Presentazione degli articoli del mese di luglio 2020

San_Giovanni_Gualberto_1Andrea Drigani presenta la nuova legge vaticana sugli appalti, promulgata da Papa Francesco, al fine di indicare procedure trasparenti, verifica della sostenibilità della spesa, introduzione del principio di concorrenza. Dario Chiapetti nel 25° anniversario della pubblicazione dell’Enciclica «Ut unum sint» ripercorre le tappe del cammino ecumenico svolto, tenendo presente che l’unità dei cristiani non è opera del Papa, dei vescovi o dei teologi, bensì del Signore. Giovanni Campanella invita alla lettura del volume di Francesco Marchesi, che commentando la «Leggenda dei tre compagni» («Legenda trium sociorum»), propone ai giovani dei consigli utili e pratici per discernere la chiamata del Signore. Mario Alexis Portella illustra l’attuale situazione negli USA che vede scontri d’origine politica, più che razziale, che richiede l’impegno delle autorità per salvaguardare i principi classici della democrazia in America. Gianni Cioli paragona la fecondità dell’esilio babilonese dei Giudei a partire dal 597 a.C. che ricompresero la loro identità e la fede nel Dio unico, con la fecondità del nostro «esilio» causato dalla pandemia. Carlo Parenti affronta il tema dei rifugiati, nella Giornata Internazionale a loro dedicata dall’ONU, che riguarda circa 80 milioni di persone, tenendo conto del Messaggio del Papa per questa circostanza. Francesco Romano circa l’obbligo di osservare il precetto festivo ed il suo eventuale esonero rileva che quest’ultimo, non è di competenza del parroco, se non nell’ambito delle disposizioni del vescovo come stabilisce il can.1245, d’altra parte, a tenore del can.1248 § 2, una grave causa può rendere impossibile l’adempimento del precetto stesso. Carlo Nardi tenendo conto della lezione di Giovanni Cassiano e diverse esperienze di vita, commenta la formula «Deus in adiutorium meum intende» («O Dio vieni a salvarmi»), per rammentare la necessità di invocare sempre, se vogliamo andare avanti, Dio che ci salva. Stefano Liccioli svolge alcune considerazioni sul dopo covid 19, in particolare sulla ridefinizione del «progresso», che non può sussistere se lo sviluppo tecnologico ed economico non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore. Antonio Lovascio annota sullo scarso interesse della politica italiana per la scuola, emerso dopo la pandemia, mentre vi è bisogno di un grande impegno programmatico, sia pedagogico che economico, per lo sviluppo delle istituzioni scolastiche. Giovanni Pallanti recensisce il libro di suor Alessandra Smerilli, che riepiloga concetti e teorie note, utile per chi non conosce la scienza economica. Alessandro Clemenzia riprende il dibattito che vi è stato tra i giuristi, al tempo della pandemia, sull’eventuale conflitto tra il diritto alla libertà religiosa e la tutela del bene comune. Leonardo Salutati osserva che il concetto di «nazione» non è primariamente giuridico-politico bensì culturale, per cui la tutela dell’identità di un popolo si coniuga con la promozione dell’unità tra i popoli. Stefano Tarocchi dinanzi ad episodi drammatici nei quali si è perso il senso della vita e della morte, con la Lettera di San Paolo ai Romani, lettera indirizzata anche a noi, fa sentire il grido dell’Apostolo: «Sia che moriamo, sia che viviamo siamo sempre del Signore». Francesco Vermigli introduce al nuovo Direttorio per la catechesi, dal quale emerge, anche secondo la storia della Chiesa antica sino al recente magistero, che il compito suo più proprio della catechesi è rinnovare la semplicità e la potenza dell’annunzio che racconta la persona di Cristo e la sua missione. Nella rubrica «Coscienza universitaria» si rileva che l’incremento della cultura, anche sotto l’aspetto finanziario da parte delle classi dirigenti, in particolare dopo l’emergenza, stenta assai a decollare.




Presentazione degli articoli del mese di luglio 2020

unnamed (2)Andrea Drigani commenta la decisione del presidente turco Erdogan che, abrogando il decreto del suo predecessore Atatürk del 1934, ha ritrasformato Santa Sofia in moschea, in contrasto col diritto alla libertà religiosa e con una sana teoria dello Stato. Giovanni Campanella presenta il volume «Nostra Madre Terra. Una lettura cristiana della sfida dell’ambiente» che raccoglie testi, frasi discorsi e omelie di Papa Francesco, tra cui suo scritto inedito, con la prefazione del Patriarca Bartolomeo. Dario Chiapetti recensisce la nuova versione italiana del commento di Nicolas Cabasilas alla Liturgia di San Giovanni Crisostomo, un patrimonio teologico comune a tutta la Chiesa, latina e orientale, nonché di grande attualità. Carlo Nardi con una novella di Archibald Joseph Cronin (1896-1981) riflette e aiuta a far riflettere, in modo umile, sull’umiltà. Antonio Lovascio dinanzi ai gravi episodi di morte, di violenza e di spaccio di droga che contrassegnano questa estate italiana del dopo covid-19, richiama l’assoluta importanza di un grande impegno pedagogico, rilevando che l’educazione dei giovani si fonda primariamente sulla testimonianza della vita dei genitori e degli adulti. Gianni Cioli per contribuire all’odierno dibattito sull’ecclesiologia di comunione invita alla lettura del volume di Renato Marangoni sul pensiero ecclesiologico di San Paolo VI: un grande timoniere della Chiesa. Stefano Tarocchi medita sulla parabola della zizzania (Mt 13, 24-30), una rinnovata occasione per pensare alla compresenza del bene col male, sul giudizio universale, sulla vittoria finale di Dio. Giovanni Pallanti ricorda, a cento anni dalla nascita, lo scrittore Carlo Coccioli, oggetto pure di una recente biografia di Alessandro Raveggi, un uomo dai molteplici interessi culturali rivolti alla ricerca di Dio. Francesco Romano illustra il «Vademecum» preparato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per aiutare i vescovi diocesani nell’espletamento delle inchieste sugli abusi sessuali. Mario Alexis Portella fa memoria del pensiero e dell’opera del Presidente USA Woodrow Wilson (1856-1924), per lo sviluppo della democrazia e del retto ordine internazionale, anticipando in qualche modo le indicazioni della «Pacem in Terris». Francesco Vermigli dalla pubblicazione di un commento sul Rito degli esorcismi svolge alcune considerazioni teologiche e pastorali sull’azione del diavolo, oltre la vana credulità e la superbia razionalista. Stefano Liccioli richiama l’attenzione su Giovanni Scifoni, attore, regista e drammaturgo, che sulla piattaforma digitale «Rayplay» propone un programma assieme alla sua famiglia, un modo per valorizzare quest’ultima. Leonardo Salutati anche alla luce del magistero di San Giovanni Paolo II, rileva che la democrazia intesa in senso aritmetico anziché etico, rischia di debordare verso un regime totalitario. Alessandro Clemenzia annota sul messaggio di Francesco alle Pontificie Opere Missionarie per ribadire che lo slancio missionario va vissuto come azione informante e performante dello Spirito Santo. Nella rubrica «Coscienza universitaria» si narra della esperienza del lockdown vissuta dagli studenti come un deserto nel quale si percepisce il silenzio di Dio che chiede all’anima di amarlo per la vita, accostandosi e parlando al suo cuore.




Prassi liturgica e obbedienza alla circostanza

1584124921614_1584124944.jpg--di Alessandro Clemenzia · In questo tempo di pandemia si sono incontrati, e forse scontrati, due tipi di necessità: uno imposto dalla circostanza, che richiedeva al singolo cittadino di non uscire dalla propria abitazione, neanche per adempiere al precetto domenicale; un altro, invece, riguarda l’adempimento di una prassi del senso religioso, anche se differentemente in base alle varie esperienze di fede. A partire da questo incontro/scontro è sorto un dibattito, tanto in ambito teologico-sacramentale, quanto in quello pastorale-spirituale, coinvolgendo, per l’interdisciplinarità dell’argomento, anche esperti del mondo politico, giuridico e canonico.

Il dibattito ha fatto spostare l’attenzione da una dimensione più soggettiva della situazione sociale a una più oggettiva: dalla necessità di partecipare all’assemblea liturgica alla domanda sulla legittima sospensione della forma pubblica della Messa, attraverso un atto di legge. I vari interventi ruotano attorno alla seguente domanda: il mezzo usato dal governo è stato realmente necessario? Certamente va riconosciuto che la decisione di sospendere le liturgie pubbliche, richieste dal governo e dalle ordinanze regionali, è stata anche recepita dalla Conferenza Episcopale Italiana, in ottemperanza al principio di reciproca collaborazione con lo Stato italiano (sancito dal Concordato, articolo 1).

Al di là del Concordato, che segna certamente un punto di non ritorno, è importante fare riferimento a una prassi che nella Chiesa è sempre esistita, basti pensare ai provvedimenti presi da Alessandro VII a causa di una terribile peste che dilagò nella città di Roma nel 1656, oppure alle disposizioni emanate dall’Arcivescovo di Lucca Giulio Arrigoni a causa del colera, avvenuto tra il 1854 e il 1855.

La polemica, soprattutto in ambito giuridico, riguarda non tanto la decisione della Conferenza Episcopale Italiana di recepire e disporre quanto richiesto dal governo e interrompere le liturgie pubbliche, ma la performatività di quanto affermato dal governo nel dichiarare sospese le Messe nella forma pubblica. Per approfondire questo argomento – che fuoriesce dalle mie personali competenze – vorrei riportare due contributi di esperti, recentemente usciti: uno, scritto da Massimiliano Viola, dottorando di ricerca in diritto costituzionale e cultore della materia in diritto pubblico, l’altro, da Andrea Drigani, docente di Diritto Canonico presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale (Firenze).

Il primo tratta l’argomento esclusivamente da un punto di vista giuridico. La questione fondamentale è quella di comprendere se lo Stato italiano, pur riconoscendo le finalità delle restrizioni nel contenimento della propagazione del virus, abbia realmente il potere di sospendere le “riunioni” di carattere religioso. Per rispondere a ciò, Viola si rifà al principio di proporzionalità, al quale ogni forma di autorità deve essere soggetta, e scrive: «Ora, è noto che il giudizio di proporzionalità è tradizionalmente scandito in tre fasi: (i) la valutazione dell’idoneità dei mezzi prescelti rispetto al fine da perseguire; (ii) la verifica intorno alla necessarietà del mezzo adottato, che deve imporre il minor sacrificio possibile degli altri diritti o interessi protetti; (iii) la proporzionalità in senso stretto, che guarda agli effetti dell’atto, secondo uno schema di costi-benefici, non dovendo gravare in modo eccessivo sul destinatario della misura. Si tratta, a ben vedere, di un’analisi sul quomodo del potere».

Alla luce di questo principio, secondo Viola nascono alcune perplessità: riconoscendo il caso d’emergenza sanitaria in cui ci si trova, il culto pubblico da parte dello Stato non può essere impedito, a norma della Costituzione, se non per motivi di buon costume. Proprio per questo la soluzione circa le celebrazioni liturgiche poteva essere la medesima delle restrizioni usate per il supermercato, e non l’impossibilità di assistere al culto. Non solo, secondo l’autore bisogna ricordare che «a essere posta in dubbio è la sussistenza, in capo allo Stato italiano, del potere di dichiarare unilateralmente sospese le sante Messe nella forma pubblica», e questo in forza del fatto che i due ordinamenti, secondo il Concordato, sono separati tra loro, per questo gli effetti del potere dell’uno sono nulli per l’altro; alla Chiesa, inoltre, a norma dei Patti lateranensi, deve essere assicurata la libertà di esercizio di culto. Viola riconosce tuttavia l’intervento della Conferenza Episcopale Italiana, la quale – come autorità ecclesiastica – può eccezionalmente dispensare dal precetto della partecipazione assembleare alla Messa domenicale.1586618199106

Senza entrare negli altri temi trattai, vorrei passare al contributo del prof. Drigani, il quale rintraccia come punto di partenza della riflessione il preambolo dell’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana, sottoscritto il 18 febbraio 1984. Certamente, la libertà di culto è affermata dalla Costituzione italiana; eppure – ricorda Drigani – la Dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae fa una precisazione, ribadendo che l’esercizio del diritto alla libertà religiosa, essendo esercitato nella società umana, deve essere regolato da alcune norme, e tra queste vi è il principio morale della responsabilità personale e sociale: «nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune». Pur rimanendo aperti gli edifici di culto, di fronte un caso di pandemia ci si trova in uno stato di emergenza tale, in cui al precetto religioso devono passare avanti la tutela degli altri, il bene comune e la solidarietà sociale. Il canonista termina la sua riflessione riconoscendo lo stato di necessità in cui ci si trova e ricordando un antico principio del diritto romano: «Necessitas non habet legem, sed ipsa sibi facit legem».

Come si può osservare, si tratta di due contributi che offrono diverse chiavi interpretative sulla questione; al di là di uno schierarsi dall’una o dall’altra parte, è importante conoscere le ragioni di entrambe. Sia Massimiliano Viola che Andrea Drigani aprono all’ecclesiologia interessanti prospettive di ricerca.




Uno studio di economia per chi la ignora completamente

9788892221451_399402di Giovanni Pallanti · “Donna economia (edizioni San Paolo)”. E’ l’ultimo libro di Alessandra Smerilli, suora salesiana e professore ordinario di Economia Politica alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione ‘Auxilium’ di Roma. Papa Francesco l’ha nominata, nel 2019, consigliere dello Stato della Città del Vaticano. Il libro è interessante perché la filologia della parola economia è il ‘governo della casa’. Storicamente, in quasi tutte le civiltà del mondo, il governo della casa è sempre stato affidato alle donne. Da qui la curiosità per il libro che, per la verità, non è nulla di eccezionale. O meglio: può essere interessante per chi non conosce nulla dell’economia. Il volume della professoressa Smerilli affronta dei capitoli riepilogativi di studi e teorie già conosciute. Il modello a cui la docente si riferisce è quello dell’economista cattolico download (1)Luigino Bruni. In altre parole, il riassunto di temi di economia politica viene amalgamato da valutazioni di morale sociale. Difficilmente si può definire questo aspetto dello studio della Smerilli come un contributo di etica economica, pur essendo presenti delle analisi risalenti all’enciclica di Papa Francesco “Laudato sì”.
“Attraverso l’analisi delle teorie economiche, sociologiche e psicologiche – scrive la rivista Pagine per Te della San Paolo – l’autrice affronta i punti dirimenti di un nuovo modello del ben vivere, quali il lavoro e le tecnologie, i modelli di produzione e di consumo, il ruolo della finanza, portando sempre a testimonianza il pensiero di donne che hanno dato significativi contributi al dibattito internazionale”. La rivista delle edizioni paoline esagera un po’ il valore oggettivo di questo studio. Uno studio interessante solo per chi non conosce nulla di economia.




La diligenza del buon padre di famiglia e la legge vaticana sugli appalti

jpeg-fbdi Andrea Drigani · Nel diritto romano la nozione di «diligentia» («diligenza») era il criterio interpretativo circa l’adempimento delle obbligazioni che veniva poi concretamente precisato con le espressioni: «diligentia diligentis patris familias» e «exactissima diligentia custodiendae rei», tenendo presente che nella custodia s’intende anche la cura. Questa «diligentia» dal diritto romano è poi passata, e tuttora permane in molti ordinamenti civili. A ciò si è espressamente riferito Papa Francesco nel Motu Proprio del 19 maggio 2020 col quale ha emanato le norme sulla trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano. Il Papa ha esordito osservando che la diligenza del buon padre di famiglia è principio generale e di massimo rispetto, sulla base del quale tutti gli amministratori sono tenuti ad attendere alle loro funzioni; in particolare per quanto attiene agli appalti, la possibilità di realizzare economie grazie alla selezione di molteplici offerte è decisiva, dice ancora il Papa, nella gestione dei beni pubblici, ove è ancora più sentita e urgente l’esigenza di un’amministrazione fedele e onesta. Il nuovo testo legislativo, un vero e proprio codice degli appalti, consta di 86 articoli più altri 12 sul contenzioso, assume la Convenzione dell’ONU contro la corruzione sottoscritta a Merida dal 9 all’11 dicembre 2003 e vengono sostituite le precedenti norme. La finalità prioritaria di questa legge vaticana sugli appalti è quella dell’impegno sostenibile dei fondi interni, della trasparenza delle procedure di aggiudicazione, della parità di trattamento e della non discriminazione degli offerenti, mediante misure in grado di contrastare gli accordi illeciti in materia di concorrenza e la corruzione. Per questo vengono previste procedure di verifica e di controllo, con speciale riferimento alle disposizioni sul conflitto d’interesse che, come è stato osservato, in Vaticano si tratta di un tema particolarmente sensibile, onde evitare qualsiasi distorsione della concorrenza. Saranno esclusi dall’iscrizione all’apposito Albo e dalla partecipazione alle gare operatori economici che siano in quel momento sottoposti a indagine, a misure di prevenzione o condanne in primo grado per partecipazione ad organizzazione criminale, corruzione, frode, reati terroristici, per riciclaggio di proventi di attività criminose e sfruttamento del lavoro minorile. Nel codice vaticano degli appalti si stabilisce, poi, che tutti i beni e i servizi, sotto pena di nullità del relativo contratto, sono ordinariamente acquisiti dagli enti in modo centralizzato. Gli enti centralizzati sono due: l’APSA (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica) relativamente ai dicasteri della Curia Romana e alle istituzioni collegate dalla Santa Sede ed il Governatorato per lo Stato della Città del Vaticano. Fino ad oggi, di fatto, non era così poiché i vari organismi agivano spesso come isole staccate dal contesto generale. Presso la Segreteria dell’Economia, che viene ulteriormente confermata nel suo ruolo di vigilanza, viene istituito un elenco dei dipendentiVincenzo-Buonomo-1024x744 e degli incaricati professionali temporanei abilitati a svolgere le funzioni di progettista perito e di membro della commissione giudicatrice. Saranno sorteggiati e parteciperanno a rotazione alle commissioni. Sono molte dettagliate le incompatibilità con l’iscrizione all’elenco, tra le quali c’è la parentela fino al quarto grado e l’affinità fino al secondo grado di un soggetto riferibile ad un operatore economico che abbia presentato offerta, come pure l’essere socio o l’esserlo stato nei cinque anni precedenti di un operatore economico che abbia presentato offerta. Il professor Vincenzo Buonomo, Rettore della Pontificia Università Lateranense e Consigliere dello Stato della Città del Vaticano, uno dei protagonisti della stesura della nuova legge vaticana, ha rilevato che: «Se l’elaborazione di queste norme è il risultato di un impegno quadriennale, l’esigenza della loro redazione è nella volontà di Papa Francesco di dare continuità alle riforme avviate sugli assetti economici e sui criteri di gestione della Curia Romana e dello Sato della Città del Vaticano. Nella nuova normativa – ha concluso – si ritrova l’idea della Dottrina Sociale della Chiesa di legare l’azione alle reali esigenze di una comunità».




«Cristo vive e vive per Dio»

Rublev_Saint_Pauldi Stefano Tarocchi · Non è raro ascoltare qualcuno, che di tanto in tanto, chi di fronte alla ricchezza della parola di Dio della liturgia domenicale accetta con una certa difficoltà, ad esempio la lettura semicontinua di una delle lettere di san Paolo, tipica delle domeniche del tempo ordinario.

Nonostante la difficoltà di raccogliere un pensiero da un testo limato (senza pietà!) dai curatori dei lezionari, ha un ruolo particolare indubbiamente la lettera ai Romani, quasi il testamento di Paolo indirizzato ad una comunità che non ha fondato, per ottenere il mandato di annunciare il vangelo nell’estremo occidente conosciuto al tempo: la Spagna. Nessuno si sognava al tempo di pensare ad una terra piatta…

Ascoltiamo le stesse parole dell’apostolo: «non trovando più un campo d’azione in queste regioni [ossia tutto le terre dell’oriente] e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, spero di vedervi, di passaggio, quando andrò in Spagna, e di essere da voi aiutato a recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza». E aggiunge: «partirò per la Spagna passando da voi (Rom 15,23-24.28).
Nel sesto capitolo della lettera l’apostolo affronta il tema del legame del credente con il Cristo attraverso il battesimo. Paolo può ben dire che coloro che sono stati battezzati in Cristo sono «immersi» nella sua morte – è il senso letterale del verbo greco –, e di conseguenza sono stati sepolti con il Cristo per poter ottenere la pienezza della vita nella risurrezione.

Ascoltiamo le sue parole: «non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo, dunque, siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova». Il battesimo, cioè, è qui richiamato non in quanto rito bensì in quanto efficace per rendere presente l’evento storico della morte di Cristo. È questa ad operare la salvezza.

E Paolo così prosegue: «se siamo stati intimamente uniti [lett. “della stessa natura”] a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (Rom 6,3-5).

L’apostolo mette in luce una profonda comunione con il Cristo, particolarmente sotto il profilo della risurrezione. Se infatti si parla di immersione nella morte, a maggior ragione Paolo parla di somiglianza nella risurrezione. Tutto questo prelude ad un nuovo essere del credente: «camminare in una vita nuova».Cristiani_2

La vita nuova del Cristo supera la stessa dimensione della morte: dice infatti Paolo:

«se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti, egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio».

Ora, se Cristo è morto al peccato – vale a dire a danno del peccato, quello dell’intera umanità, così che Paolo altrove può dire altrove che Cristo fu fatto «peccato» (2 Cor 5,21: «colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio») –, morire al peccato vuol dire uscire dall’influsso di quest’ultimo. Di conseguenza, «anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rom 6,8-11). Infatti, «l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti, chi è morto, è liberato dal peccato» (Rom 6,6-7).

Questa dimensione di vita in pienezza illumina anche il cammino dell’intera umanità. Se, invece, tanti uomini e donne del nostro tempo non solo si lasciano vivere, ma addirittura, in un modo o in un altro, pretendono di decidere la sorte del loro prossimo qualunque ruolo rivestano, probabilmente vivono la loro vita senza avere cercato, e trovato, un senso.

Ma «Cristo vive e vive per Dio»: nelle fragilità e le povertà delle nostre relazioni con gli altri si è installato un germe di novità, che cancella ogni virus distruttivo. Così lo stesso Paolo scriverà: «nessuno di noi vive per sé stesso e nessuno muore per sé stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore» (Rom 14,7-8).




La sovranità delle nazioni come via all’unità dei popoli

11587684_2di Leonardo Salutati · In un discorso all’Unesco del 1980 Giovanni Paolo II sottolineava il fatto che esiste una sovranità fondamentale della società, che si manifesta nella cultura della nazione, per la quale, allo stesso tempo, l’uomo è supremamente sovrano. Tuttavia sulla carta d’Europa e del mondo ci sono delle nazioni che hanno una meravigliosa sovranità storica che proviene dalla loro cultura ma che sono private della loro piena sovranità. È una questione fondamentale per l’avvenire della cultura umana, soprattutto nella nostra epoca, così come l’urgenza di eliminare i resti del colonialismo (cf. nn.14-15).

Molti commentatori colsero l’allusione alla Polonia, in realtà il Papa andava oltre. Come ribadirà in altri interventi, Giovanni Paolo II tratteggia un’idea di nazione, che non coincide semplicemente con il concetto di stato titolare della sovranità, ma si allarga ai popoli, alla loro storia e alla loro cultura, dove lo stato è considerato «espressione dell’autodeterminazione sovrana dei popoli e delle nazioni» e i diplomatici «rappresentanti dei popoli e delle nazioni che, attraverso tali strutture politiche, manifestano la loro sovranità, indipendenza politica e la possibilità di decidere del loro destino in maniera autonoma» (1979). In questa ottica, denuncia il grave rischio di un «nuovo paganesimo» generato dalle ingiustizie, dal considerare alcuni popoli e culture inferiori ad altri, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (1984), che conduce inevitabilmente alla «divinizzazione della nazione. La storia ha dimostrato che, dal nazionalismo, si passa velocemente al totalitarismo e che, quando gli Stati non sono più uguali, le persone finiscono, anch’esse, per non esserlo più. Così la solidarietà naturale fra i popoli viene annientata, il senso delle proporzioni stravolto, il principio dell’unità del genere umano disprezzato» (1994). È l’opposto della visione cattolica che vede l’umanità destinata a raccogliersi come famiglia di Dio.

La preoccupazione per l’unità umana al di là della logica nazionale, è una caratteristica fondamentale del pensiero sociale della Chiesa, che l’ha condotta nel tempo a cercare meccanismi e sostenere organismi in grado di regolare le tensioni internazionali per favorire la costruzione della pace tra le nazioni. Tale attenzione conobbe una importante svolta negli anni ’60 del ‘900 quando cominciarono ad affacciarsi a livello globale i problemi della solidarietà internazionale a fronte dell’accelerare dello sviluppo economico. Per questo Pacem in terris (1963) considerava la Dichiarazione universale dei diritti umani, «Un atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite» auspicando che tale Organizzazione si adeguasse «sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti» (n. 75).

Pur nella consapevolezza della necessità di salvaguardare le differenze etniche e nazionali, l’idea dell’unità della famiglia umana e quindi di una comunità globale, è costantemente presente nella Dottrina sociale della Chiesa. A tal proposito, già nell’Introduzione, il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa sottolinea che la salvezza, «che il Signore Gesù ci ha conquistato “a caro prezzo”, si realizza nella vita nuova che attende i giusti dopo la morte, ma investe anche questo mondo nelle realtà dell’economia e del lavoro, della tecnica e della comunicazione, della società e della politica, della comunità internazionale e dei rapporti tra le culture e i popoli» (n. 1).

All’interno di queste riflessioni si inserisce il discorso sull’Europa, che nell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa del 2003, Giovanni Paolo II vedeva come un possibile modello di coabitazione di nazioni diverse organizzate in un quadro di regole internazionali, una «comunità di nazioni riconciliate aperta agli altri Continenti e coinvolta nell’attuale processo di globalizzazione» (EiE,109). Per questo così le si rivolgeva: «Ritorna te stessa. Sii te stessa. Riscopri le tue origini. Ravviva le tue radici. Nel corso dei secoli, hai ricevuto il tesoro della fede cristiana. Esso fonda la tua vita sociale sui principi tratti dal Vangelo e se ne scorgono le tracce dentro le arti, la letteratura, il pensiero e la cultura delle tue nazioni. Ma questa eredità (…) è un progetto per l’avvenire da trasmettere alle generazioni future, poiché è la matrice della vita delle persone e dei popoli che hanno forgiato insieme il Continente europeo» (EiE 120).

Sulla linea di Ecclesia in Europa si pronuncerà anche Benedetto XVI e recentemente Papa Francesco. In un suo discorso del 2019, di fronte «al disegno di una globalizzazione immaginata come “sferica”, che livella le differenze e soffoca la localizzazione», dove «è facile che riemergano sia i nazionalismi, sia gli imperialismi egemonici», esortava alla «consapevolezza dei benefici apportati da questo cammino di avvicinamento e concordia tra i popoli intrapreso nel secondo dopoguerra» dall’Europa, per evitare «la minaccia del ricorso a conflitti armati ogni volta che sorge una vertenza tra Stati nazionali, come pure (…) il pericolo della colonizzazione economica e ideologica delle superpotenze, (…) la sopraffazione del più forte sul più debole». Allargando l’orizzonte sottolineava inoltre che «Lo Stato è chiamato ad una maggiore responsabilità (…) oggi è suo compito partecipare all’edificazione del bene comune dell’umanità, elemento necessario ed essenziale per l’equilibrio mondiale».

Un compito che è indubbiamente favorito dall’ispirazione cristiana che «può trasformare l’aggregazione politica,S.S. le Pape JEAN PAUL II culturale ed economica in una convivenza nella quale tutti si sentano a casa propria e formino una famiglia di Nazioni» (EiE, 121). A questo proposito, Giovanni Paolo II così esortava Europa: «Sii certa! Il Vangelo della speranza non delude! Nelle vicissitudini della tua storia di ieri e di oggi, è luce che illumina e orienta il tuo cammino; è forza che ti sostiene nelle prove; è profezia di un mondo nuovo; è indicazione di un nuovo inizio; è invito a tutti, credenti e non, a tracciare vie sempre nuove che sboccano nell’Europa dello spirito, per farne una vera casa comune dove c’è gioia di vivere» (Ibidem).

Esortazione quanto mai utile meditare oggi…




Gli anarchici bianchi: Nemici della democrazia democratica americana

31Douthat-mediumSquareAt3Xdi Mario Alexis Portella · Sin dall’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto bianco— atto di grande brutalità e non di razzismo—gli Stati Uniti d’America hanno subito un sisma nel loro ordine civile.

L’America si trova in uno stato di guerra civile culturale, difendendosi contro anarchici finanziati principalmente dal Black Lives Matter (BLM)—il BLM è un’organizzazione che sostiene di difendere i diritti dei neri americani, ed è anche sostenuto dall’Antifa, un movimento militante di bianchi di estrema sinistra che si definisce “antifascista” . Il BLM, però, non è altro che uno strumento terroristico dei marxisti in America. Approfittando della morte di Floyd, il BLM, insieme ai millenari bianchi, sono riusciti a creare una polarizzazione socio-politica caratterizzando gli Usa come un paese razzista. Il loro scopo, con la speranza di bloccare la rielezione del Presidente Donald Trump a novembre, è di sradicare i principi democratici sostituendoli con l’anarchia, ad esempio, cercano di eliminare la polizia nelle città con il movimento Defund the Police.

La violenza è la loro arma, come mostrato dai saccheggi violenti, le distruzioni di monumenti storici, ecc. E’ vero che alcuni monumenti demoliti erano di politici e generali degli Stati Confederati—quello non scusa le loro demolizioni—costruiti con il finanziamento del Partito Democratico durante le leggi di Jim Crow—leggi basato sulla teoria della supremazia bianca dopo la Guerra Civile (1861-1865) in quanto il razzismo fece appello ai bianchi che temevano di perdere il lavoro preso dai neri.

Questi anarchici, in gran parte bianchi, però, hanno anche distrutto monumenti di coloro che hanno lottato per l’uguaglianza umana, come quelli del Presidente Ulysses S. Grant—il generale dell’Unione che, combattendo per porre fine alla schiavitù, ha portato l’esercito del Nord alla vittoria contro gli Stati Confederati durante la guerra civile; quello del francescano chiamato “lApostolo della California”, il Venerabile fra Junipero Serra. Questi criminali hanno anche dissacrato i monumenti di Abraham Lincoln e dei soldati caduti durante la 2° Guerra Mondiale.

La vera doppiezza, però, del BLM è il rifiuto di affrontare la tragedia di quanti neri americani vengono uccisi da altri neri americani, come i gangsters neri nella città di Chicago.

Purtroppo, i legislatori di sinistra hanno inneggiato all’attuale guerra civile sottomettendosi ai capricci del BLM, come inginocchiandosi per chiedere il perdono per i crimini commessi da altri bianchi. Così la Speaker della Camera Nancy Pelosi, il Senatore Charles Schumer ed altri esponenti democratici hanno fatto, contemporaneamente indossando sciarpe di stile africano—molti neri americani detestano questo poiché si considerano (neri) americani e non “afro-americani”.Unknown

Le radici di questo conflitto

Tanti nei mainstream media e nell’ambiente politico accusano il Presidente Trump di razzismo—non c’è niente di vero in questo siccome lui ha lottato contro la discriminazione razziale per anni—e per spingere questo caos. L’attuale fenomeno, scoppiato sotto la sua amministrazione, avvenne anche durante il mandato Presidente Richard Nixon (1969-1974).

Nixon, nonostante la sua retorica pacifica durante la campagna elettorale, anche quella del suo primo discorso inaugurale, ha polarizzato la società statunitense invece di conciliarla. Ad esempio, lui accusava i suoi avversari di essere i nemici della democrazia, in particolare i manifestanti contro la guerra in Vietnam. Appellandosi alla sua cosiddetta “maggioranza silenziosa”, proprio come Trump ha fatto ogni tanto, Nixon si è presentato come il salvatore dei suoi. Il risultato fu un paese ancora più diviso.

Non c’è dubbio, quindi, che gli Stati Unit hanno avuto momenti difficili nella propria storia, tra cui la schiavitù—occorre sapere che anche i neri in America possedevano altri neri come schiavi fino alla Guerra Civile. Tuttavia, anche se il razzismo esiste ancora, l’America non è un paese istituzionalmente razzista. Anzi, è ancora l’unica nazione sulla terra capace di garantire la libertà di parola e di religione a tutti. Occorre che Trump, come capo del mondo libero, si renda conto che se lui non semina l’ordine, l’unità, il progresso e la pace, non sarà soltanto l’America che crollerà, ma il resto del mondo civile.




Una catechesi che sappia di Cristo. Il nuovo Direttorio

609126e1ac96e8a845f6e79e8e1fa14a_XLdi Francesco Vermigli · È stato presentato lo scorso 25 giugno il nuovo Direttorio per la catechesi. Esso si rivolge alla Chiesa dispersa in tutto l’orbe, ma è indirizzato in particolare a coloro che vivono la catechesi sul campo. È un testo importante. Innanzitutto perché viene a distanza di quasi venticinque anni dalla promulgazione del precedente, uscito il 15 agosto del 1997 (mentre il primo Direttorio catechistico postconciliare risale al 1971). Ma sono soprattutto l’architettura generale del testo e il principio formale del medesimo che rendono conto della sua rilevanza. Ne parleremo più avanti: prima vogliamo fermarci sulla presentazione che i media hanno dato del testo.

Nel leggere gli articoli che hanno dato la notizia dell’avvenuta promulgazione del testo abbiamo avvertito, per così dire, una specie di straniamento. I media hanno usato immagini assai evocative, nel momento in cui hanno sottolineato come il Direttorio faccia un invito grande ad “abitare la cultura digitale”. Così l’Agenzia SIR (vedi) e così anche Avvenire (vedi), solo per fare qualche esempio. La cosa è indubbia, e corrisponde ad una parte del capitolo VII del Direttorio. Ma come accade sempre quando ci troviamo davanti ad un testo, è necessario guardare ad esso con pazienza e rispetto, cercando di scovare nelle pieghe del discorso e nei segnali letterari il problema essenziale a cui il testo vuol rispondere; al di là di quello che ad una prima lettura può attrarre l’attenzione. Detto con più immediatezza, non sarebbe importante il testo, se il cuore del Direttorio si limitasse a rilevare l’inevitabilità dell’uso degli strumenti digitali per la catechesi; con la consueta messa in guardia poi circa il fatto che – al di sotto delle potenzialità di tali strumenti – si potrebbero nascondere rischi per il singolo e per la Chiesa.

Ci pare che il Direttorio non sia importante per questo. Iniziamo da un dato che potrebbe sfuggire, ma che ci introduce al punto centrale della questione. Con il motu proprio Fides per doctrinam meno di un mese prima dell’annuncio della propria rinuncia al ministero petrino (e cioè il 16 gennaio 2013), papa Benedetto XVI ha stabilito il trasferimento delle competenze circa la catechesi dalla Congregazione del Clero (che aveva prodotto i Direttori del 1971 e del 1997) al Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione. Si tratta di un fatto di grande significato, dal momento che la catechesi viene tolta dall’essere espressione dell’insegnamento che compete al ministero presbiterale, per diventare parte integrante di quel processo che impegna tutta la Chiesa dai tempi di Giovanni Paolo II: ad inverare, cioè, nella realtà di oggi la fede in Cristo. È un fatto capitale, che ci introduce al nocciolo della questione.

Il Direttorio – prima di analizzare le varie metodiche per la catechesi – coglie quest’ultima nel grande compito dell’evangelizzazione affidato dal Signore Gesù alla Chiesa. Prima di parlare di strumenti, cioè, il Direttorio parla di missione e di compito. E si ispira ad un passaggio mai sufficientemente considerato dell’Evangelii Gaudium che dice di come la nuova evangelizzazione prima che una prassi, è l’anima della catechesi. Così si legge in papa Francesco: «Quando diciamo che questo annuncio è “il primo” [il kerigma], ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra, in tutte le sue tappe e i suoi momenti» (EG 164, citato in particolare a Direttorio 68).giovani-in-ascolto

L’architettura generale del testo (al primo posto: La catechesi nella missione evangelizzatrice della Chiesa) segue questo principio formale: l’anima più interiore della catechesi, il compito suo più proprio è rinnovare in tutti i contesti la semplicità e la potenza del kerigma che racconta la persona di Cristo e la sua missione. La catechesi non viene dopo il primo annuncio; piuttosto quell’annuncio che ha scosso le coscienze duemila anni fa è il cuore più intimo della catechesi. Essa non è semplicemente una sovrastruttura edificata sopra l’annuncio sulla nascita, passione, morte e risurrezione di Cristo per la nostra salvezza. La catechesi, come ho provato a dire nel titolo di questo articolo, deve reimparare a sapere di Cristo. Deve saper comunicare ancora oggi la salvezza che porta Cristo nel mondo.

La catechesi se pensata nella missione evangelizzatrice della Chiesa più che una metodica è uno stile: lo stile del Signore Gesù e dei suoi primi discepoli. Lo stile che parla al cuore dell’uomo, alla sua vita, alle sue relazioni; e che parla in una maniera diversa per ciascuno, perché nasce dalla conoscenza personale dell’interlocutore. La salvezza di Cristo non è infatti essenzialmente adesione ad alcuni articoli di fede: essa è innanzitutto adesione di ciascun uomo, con la propria concreta esistenza, alla persona di Cristo. Così sia la catechesi.




Percorso vocazionale sulle orme di san Francesco

41f4hyh4MIL._SX303_BO1,204,203,200_di Giovanni Campanella · A metà del mese di marzo 2020, la casa editrice Pazzini ha pubblicato la quarta edizione di un libro intitolato Signore che cosa vuoi che io faccia. Lettura vocazionale della leggenda dei tre compagni, all’interno della collana “Absorbeat (Libri di spiritualità francescana)”. L’autore è padre Francesco Marchesi, frate minore. È stato impegnato per lunghi anni nell’animazione vocazionale e nella formazione.

«Ha ricoperto diversi incarichi di responsabilità all’interno della propria Provincia religiosa e si è dedicato alla predicazione di ritiri ed esercizi spirituali, specialmente alle clarisse, con una preferenza per gli Scritti di san Francesco e santa Chiara. Da 15 anni è parroco, prima a Reggio Emilia e attualmente a Bologna. Nell’esercizio del suo ministero ha prodotto diversi sussidi, alcuni dei quali pubblicati dalle Edizioni Dehoniane di Bologna» (quarta di copertina)

Il libro riporta il testo della Leggenda dei tre compagni, così come presente nel volume Fonti Francescane pubblicato a Padova nel 2011 dalle Editrici Francescane. È una delle biografie più note di san Francesco d’Assisi e si presta molto ad una lettura vocazionale. Infatti, ad ogni capitolo della Leggenda, padre Marchesi affianca una propria riflessione nella quale offre consigli utili e pratici per discernere la chiamata particolare che il Signore indirizza ad ogni giovane, traendo spunto proprio dalle vicende salienti del Santo assisiate e che via via sono analizzate lungo il libro.
Dopo la presentazione di Monsignor Pierbattista Pizzaballa (Amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini) e la premessa dell’autore, ci sono i diciotto capitoli della Leggenda, tutti accompagnati da una riflessione di Marchesi. Il tutto si conclude con alcuni salmi di taglio vocazionale, alcune preghiere di o comunque frequentemente recitate da san Francesco, alcune preghiere composte rifacendosi ad alcuni scritti di santa Chiara, altre preghiere di santi francescani e la preghiera di abbandono di Charles De Foucauld, non ufficialmente francescano ma spiritualmente assai vicino a san Francesco.download

Com’è facile intuire, il primo capitolo tratta della nascita di Francesco e presenta il suo ambiente, il suo carattere, la sua famiglia. Marchesi prende spunto da questi elementi per evidenziare che il discernimento vocazionale non è affatto una speculazione astratta, scissa dalla realtà: è nei fatti un processo assai “incarnato”, strettamente ancorato alla realtà, con buona pace di coloro che accusano il cristianesimo di essere lontano dal concreto. Infatti, per ognuno di noi, è nella famiglia e nel carattere che si innesta la chiamata del Signore. All’inizio, Francesco era molto attaccato a raffinatezze e vanità mondane; tuttavia aveva di partenza un cuore generoso. Lavorare sulla generosità e su certe virtù spontanee e naturali è un primo importantissimo gradino dell’itinerario di scoperta della propria vocazione.

«Qualunque sia l’ambiente e il carattere, la vocazione trova un terreno adatto nel quale crescere e svilupparsi, se c’è la generosità, cioè l’apertura agli altri, l’attenzione e la sensibilità verso gli altri, specialmente i più poveri. Se non c’è la generosità difficilmente si può parlare di vocazione. Se invece c’è la generosità si possono superare più facilmente le conseguenze negative dell’ambiente e del carattere. Tuttavia la generosità deve essere coltivata attraverso l’esercizio e la riflessione, così come può e deve essere lavorato il carattere.
Anche le eventuali conseguenze negative dell’ambiente, con l’aiuto della grazia di Dio, di una guida spirituale e di un gruppo, possono diventare dei “gradini” per giungere a Dio. L’essenziale è accettare sé stessi, fisicamente e come carattere, accettare la propria famiglia e la propria storia.» (p. 16)

Alla fine di ogni tappa, ci sono delle domande per aiutare il cammino di discernimento. Così, alla fine del summenzionato primo capitolo, tra le domande c’è: «Ti conosci? Conosci i tuoi difetti e le tue qualità?».Questo libro può essere una buona bussola, soprattutto in questo tempo in cui gli interrogativi di senso sono tanti e grandi.




A venticinque anni dalla «Ut Unum Sint» e a sessanta dalla fondazione del Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei Cristiani

71IX05Wn1ILdi Dario Chiapetti · Nei due mesi scorsi sono state celebrate due ricorrenze altamente significative per il cammino ecumenico della Chiesa cattolica. Il 25 maggio 2020 è ricorso il venticinquesimo anniversario della firma dell’enciclica di Giovanni Paolo II Ut Unum Sint, sull’impegno ecumenico. Per l’occasione, Papa Francesco ha indirizzato una sentita lettera al Card. Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei Cristiani. Lo scorso 5 giugno è ricorso invece il sessantesimo anniversario della fondazione del Segretariato per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ad opera di Giovanni XXIII, divenuto poi nel 1988 Pontificio Consiglio. Per l’occasione il Card. Koch ha rilasciato una densa intervista a Vatican News in cui ha ripercorso con lucidità le tappe del cammino ecumenico fin ad oggi svolto, riflettendo sulle prospettive future. Non hanno fatto mancare il loro contributo, in altre interviste alla suddetta testata, neanche il Segretario, Sua Eccellenza Mons. Brian Farrell, e il Sottosegretario Mons. Andrea Palmieri. Di seguito presento i contenuti principali di questi interventi.

Papa Francesco ha ricordato come Wojtyla abbia confermato con l’Ut Unum Sint l’impegno ecumenico in modo “irreversibile”, facendo propria la visione conciliare espressa da Unitatis Redintegratio secondo cui il movimento ecumenico è «sorto per grazia dello Spirito Santo», quello Spirito Santo che – come ricorda Bergoglio che egli ebbe a dire ad Istanbul nel 2014 – è il solo che può suscitare la diversità nell’unità. D’altro canto, il Pontefice ha affermato di condividere «la sana impazienza di quanti a volte pensano che potremmo e dovremmo impegnarci di più». Francesco ha poi espresso apprezzamento per due iniziative promosse dal Pontificio Consiglio. La prima è l’imminente pubblicazione di un Vademecum ecumenico per i Vescovi, volto a sensibilizzare alla responsabilità propriamente ecumenica del ministero vescovile. La seconda è la pubblicazione della rivista Acta Œcumenica che intende promuovere e divulgare una corretta informazione sull’attività ecumenica della Chiesa. L’unità, conclude il Pontefice argentino, in quanto dono dello Spirito, ci chiede di camminare, fin da ora, giacché essa «non verrà come un miracolo alla fine: viene nel cammino». Da qui l’accorata preghiera affinché lo Spirito «ispiri nuovi gesti profetici e rafforzi la carità fraterna tra tutti i discepoli di Cristo, “perché il mondo creda”».

Il Card. Koch, rievocando gli esordi della fondazione del Segretariato per la promozione dell’Unità dei Cristiani, ha sottolineato i tre pilastri che danno forma all’ecumenismo: il dialogo della carità, ovvero « la cura nel mantenere relazioni amichevoli tra le diverse Chiese», il dialogo della verità, ovvero «l’analisi teologica delle questioni controverse che hanno portato a divisioni nel corso della storia», e l’ecumenismo spirituale, ovvero «l’adesione1477558828865 profonda e concorde di tutti i fedeli alla preghiera sacerdotale di Gesù, affinché “tutti siano una cosa sola”». Purtroppo, l’unità – ha scandito il porporato – non è stata raggiunta, e ciò rivela che occorre trovare una visione comune sulla forma che essa deve acquisire. In tal senso l’ecumenismo come «scambio di doni» – come spesso è stato definito – è un primo imprescindibile passo. Koch afferma infatti che «dalle Chiese e dalle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma la Chiesa cattolica ha imparato soprattutto la centralità della Parola di Dio», «dalle Chiese ortodosse […] possiamo imparare molto sulla sinodalità nella vita della Chiesa e sulla collegialità dei vescovi […] e la Chiesa cattolica può offrire come dono speciale alla discussione ecumenica l’enfasi posta sull’universalità della Chiesa». Egli ha ricordato poi che con l’Ut Unum Sint, la prima enciclica sull’ecumenismo, da un lato, «tutti i membri della Chiesa sono tenuti per fede a partecipare al movimento ecumenico», dall’altro, che l’obiettivo centrale è quello «di trovare una forma di esercizio del primato “che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”».

Anche il Segretario Farrell ha posto l’attenzione, in particolare, sul fatto che occorre «far sì che tutti si sentano impegnati nella ricerca dell’unità voluta non dal Papa o dai teologi o dai vescovi, ma dal Signore», e che perciò occorre un «nuovo atteggiamento, un’apertura verso le altre Chiese», un profondo cambiamento delle «nostre mentalità di autosufficienza o a volte anche, in un certo senso, di superiorità, per imparare dagli altri».

Il Sottosegretario Palmieri, infine, ha sottolinea l’importanza di quell’accogliersi nella reciproca diversità che coinvolge e dà impulso alla riflessione teologica; ha affermato, infatti, che «non possiamo avere in mente un modello di unità, ma esso lo troveremo insieme nel dialogo reciproco insieme con gli altri cristiani». In tal senso, rifacendosi a Papa Francesco, ha ribadito che occorre aprirsi a quel riconoscimento dell’unità come a «qualcosa che già viviamo» e che ci fa «riscoprire questa comunione che ci lega» fino al desiderio di «renderla sempre più evidente, sempre più concreta nelle relazioni reciproche». L’ecumenismo è un «cammino veramente spirituale» che porta a riconoscere l’altro, non come nemico, ma come fratello, e deve coinvolgere «la vita delle comunità cristiane». Ciò non toglie il fatto che per il cammino ecumenico ricopre un posto imprescindibile la teologia, come nel caso della Commissione mista per il dialogo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa che dal 1979 ha dato molti frutti.

Ciò che emerge da questi preziosi interventi, mi pare, è la proposta dell’ecumenismo come cammino spirituale di ogni cristiano e del coinvolgimento delle comunità cristiane nel cammino ecumenico, due strade concrete per procedere in spirito rinnovato e appassionato nell’ecumenismo, proposta che non esclude, anzi rilancia (o, almeno in parte, rifonda), lo studio e il metodo teologico. Infatti, il punto è: qual è/come è la mente che pensa e applica la dottrina? I due suddetti aspetti devono essere presi in seria considerazione innanzitutto dai pastori nel ripensare il modo di esercitare il ministero della predicazione, della catechesi, del confessionale e la pastorale in generale. Quanto le omelie e le catechesi sono strutturate ecclesiologicamente, e in quel modo che esplicita il senso ontologico ed esistenziale dell’ecclesiologia, e non da uno psicologismo individualista? Quanto ispira la predicazione – e l’azione pastorale! – una cristologia pneumatologica il cui contenuto è il principio secondo cui la nozione di diversità è costruita su quella di unità? Quanto il penitente avverte come condanna alla non pienezza della sua esistenza, la non unità della Chiesa? Quanto il confessore sente capitale aprire al penitente, per la sopravvivenza di questi, tale orizzonte di comprensione di sé? Quanto le comunità sono preghiera per l’unità della Chiesa? Quanto vivono, e sono educate a vivere, l’Eucaristia come preghiera dell’unica Chiesa e invocazione della riconciliazione, per poter celebrare e sperimentare pienamente l’«a te, Dio Padre onnipotente»? Quanto nelle comunità è promossa quella conoscenza e collaborazione con i cristiani di altre confessioni e, di pari passo, quella presa di consapevolezza di essere comunità cristiana in quanto manifestazione, nella comunione con gli altri cristiani, della Chiesa universale?

Solo dalla considerazione della proposta dell’ecumenismo come cammino spirituale di ogni cristiano che coinvolge tutte le comunità cristiane potrà nascere quella nuova creatura e quella nuova forma di pensiero teologico, propriamente pneumatizzato, di un’ontologia, vissuta, di comunione e alterità che coglierà più appieno quella verità tutta intera, che farà liberi.




La Scuola umiliata. Dopo troppe riforme sbagliate

Conte-Azzolinadi Antonio Lovascio · Al di là dei proclami (l’ultimo: “Basta con le classi pollaio”) è stato un affannoso e penoso procedere a “zig zag”. Così si sta preparando la riapertura della Scuola per il 14 settembre, dopo la sofferta e interminabile paralisi da Covid. Un distanziamento fisico che per gli allievi ha avuto effetti devastanti sul piano cognitivo, relazionale, emotivo, con alcune conseguenze negative pure in termini di aumento delle diseguaglianze e dei rischi di dispersione scolastica. Le “linee guida” della ripartenza,di fatto, scaricano responsabilità su Regioni, presidi, insegnanti. Con un milione di studenti (il 15 per cento) che ancora non sanno dove verranno sistemati (all’inizio nei parchi e poi nei cinema ?) mancando spazi negli Istituti e con il 40 per cento degli edifici non a norma.

Per calmare la piazza e l’ira di genitori, dirigenti e docenti esasperati, non è bastato annunciare 50 mila nuove assunzioni di personale (ma ne servirebbero 100 mila per affrontare i “doppi turni”), con un bonus per gli insegnanti dagli 80 ai 100 euro, agendo sul cuneo fiscale, e con un programma di formazione. In un Sistema educativo integrato, si continua però a sfavorire le Paritarie e Private, molte delle quali saranno costrette a chiudere.

Se per la gestione complessiva dell’improvvisa e sconosciuta emergenza sanitaria la “squadra” di Conte tutto sommato merita la sufficienza, dall’inizio della “Fase 2” sta mostrando troppa improvvisazione e scarsa concretezza, pur essendosi avvalsa dei suggerimenti di task-force composte da fior di manager, professionisti ed intellettuali. Indicazioni non recepite in tempo e nella loro portata soprattutto dalla ministra grillina Lucia Azzolina, trentottenne siciliana di belle speranze ma con scarsissima esperienza di insegnamento, che nella rapidissima scalata politica ha fatto valere più la conoscenza del diritto scolastico e sindacale che lo spessore e la continuità della titolarità di cattedra. Insomma una responsabile della Pubblica Istruzione “precaria” in tutti i sensi (in perenne balia, come i personaggi delle “Canne al vento” di Grazia Deledda) che alla fine ha fatto apparire un ruolo del tutto marginale della Scuola, declassata a emergenza secondaria, anzi a ultima delle emergenze. Purtroppo la spia di un Governo che al momento non ha alternative, ma dal pensiero corto, privo di una visione organica di prospettiva, molto più preoccupato – nonostante le raccomandazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – della tattica dell’annuncio ad effetto piuttosto che del destino complicato da immaginare per il nostro Paese. Ma sul banco degli imputati, con la Azzolina, il presidente del Consiglio Conte ed i responsabili dei dicasteri di maggior peso, vanno messi i segretari dei partiti di maggioranza ed anche quelli dell’opposizione, con Salvini e la Meloni più preoccupati di cavalcare il disagio sociale per ottenere nuovi consensi elettorali che di formulare proposte concrete, prioritarie, sostenendo – pur criticamente – l’esecutivo nella difficile trattativa con l’Europa per lo stanziamento immediato dei contributi e prestiti promessi per rilanciare l’economia e far fronte a strutturali carenze che da anni frenano la crescita.

Una negligenza collettiva, dunque, che stride con il corale plauso che dai due schieramenti parlamentari si è elevatoWhatever it takes_1 nei giorni scorsi nell’apprendere che il “Codice Draghi” (quel “whatever it takes”, tutto quello che è necessario; oppure: “costi quel che costi”) è entrato tra le voci definitive del dizionario Treccani. Con quelle tre parole in inglese, pronunciate con toni fermi il 26 luglio 2012 in una Londra ostile, l’allora presidente della Banca centrale europea salvò l’euro dalla tempesta perfetta che stava per abbattersi sull’Italia e sui Paesi più deboli. Come hanno osservato molti commentatori, ora sarebbe bastato applicare il “Codice Draghi” alla Scuola (invece le hanno attribuito meno risorse dell’ennesimo salvataggio Alitalia) , tenendo conto dell’interesse delle famiglie, dei diritti e bisogni di bambini e ragazzi, con una più equa ripartizione dei fondi giustamente dedicati a rafforzare il sistema sanitario e a colmarne le deficienze dopo anni di tagli indiscriminati e scelte sbilanciate. Senza però penalizzare l’Istruzione, che pure necessita di profondi e radicali interventi a tutti i livelli, non solo per far fronte alle esigenze di distanziamento fisico legate al Coronavirus, ma per ripensare i modi e l’organizzazione della didattica, dopo troppe riforme sbagliate.

Questo procedere sempre in ritardo, senza un articolato programma di investimenti – a più riprese lo ha fatto opportunamente notare Chiara Saraceno ,tra i massimi esperti di sociologia della famiglia a livello internazionale – segnala con chiarezza come la Scuola e la Ricerca non siano una priorità – insieme al Lavoro ed alla Sanità – né per il governo né per la politica in generale. <Nulla di nuovo, anzi del tutto normale, ahimè. Questa è l’unica normalità della scuola che non è stata scalfita dalla pandemia. Come se si ritenesse che il Paese possa riprendersi senza investire nelle generazioni più giovani>. Il futuro sono loro.