere un ‘No’; ma non è affatto dimostrato che cotesti valentuomini abbiano ragione, e tanto meno affatto dimostrato che cotesti valentuomini abbiano ragione, e tanto meno che la loro intenzione demolitrice sia risultata realmente efficace sui documenti presi di mira: anche su questo punto l’ultimo capitolo dell’Introduzione convincerà facilmente il lettore spassionato e imparziale. Del resto cotesti demolitori sono ormai quasi ‘superati’; naturalmente essi, dopo aver imperato per parecchi anni, rifiutano di abdicare e rimangano tenacemente attaccati ai loro metodi; ma, come è già avvenuto per l’Antico Testamento, anche per il Nuovo la critica programmaticamente demolitrice dei ‘vecchi’. Oggi, in forza sia d elle recentissime scoperte documentarie sia di tante altre ragioni, la saggia critica mira ad essere costruttrice e la sua ultima conclusione vuole essere un ‘Si’. Compito difficile, senza dubbio: ma la riluttanza anche provavo a scrivere questo libro era causata specialmente da questa difficoltà, di essere nello stesso tempo critico e costruttivo.

Per amore di chiarezza, e per non costringere il lettore a ricorrere ad altri libri, ho dovuto riassumere nell’Introduzione alcune poche pagine del volume secondo della mia Storia d’Israele: trattavo infatti argomenti che ero costretto a trattare anche qui. Non si cerchino argomenti che ero costretto a trattate anche qui. Non si cerchino invece in questo libro moltissime altre cose che esse, già troppo ampio, non doveva né poteva trattare. Tale è il caso, ad esempio, della bibliografia, che per il nuovo testamento forma quasi una scienza a sé e richiederebbe un volume a parte. Solo eccezionalmente mi sono indotto a citare qua e là alcuni pochi lavori particolari, mentre per uno sguardo generale valgono – e sono anche troppi – gli autori citati nell’ultimo capitolo dell’Introduzione …

Roma, gennaio 1941

Ed ora mi ritrovo in un piccolo detto che abbraccia un mondo intero con un dotto scritto che anela e induce verità.




Apertura dell’animo e manifestazione della coscienza, due ambiti nella vita intima del religioso a confronto con il diritto alla riservatezza (can. 630 CIC)

di Francesco Romano • La relazione tra il voto di obbedienza che obbliga il religioso “a sottomettere la propria volontà ai legittimi superiori che fanno le veci di Dio quando comandano secondo le proprie costituzioni” (can. 601) e la libertà che gli è “riconosciuta” per quanto riguarda il sacramento della Penitenza e la direzione della coscienza (can. 630 §1), ci porta a riflettere sul fòro interno della coscienza e le possibili implicazioni nella vita consacrata. Sarà inoltre da non sottovalutare la sfumatura linguistica di non irrilevante significato che è resa presente con la distinzione tra manifestazione dell’animo e manifestazione della coscienza (can. 630 §5).

La pratica della manifestazione della coscienza va affermandosi fin dagli albori del monachesimo come apertura dell’animo all’abate, al superiore o al padre spirituale, vista come strumento per la crescita spirituale nell’esercizio delle virtù e il superamento delle difficoltà della vita consacrata.

Con l’inizio della vita cenobitica secondo la regola di Basilio il Grande (†379) viene ammessa l’esposizione delle proprie mancanze al praepositus, cioè all’abate, quale guida spirituale. Nella regola di S. Benedetto (†540) l’abate deve conoscere lo stato dell’anima di ciascun monaco perché possa averne cura e accompagnarlo nella via della perfezione, soprattutto quando si tratta di peccati occulti, ma anche conoscere le buone disposizioni e i frutti della grazia. La manifestazione della coscienza all’abate è segno di totale dipendenza e di umiltà dei monaci quando è fatta fuori dalla confessione.

A partire dall’ottavo secolo la manifestazione della coscienza, passo dopo passo, finisce per identificarsi con la manifestazione dei peccati e in alcuni casi si equivoca nell’uso del termine confessione benché questa si mantenga distinta. La necessità di avere sacerdoti nei monasteri per amministrare l’assoluzione sacramentale fa sì che gli abati chiedano l’ammissione all’ordine sacro di alcuni monaci perché provvedano alla formazione spirituale dei loro confratelli secondo il proprio carisma e tradizione senza dover ricorrere a sacerdoti esterni. In questo modo la manifestazione della coscienza finisce per confluire e confondersi con il sacramento della confessione.

Fino al sedicesimo secolo la regola benedettina influenza le costituzioni degli ordini religiosi e la manifestazione della coscienza finisce per restare indistinta dalla confessione sacramentale. Il Concilio Lateranense IV nel 1215 dispone che i fedeli debbano confessarsi sotto pena di invalidità con il “sacerdote proprio”, cioè il parroco proprio e per i religiosi il proprio superiore procurando il cumulo delle due cariche di confessore e direttore spirituale con il rischio di violare il sigillo sacramentale o di commettere abusi nell’utilizzare le conoscenze per il governo esterno dei sudditi.

Nella vita religiosa della Compagnia di Gesù entra l’obbligo della manifestazione della coscienza da farsi al superiore o al padre spirituale nella confessione per il miglior governo dei sudditi e dell’istituto, come esigenza della vita apostolica. Tale manifestazione della coscienza finirà per essere proibita con la promulgazione del Codice di Diritto Canonico del 1917, ma già con il decreto “Sanctissimum” del 26 maggio 1593 Papa Clemente VIII aveva proibito ai superiori di obbligare i propri sudditi di confessarsi con loro e di ricevere nel fòro interno sacramentale la manifestazione della coscienza che era finita per diventare come una confessione fatta al superiore fuori dal sacramento.

Il Papa Leone XIII approva nel 1890 il decreto della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari “Quemadmodum” dove deplora che i superiori laici inducano direttamente o indirettamente i loro sudditi alla rivelazione intima della loro coscienza che corrisponde alla confessione, ma permette che questi liberamente e spontaneamente manifestino il loro animo per ricevere consiglio e aiuto nelle difficoltà. Il decreto “Quemadmodum” è la fonte del can. 530 del Codex 1917 che proibisce ai superiori religiosi di indurre i sudditi a manifestare loro la propria coscienza lasciando la disponibilità di aprirsi con filiale fiducia solo ai superiori se sono anche sacerdoti per manifestare i dubbi e le afflizioni della propria coscienza. In questo modo il can. 530 con le parole “expedit […] si sint sacerdotes” fa una chiara distinzione tra superiori sacerdoti e superiori laici permettendo ai loro sudditi di esporre questioni di coscienza solo se sacerdoti.

Si va quindi diffondendo l’idea che la normativa canonica proibisca l’apertura dell’animo dei sudditi con i loro superiori (can. 518 §3 Codex 1917) ai quali debba competere solo il governo esterno della comunità e garantire l’osservanza della disciplina. Tuttavia il can. 530 §2 del Codex 1917 non proibisce al suddito di poter aprire liberamente al superiore il proprio animo. In questo caso non si ha violazione della propria intimità, ma apertura del cuore perché possa ricevere luce sull’osservanza della vita religiosa, l’inserimento nell’istituto, l’osservanza dei consigli evangelici, l’orazione ecc. Un’apertura dell’animo che restando nell’ambito del fòro esterno non comporta la violazione della propria intimità con la manifestazione della coscienza o la rivelazione dei peccati, ma al contrario offre anche al superiore la possibilità di operare il giusto discernimento e al suddito di farsi conoscere e guidare.

Basilio il Grande

L’attuale Codice di Diritto Canonico presenta la relazione di fiducia tra religioso e superiore di cui al can. 630 §5 in stretta continuità con il previgente Codex del 1917. Se da un lato si proibisce ai superiori di coartare il diritto originario alla debita libertà dei religiosi per quanto riguarda il sacramento della Penitenza e la direzione della coscienza (can. 630 §1), dall’altro i religiosi vengono esortati a rivolgersi ai superiori con fiducia per aprire il proprio animo con spontanea libertà, mentre è fatto assoluto divieto ai superiori di indurli a manifestare la propria coscienza in qualunque modo (can. 630 §5).

L’apertura dell’animo non corrisponde alla manifestazione della coscienza che il legislatore si preoccupa di tutelare per evitare abusi. Tra essi intercorre la distanza che c’è tra il fòro esterno, il fòro interno sacramentale ed extrasacramentale o fòro della coscienza quali ambiti che corrispondono rispettivamente al superiore anche se laico, al confessore e al direttore spirituale.

La manifestazione della coscienza è la libera rivelazione di tutto ciò che per sua natura è interno e non può essere conosciuto se non per volontà della persona. Lo stretto carattere confidenziale del fòro interno si coniuga con il diritto di cui gode ciascuna persona di tutelare la propria intimità (can. 220).

L’apertura dell’animo è invece la manifestazione dei propri sentimenti, delle proprie inclinazioni, del mondo interiore, ma senza oltrepassare e invadere l’ambito della coscienza, ovvero il rapporto con Dio e l’agire dell’uomo nella prospettiva del bene e del male. Il limite tra apertura dell’animo al superiore e manifestazione della coscienza è sottile e spesso l’oggetto coincide, ma è segnato dalla diversa finalità del religioso nella ricerca di aiuto a vivere una rinnovata fedeltà secondo la chiamata dello Spirito che potrebbe spingersi fino all’esame intimo della coscienza. La mens del legislatore trova riscontro in un caso analogo quando esorta gli alunni del seminario ad avere un proprio direttore spirituale “scelto liberamente, al quale possa aprire con fiducia la propria coscienza” (can. 246 §4). Anche nel caso che riguardi solo l’ambito del fòro interno non sacramentale viene sottolineata la piena libertà del religioso di scegliere a chi indirizzarsi per la direzione della coscienza (can. 630 §1)

Per quanto riguarda il rapporto tra religiosi e superiori il can. 630 §5 non esclude che il religioso possa rivolgersi ai propri superiori per aprire il proprio animo, ma la preoccupazione del legislatore è di tutelarlo per evitare che il superiore si addentri nella sua coscienza come se ci fosse un’ultima frontiera da abbattere e un ambito della persona da espugnare. Non è infrequente, infatti, che oggi si venga a conoscenza con maggiore facilità di metodi esercitati all’interno di certi enti associativi come sistema di controllo e di potere che va sotto il nome di dominio delle coscienze. Tutto questo non ha nulla di ecclesiale.

Se da un lato si afferma in modo categorico il diritto del religioso di tutelare la propria intimità e non essere indotto dal superiore a manifestargli la propria coscienza, dall’altro il can. 630 §5 esorta il religioso a nutrire fiducia verso il superiore come passaggio necessario per aprirgli il proprio animo ed essere aiutato e accompagnato. Si tratta di reciproca fiducia che potrà affermarsi se il superiore per primo si rende credibile nello svolgimento della sua funzione di magister spiritus e nell’esercizio della sua autorità che gli è data a beneficio della santificazione di ciascun membro. Resta fermo che il superiore non può obbligare il religioso a qualunque forma di rivelazione sia come apertura dell’animo che come manifestazione della coscienza.

Rispettando l’ambito di competenza del confessore e del direttore spirituale, il can. 630 §5 esorta il religioso a guardare con fiducia al superiore e ad aprirgli il proprio animo, cioè quel mondo che, pur non riguardando il fòro interno, si va disvelando in un dialogo personale e al tempo stesso aiuta il superiore a svolgere il compito di responsabile e guida spirituale e apostolica della comunità dei fratelli.

Apertura dell’animo e manifestazione della coscienza non sono sinonimi e il legislatore lo sottolinea mettendo la seconda sotto la specifica tutela giuridica in forma di divieto rivolta ai superiori. Questo vuole essere segno di come la Chiesa intenda il rapporto tra superiore e suddito e l’esercizio della potestà d’ordine e di governo.




La teologia di Dante in un trittico del cardinale Ravasi

di Andrea Drigani · «A l’etterno dal tempo»: con questo verso della Divina Commedia (Par XXXI,38) ha preso le mosse la lectio del cardinale Gianfranco Ravasi sulla teologia di Dante, tenutasi venerdì 28 maggio a Firenze nella Basilica di Santa Croce.

Il cardinale ha esordito ricordando, cioè riportando al cuore, che è lo stesso Dante a ritenere la sua opera di natura teologica, tanto da definirla il «poema sacro al quale ho posto mano e cielo e terra» (Par XXV,1-2). Ravasi ha quindi osservato come la conoscenza della teologia dantesca non è facile, ma richiede un itinerario, un viaggio, una scalata, che in particolare verso la fine può essere faticosa.

Il cardinale ha proposto un ideale trittico per aiutare la comprensione di Dante Poeta-Teologo e Teologo-Poeta. Il primo quadro del trittico è Dante credente e uomo di chiesa, il secondo riguarda l’essenza della teologia dantesca, il terzo la riflessione sulle virtù teologali, in special modo sulla fede, così come si trova nel Canto XXIV del Paradiso.

Nel primo quadro si possono collocare l’Enciclica «In praeclara summorum», del 1921, di Benedetto XV, la Lettera Apostolica «Altissimi cantus», del 1965, di San Paolo VI e la Lettera Apostolica «Candor lucis aeternae» di Francesco. San Paolo VI ha osservato che la voce di Dante si levò, in modo sferzante e severo, contro il comportamento degli ecclesiastici, anche papi, ma tutto ciò non ha mai scosso la sua fede cattolica e la sua appartenenza alla Chiesa.

Il secondo quadro riguarda l’essenza della teologia dantesca che si può compendiare in quella parola «Trasumanar» (Par I, 70), indicante il cammino dell’uomo verso l’Oltre e verso l’Altro, come pure la condiscendenza (synkatabasis) di Dio verso gli uomini, sovente richiamata da San Giovanni Crisostomo. L’essenza della teologia di Dante, ha osservato Ravasi, coincide con l’essenza del Cristianesimo, cioè l’Incarnazione, dove l’eternità entra nel tempo, la realtà viene trasformata ma conservata, dove nella visione della Trinità «mi parve pinta la nostra effige» (Par XXXIII, 131). Il cardinale ha quindi rilevato che la teofania ci precede ed eccede, rammentando le parole di Manfredi: «Orribil furon li peccati miei: ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei» (Purg III,121-123).

Il terzo quadro del trittico s’incentra nel Canto XXIV del Paradiso ove Dante dinanzi ad un «sodalizio eletto» (i santi del Paradiso), è sottoposto ad un esame di teologia, scienza e fede, da parte di un esaminatore speciale: l’apostolo San Pietro. Si tratta di un esame in forma dialogica con cinque domande e cinque risposte.

Alla prima domanda «fede che è», Dante risponde con la Lettera agli Ebrei: «Fede è sustanza di cose sperate ed argomento delle non parventi; e questa pare a me sua quidditate». La seconda domanda concerne gli «argomenti», e la risposta è che dalla fede si debbono trarre gli argomenti (sillogizzare), poiché la ragione non si oppone alla fede. La terza domanda riguarda il fondamento della fede e la risposta la indica nella parola di Dio, nell’Antico e Nuovo Testamento («in su le vecchie e ‘n su le nuove cuoia»). La quarta domanda attiene alla prova della fede che Dante dice di basarsi sui miracoli. La quinta domanda è sulla veridicità dei miracoli alla quale Dante fa presente come il più grande miracolo è stato quello della conversione al cristianesimo dei pagani ad opera di uomini, come i discepoli, pieni di limiti e di difetti, che senza lo Spirito Santo non avrebbero potuto fare nulla.

Dante proclama, al termine dell’esame, la sua professione di fede: «Io credo in uno Dio solo ed eterno, che tutto ‘l ciel muove, non moto, con amore e con desio» . Il desiderio – ha rammentato il cardinale Ravasi – nel suo significato etimologico latino de sidus, vuol dire mancanza di stelle, cioè avvertire la mancanza di stelle, proprio quelle stelle che concludono tutte e tre le cantiche del «poema sacro».