Presentazione degli articoli del mese di maggio 2021

Andrea Drigani rivolge l’attenzione su Igino Giordani (1894-1980), attraverso la recente biografia di Alberto Lo Presti con la prefazione di Sergio Mattarella, un cristiano «ingenuo», cioè libero ma della libertà dei figli di Dio. Giovanni Campanella presenta la vita del padre giuseppino Ettore Cunial, con il libro di Carmelo La Rosa, assassinato venti anni fa in Albania, del quale è iniziata la causa di beatificazione. Gianni Cioli offre alcune considerazioni sulla vocazione sacerdotale, da collocarsi nella vocazione cristiana (cioè battesimale), e in quella umana, nell’ordine della Creazione, anche per quanto attiene la sessualità. Carlo Parenti annota sul rapporto di Amnesty International sulle ulteriori violazioni dei diritti umani dopo il covid-19, che hanno aggravato ingiustizie e diseguaglianze. Alessandro Clemenzia dalla scomparsa del teologo svizzero Hans Küng trae spunto per alcune considerazioni sul rapporto tra Chiesa e sinodalità. Stefano Liccioli introduce alla maratona di preghiera indetta dal papa per chiedere la fine della pandemia, rilevando che non è una trattativa paganeggiante, bensì un immergersi nella relazione con Dio. Francesco Romano coglie di nuovo l’occasione del 200° anniversario della morte di Napoleone Bonaparte, per considerare il suo ruolo nella storia del diritto, con la promulgazione del Codice Civile, che ha determinato la cultura giuridica dell’Europa continentale. Carlo Nardi richiama, ancora una volta, il pressante, e sempre attuale, invito del Venerabile Cardinale Elia Dalla Costa per il catechismo degli adulti, per divenire santi con la bontà divina. Antonio Lovascio evidenzia la preoccupante situazione internazionale con la competizione tra le grandi potenze, che non favorisce la pace e lo sviluppo dei popoli. Giovanni Pallanti fa memoria di Gaetano Salvemini (1873-1957), un intellettuale estraneo alla Chiesa, che ebbe stima grandissima e ammirazione per tre cattolici: Don Luigi Sturzo, Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari. Dario Chiapetti recensisce la prima traduzione in lingua italiana del saggio «Cristo nel mondo» di Sergei Bulgakov (1871-1944) sull’umiliazione (svuotamento) del Cristo che continua nella sofferenza umana, che è innalzamento (Gloria). Mario Alexis Portella esprime le sue preoccupazioni per la partenza delle truppe USA dall’Afghanistan che rischia da rafforzare il potere dei talebani con le gravi violazioni dei diritti umani. Francesco Vermigli introduce alla comprensione delle benedizioni, da intendersi come preghiera e invocazione che si rivolge a Dio perché guardi e guardi a ciò che ci sta a cuore e lo custodisca. Leonardo Salutati rammenta la storia delle crisi finanziarie mondiali che si si ripetono per la cupidigia di ingiusti guadagni, già riprovata dalla dottrina sociale della Chiesa. Stefano Tarocchi con il testo di Andrea Riccardi riflette sulle gravi criticità del cristianesimo contemporaneo, simboleggiate dall’incendio di Notre-Dame, rilevando, tuttavia, che se una chiesa brucia, non brucia la Chiesa. Nella rubrica «Coscienza universitaria» si commenta l’intervento dell’arcivescovo Vincenzo Paglia al Congresso Nazionale della FUCI sugli aspetti etici dell’innovazione digitale.




Gaetano Salvemini (1873-1957) e gli antifascisti cattolici

di Giovanni Pallanti · Gaetano Salvemini (1873-1957) professore di storia moderna all’Università di Firenze, fu interventista e combattente nella Prima guerra mondiale. Eletto deputato per gli ex combattenti di sinistra, dopo il delitto Matteotti (1924) diventò un durissimo avversario della nascente dittatura fascista. Salvemini sin dal 1920, appena nati i fasci di combattimento fondati da Mussolini nel 1919, fu avversario del duce del Fascismo. Nel 1925 fu cacciato dagli studenti fascisti e dalla viltà dei professori dall’insegnamento nell’ateneo fiorentino. 

Fu costretto ad andare in esilio: Parigi, Londra e negli Stati Uniti. Di questa esperienza fu pubblicato dall’editore Feltrinelli, nel 1960, dopo la morte di Salvemini, il suo libro <Memorie di un fuoriuscito>. Soprattutto a Parigi la vicenda dei fuoriusciti fu drammatica, essendo infiltrati da spie dell’Ovra. Addirittura la polizia segreta fascista era riuscita a coinvolgere degli esuli antifascisti nelle sue devastanti azioni contro gli oppositori del regime. A Parigi, Carlo Rosselli fuggito dal confino nell’isola di Lipari con Fausto Nitti ed Emilio Lussu, fondò con questi <Giustizia e libertà>, a cui aderì il Salvemini. 

Il professore dell’Università di Firenze ormai esule, incontrò delle figure significative dell’antifascismo cattolico, anch’essi rifugiatisi all’estero: fra questi don Luigi Sturzo, a Londra, Giuseppe Donati, a Parigi, e Francesco Luigi Ferrari, a Bruxelles. Di Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare italiano, Salvemini ricorda la dirittura morale, la lucidità intellettuale e la grande passione civile, con cui dall’esilio si batteva contro il fascismo. Salvemini era un noto anticlericale, anche se di civilissima educazione. E nel libro ricorda come Sturzo, disponibile ad affrontare ogni argomento chiedeva cortesemente di non entrare in dispute teologiche sull’esistenza di Dio e argomenti trascendentali, che avrebbero guastato la cordiale e intensa amicizia che nacque fra Salvemini e il prete siciliano, che dopo la Seconda guerra mondiale fu nominato dal presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, senatore a vita. 

Di Francesco Luigi Ferrari, Salvemini ricorda la grande cultura e il suo cristallino spirito democratico ed antifascista. Francesco Luigi Ferrari fu uno degli intellettuali cattolici che fu contrario al concordato fra Stato e Chiesa, firmato da Mussolini e dal cardinale Gasparri, l’11 febbraio 1929. Ma i ricordo più commovente riguarda Giuseppe Donati, che Sturzo nominò direttore de <Il Popolo>, organo del Ppi. Donati accusò Italo Balbo di essere il mandante dell’omicidio del parroco di Argenta, don Giovanni Minzoni ed Emilio De Bono, responsabile dell’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Costretto a lasciare l’Italia, questo antifascista cattolico, valoroso combattente nella Prima guerra mondiale, decorato di medaglia d’argento al valor militare, continuò al fianco di Salvemini a contrastare il regime mussoliniano. Fondò in Francia il giornale <Il corriere degli italiani>, dove ospitò gli scritti di Salvemini sulla sua cacciata dall’Università di Firenze ad opera dei fascisti. Purtroppo nella redazione del Corriere degli italiani, si infiltrò una spia dell’Ovra creduto un antifascista cristallino. Questo fatto turbò profondamente Giuseppe Donati e la sua collaborazione con Salvemini. Ma l’impegno intellettuale, politico, e l’impegno di Donati in Italia e all’estero contro il fascismo, non poteva oscurare più di tanto l’amicizia e la stima fra lui e Salvemini. 

Quando Donati morente chiese di incontrare Salvemini, egli si precipitò nel suo alloggio nel 1931, dove lo trovò ormai morto. Scrive Salvemini: <Mi precipitai a casa sua. Lo trovai che era già morto. Anche oggi non posso pensare a quell’uomo disteso sul letto di morte, che mi era stato carissimo, senza che mi si formi in gola un nodo di pianto. Quanti uomini di prim’ordine consumati in una lotta senza profitto per nessuno, in un Paese che non ha abbastanza di valori umani!>. 

Gaetano Salvemini in questo libro ha testimoniato la grandezza morale e l’impegno di uomini politici e di intellettuali cattolici che non si piegarono né al filofascismo di gran parte della Chiesa né alla real politik che portò al Concordato fra Stato e Chiesa nel 1929. Esempi da non dimenticare. 




Usa, Russia e Cina: ritorno alla «Guerra fredda»?

di Antonio Lovascio · Il divieto di ingresso in Russia al presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, alla vice presidente per i valori e la trasparenza della Commissione Vera Jourova e ad altri sei funzionari Ue. La “spy-story” sull’asse Mosca-Roma, con l’espulsione di diplomatici e militari dell’ambasciata nella nostra capitale, sono state solo le ultime avvisaglie, servite ad alzare la soglia di attenzione in Italia e in Europa. Ma i segnali che ci troviamo sull’orlo – se non già dentro – di una nuova “Guerra Fredda” erano già stati fin troppo evidenti. Dalle polemiche sul caso del dissidente Navalny (gravissimo in carcere) e la continua violazione dei diritti umani da parte di Putin, un “killer” nella definizione del neopresidente americano Biden; al tentativo di rivoluzione colorata in Bielorussia. Passando per le sanzioni economiche annunciate dagli USA contro Russia e Cina fino ad arrivare al recente riaccendersi della tensione militare in Donbass con l’Ucraina utilizzata come carne da cannone.

Papa Francesco è preoccupato per questa “escalation” mentre tutto il mondo soffre la tragedia del Covid. Ed ha affidato al suo Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, il compito di seguire i “dossier” su tutti i “teatri“ dove si manifestano conflitti, ricordando che “è una grande sfida mantenere l’equilibrio della pace”. Per questo il Vaticano sollecita le Grandi Potenze al dialogo. Dialogo – è in sintesi il pensiero di Bergoglio – non significa che si finisce con un compromesso, mezza torta a te e l’altra mezza a me: questo è quello che è accaduto a Yalta e abbiamo visto i risultati. “ No, dialogo significa camminare insieme”. Non minacciare gli altri di ricorrere addirittura, per far prevalere i propri interessi commerciali e geopolitici, all’uso della forza nucleare.

Sappiamo quanrto l’esito disastroso delle avventure militari in Afghanistan e in Iraq abbia lasciato il segno negli USA. Joe Biden sta delineando la nuova politica estera americana del dopo Trump. Mano tesa agli alleati occidentali, a partire dalla Germania e dall’Italia, e “linea dura contro i regimi autoritari”, come Russia e Cina, che

hanno sempre più accentuato le loro mire espansionistiche. Putin, benché abbia gravi problemi interni, ha ripreso a giocare – spesso affiancato dalla Turchia di Erdogan il “dittatore”, secondo Draghi – un ruolo importante, invasivo in Medio Oriente, nello Yemen, in Libia e nel Mediterraneo, senza riuscire a fermare i flussi migratori; senza muovere un dito contro il terrorismo islamico, ancora devastante in Iraq, Siria, Pakistan, in Nigeria e negli gli stati dell’Africa subsahariana. Mentre Pechino si è affermata come gigante economico con notevoli ambizioni militari e spaziali, e ora tenta di allargare il suo orizzonte marino con azioni di prepotenza, minacciando al contempo l’indipendenza di Taiwan. Tutto ciò preoccupa Washington, che cerca di coinvolgere in queste dispute la Nato, la quale purtroppo ogni giorno scopre il protagonismo ambiguo e pericoloso del suo “tallone d’Achille”, Ankara appunto.

E’ una nuova fase di competizione tra i tre Grandi. Una situazione indubbiamente esplosiva, che giustamente preoccupa il Vaticano. Anche perché le conseguenze della pandemia di Covid-19, nonostante il tanto atteso arrivo del vaccino, si protrarranno a lungo sull’economia e la sanità mondiale, il che non farà che accentuare le crisi migratorie, alimentari, energetiche e climatiche che minacciano gli equilibri politici e militari del pianeta già da decenni. Per questo Papa Francesco, oltre che invocare la fine di questa “guerra combattuta a pezzi”, non si stanca di indicare “la cultura della cura come percorso di pace”. Si rivolge a Capi di Stato e spirituali di ogni religione, ai fedeli di buona volontà e, ovviamente, alle istituzioni internazionali perché venga abbracciato dall’intera umanità uno spirito di fratellanza che prenda il concetto di “cura” come spinta alla cancellazione delle disuguaglianze civili, economiche, sanitarie. È fondamentale, secondo Bergoglio, che tutto il mondo non sprechi l’occasione di dimostrare che per qualsiasi Stato è doveroso il rispetto dei diritti umani, che “misure adeguate garantiscano a tutti l’accesso ai vaccini” e che gli investimenti sulle armi vengano riconvertiti in risorse “per eliminare definitivamente la fame e contribuire allo sviluppo”.




Benedire. Opera di Dio, opera dell’uomo

di Francesco Vermigli · La benedizione è un atto che viene frequentemente compiuto tanto dalla Chiesa nel suo complesso, quanto dal singolo credente. Quando è un atto di colui che appartiene alla Chiesa, esso trova il proprio fondamento nel sacerdozio battesimale, che per il credente è come il presupposto della possibilità stessa di benedire (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1669). Quando è un atto che implica più direttamente la vita ecclesiale e sacramentale, la benedizione acquista una dimensione rituale via via più accentuata; legandosi sempre più al sacerdozio ministeriale (Ibidem). In entrambi i casi, la benedizione è un’opera dell’uomo o della Chiesa – assemblea dei credenti – che scende su persone, situazioni, oggetti, luoghi. Eppure non si può in alcun modo dimenticare che la benedizione è un’opera che innanzitutto coinvolge Dio: che ha Dio, cioè, alla propria origine.

Prima di tornare a vedere quale sia il senso della benedizione dal punto di vista degli uomini, ci chiediamo: che significato ha invece essa dal punto di vista di Dio? Innanzitutto notiamo come l’atto stesso della creazione sia una benedizione: ciò che non è, viene all’essere; ed è dunque questo stesso atto creatore una benedizione per tutto ciò che viene all’esistenza. Il libro della Genesi si apre con il primo racconto della creazione che può essere letto come un racconto di benedizione: la benedizione di Dio è implicita nella ripetizione della formula “e Dio vide che era cosa buona”. È invece esplicita a Gen 1,22 (sugli animali), a Gen 1,28 (sull’uomo e sulla donna che sono stati creati) e a Gen 2,3 (sul settimo giorno).

E quello che accade con la creazione, accade nondimeno nel tempo, nella storia della salvezza. Ogni opera che Dio compie nel tempo, è un’opera di benedizione; perché si tratta di un’opera salvifica, dal momento che reca il bene all’uomo. Così, solo per fare un esempio, recita il salmo: «Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion. Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita! Possa tu vedere i figli dei tuoi figli! Pace su Israele!» (Sal 128,4-6). La benedizione si invoca sugli altri, come l’augurio più grande che si possa fare ad un uomo. La benedizione è la presenza di Dio che si chiede per coloro a cui si vuole bene. E coinvolge un popolo («Pace su Israele!»): perché la benedizione non si può fermare alla realtà familiare, sulla quale il salmo pure la invoca in prima battuta.

La benedizione però più grande per l’uomo è Cristo. Egli si direbbe è la benedizione di Dio in persona. Perché Cristo è la presenza di Dio tra gli uomini. Ne è cosciente la Lettera agli Efesini, quando nel celebre inno cristologico del primo capitolo afferma: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1,3). Gli uomini sono benedetti in Cristo con una benedizione spirituale, che ha la sua origine, la sua matrice in cielo. Se la benedizione di Dio indica la presenza di Dio nel mondo e lo sguardo che Dio rivolge all’uomo, allora quale grande benedizione è che il Figlio Unigenito di Dio, proprio Lui che era nel seno del Padre, sia divenuto carne?

L’inno della Lettera agli Efesini ci apre però anche ad altre considerazioni. Colui che benedice, è anche colui che dobbiamo benedire. “Benedetto sia Dio” perché “ci ha benedetti”. Poiché nella creazione e nella storia della salvezza facciamo esperienza del fatto che l’opera di Dio è una benedizione, proprio per questo Colui che è la fonte di ogni benedizione, diventa anche Colui che viene benedetto. Benedictus benedicat, secondo una celebre formula di benedizione: “Benedica, Colui che è il Benedetto”.

Per un ultimo nostro passo, torniamo all’argomento con cui abbiamo iniziato: ma ora sapendo che la benedizione che impartisce la Chiesa o che mette in atto il singolo credente non si può fermare al gesto rituale. La radice più profonda, la fonte ultima di ogni benedizione è infatti in Dio e nella sua benevolenza. In altre parole, la benedizione della Chiesa o del singolo è fatta di gesti, di parole; ma ha un senso solo se intendiamo questi gesti e queste parole alla luce della benedizione che Dio ha manifestato nella creazione e attraverso il tempo fino al compimento della benedizione che è Cristo.

La benedizione che i singoli battezzati e la Chiesa impartiscono su persone, situazioni, oggetti, luoghi è innanzitutto un’invocazione e una preghiera. L’invocazione e la preghiera che si rivolge a Dio perché guardi a ciò che ci sta a cuore e lo custodisca, perché mostri la sua benevolenza, perché rivolga il suo sguardo e la sua misericordia e doni il dono della pace (cf. Num 6,22-26).

La benedizione: opera dell’uomo che invoca nel mondo la benedizione di Dio.




«Fu vera gloria?». Da Ajaccio a S. Elena come in un baleno

di Francesco Romano • Una frase giunta fino a noi, di cui però non esiste riscontro storico, è stata attribuita a Napoleone che nel 1806 avrebbe rivolto al segretario di Stato Card. Ercole Consalvi nella circostanza dell’arresto e della deportazione in Francia di Papa Pio VII: “In pochi anni, io avrò distrutto la Chiesa”, al che il Cardinale risponde “No, Maestà! non ci siamo riusciti noi preti a distruggerla in 17 secoli. Non ci riuscirà neppure lei”.

Napoleone nasce ad Ajaccio il 15 agosto 1769. A nove anni viene ammesso alla prestigiosa scuola militare di Brienne-le-Château grazie all’attestato notarile redatto dal cugino Moccio Bonaparte, notaio di Empoli, con cui può dimostrare di possedere i quattro quarti di nobiltà per i legami familiari dei Bonaparte còrsi con quelli di San Miniato al Tedesco in provincia di Pisa, all’epoca diocesi di Lucca, dove vive un suo zio il canonico Filippo Bonaparte. Un altro ramo dei Bonaparte còrsi fa ascendere la propria origine ai Bonaparte ghibellini di Firenze, da dove furono cacciati negli anni delle lotte contro i guelfi trovando rifugio a Sarzana, terra di esilio di tanti fiorentini del due-trecento, tra cui anche Dante. Solo dopo la morte del padre Carlo, Napoleone cambia il cognome Buonaparte in Bonaparte che lo rende foneticamente più vicino alla lingua francese.

La parabola che ha portato Napoleone al vertice della sua gloria vedrà un rapido declino. Con la vittoria sull’Austria, il 17 maggio 1809 Napoleone decreta l’annessione dello Stato Pontificio all’Impero francese. Dopo poche settimane Pio VII viene arrestato e portato prima in Francia e poi a Savona prigioniero di Napoleone Bonaparte. Il collegio dei cardinali è portato a Parigi e poi disperso in diverse città francesi. Lo Stato Pontificio viene suddiviso in dipartimenti e governato alla maniera francese, la Curia romana è sciolta.

Di ritorno dalla disastrosa campagna di Russia e la storica battaglia della Beresina del 1812, Napoleone fa trasferire il Papa a Fontainebleau, ma ormai si avvicina la sua fine, il 31 marzo 1814 viene sconfitto nella Battaglia di Parigi e il 6 aprile abdica. Il 24 maggio 1814 Pio VII ritorna a Roma, mentre il Card. Consalvi ha un ruolo centrale al Congresso di Vienna nell’elaborare una strategia diplomatica di pacificazione tra le varie nazioni europee. Al contrario, la sorte di Napoleone vede un capovolgimento ed è costretto all’esilio sull’Isola d’Elba dove sbarca il 4 maggio 1814, trasformata per lui in principato. Il 20 marzo 1815 Napoleone riconquista la Francia per cento giorni, ma il 18 giugno viene sconfitto a Waterloo ed esiliato sull’Isola di S. Elena dove muore il 5 maggio 1821.

Come a ogni progetto di Napoleone seguiva rapida la sua realizzazione, la stessa parafrasi “di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno” potrebbe essere descrittiva della pari rapidità con cui egli ha conosciuto la gloria e la caduta.

La frase rivolta da Napoleone al Card. Consalvi potrebbe essere stata coniata a uso apologetico, ma si presta bene anche a una lettura ambigua che accentui il mito della sua grandezza, come a significare che nessuna potenza umana sarà in grado di fronteggiare la potenza e la gloria di questo uomo e del suo impero senza l’assistenza dall’Alto di cui solo la Chiesa può beneficiare fin dalla sua origine e che la rende inespugnabile.

Di fatto il crollo di una potenza, tanto esaltata quanto odiata, creata da Napoleone imperatore dei Francesi (1804) e re d’Italia (1805), che ha segnato soprattutto negli ultimi dieci anni le sorti dei popoli d’Europa, non può essere consegnata alla penna di una riduttiva aneddotica postuma. Al contrario questo personaggio non a caso è riuscito a ispirare la letteratura europea del XIX secolo come Stendhal, Hugo, Tolstoj, Dostoevskij, Manzoni, Sainte-Beuve, Chateaubriand.

A Napoleone si deve la modernizzazione dello Stato introducendo grandi riforme nell’amministrazione, nell’ordinamento scolastico, in quello militare creando soldati di mestiere a lunga ferma. Egli contribuisce a incrinare il vecchio assetto feudale e assolutistico della società europea, a stimolare il sentimento patriottico delle nazioni, e a fomentare i nazionalismi cambiando i confini politici.

Il quadro dell’epoca napoleonica rivela la sua importanza nella storia d’Europa principalmente attraverso l’attività legislativa di Napoleone che sostituisce il sistema confuso di leggi e regolamenti regionali. Introduce nuovi concetti di diritti individuali, familiari e di proprietà. Napoleone promulga il Codice Civile (1804) e il Codice di Commercio (1807), entrambi fondati sul diritto romano e divenuti la base di gran parte della legislazione civile del mondo; il Codice di procedura civile (1806); il Codice di procedura penale (1808) e il Codice penale (1810). Si tratta di una codificazione chiara e precisa che risponde alle nuove situazioni che regolano i rapporti giuridici e sociali fondati sul principio di uguaglianza. Essa si fece portatrice di molti principi del 1789, come l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, la laicità dello Stato, la libertà di coscienza, il carattere assoluto e inviolabile della proprietà privata, la libera iniziativa economica. A Napoleone si deve l’introduzione del sistema decimale dei pesi e delle misure in sostituzione delle numerose scale di misura in uso a livello locale, e tanto altro.

Il Codice napoleonico realizza un compromesso fra l’antico patrimonio giuridico e le nuove idee promulgate dalla Rivoluzione e viene esteso ai Paesi direttamente o indirettamente dominati dalla Francia, Italia compresa.

Il primo libro del “Code Civil” riguarda i diritti delle persone e della famiglia. Esso regola le norme sullo stato civile; viene istituito il matrimonio civile; la donna si trova in una condizione di subordinazione al marito: è sottoposta alla sua tutela e non può amministrare i propri beni senza la sua supervisione. Inoltre, il divorzio è reso più restrittivo rispetto a quello del 1792, mentre il marito può facilmente ottenerlo la donna può chiederlo solo in caso di adulterio conclamato e oggetto di pubblico scandalo; la paternità vede la riduzione dei poteri del pater familias, la parificazione tra figli legittimi maschi e femmine e l’attribuzione di qualche diritto ai figli naturali, la persistenza della soggezione dei figli alla potestà genitoriale fino al compimento del ventunesimo anno d’età.

Il secondo libro, Dei beni e della differente modificazione della proprietà, dedicato al regime patrimoniale, prevede l’abolizione del feudo e dei vincoli.

Il terzo libro, Dei differenti modi coi quali si acquista la proprietà, è dedicato alle relazioni tra le persone private: diritto patrimoniale nei rapporti parentali, contratti e obbligazioni. In materia successoria era prevista la completa equiparazione tra maschi e femmine, il rifiuto del fedecommesso e dei privilegi a favore di qualche figlio, nonché l’inviolabilità della volontà testamentaria.

Già con la Rivoluzione aveva preso forma il progetto di riunire in un unico corpo tutte le leggi della Francia e di sancire in modo ufficiale i principi rivoluzionari. La notevole molteplicità di fonti del diritto generava incertezza e disomogeneità giuridica, perciò era necessaria una sistemazione organica delle norme, che indusse a vari tentativi di redigere un codice civile.

Il progredire del processo di codificazione rafforza la linea del volontarismo statuale e della certezza del diritto come comando del legislatore, fonte di produzione giuridica, che colloca nel Codice tutto l’ordinamento giuridico positivo dove qualunque caso possa trovare la norma corrispettiva che lo regola come riflesso della sua volontà. La statalizzazione del diritto porta il sovrano dell’età moderna a incrementare la sua funzione legislativa come strumento di controllo e di comando rendendo ogni altra forma del diritto fonte gerarchica inferiore rispetto alla legge da lui emanata fino a vanificare l’intermediazione tra Stato e cittadini operata da altre fonti giuridiche intermedie come le consuetudini, gli statuti delle corporazioni, il pronunciamento dei giudici o dei giureconsulti ecc.

Con il “Code Civil” napoleonico si afferma quel processo di codificazione che finirà per interessare progressivamente le nazioni europee, così il Codice austriaco del 1811, il Codice civile italiano del 1865, il Codice tedesco del 1900 e quello svizzero del 1907.

La codificazione di Napoleone influisce anche sull’ordinamento della Chiesa che inizia il percorso approdando alla promulgazione del primo Codice di Diritto Canonico il 27 maggio 1917. La strada è stata lunga e travagliata perché la sua ispirazione non proviene dalla tradizione canonica, ma si inserisce nel solco delle codificazioni statuali secondo i principi espressi dal giusnaturalismo che cominciarono a prendere forma concreta già alla fine del XVIII secolo con l’esigenza razionalistica di dare fondamenti di unità e stabilità al diritto che regola il rapporto diretto tra Stato e cittadini.

Il Concilio Vaticano I (1869-1870), già nella fase preparatoria (1864-1867), recepisce la richiesta di molti Vescovi di una reformatio iuris, per rendere più agevole la consultazione delle leggi ridotte a un mare magnum di norme spesso caratterizzate dall’incertezza del loro valore giuridico in quanto obsolete, lacunose oppure mescolate con norme emanate per casi singoli. Si rendeva necessaria la sistemazione delle fonti del diritto canonico in una nuova e unica collezione per assicurare la certezza del diritto, facilitare la consultazione e la retta applicazione delle leggi anche dai meno esperti che avevano la diretta responsabilità della cura pastorale del popolo di Dio.

La nuova concezione codicocentrica del diritto finisce per assorbire e trasformare il razionalismo giusnaturalista nel volontarismo statuale, dove la volontà del legislatore mortifica in larga misura la scienza giuridica, la dimensione creativa che si esprime nell’esegesi e nell’interpretazione.

Ecco come Francois-René Chateaubriand scrive nel libro “Napoleone”: “Bonaparte era un poeta dell’azione, un genio immenso della guerra, uno spirito instancabile, abile e giudizioso nell’amministrazione, un legislatore operoso e ragionevole. Per questo egli fa tanto colpo sull’immaginazione dei popoli e ha tanta autorità nel giudizio degli uomini positivi. Ma come politico egli lascerà sempre a desiderare agli occhi degli uomini di Stato”.

Napoleone riesce a essere genio militare e uomo di Stato tra enormi manchevolezze radicate nella sua natura di uomo egocentrico e di illimitata ambizione. L’ascesa al potere di Napoleone da inizio all’età napoleonica celebrata da una corrente del neoclassicismo conosciuta come “stile impero” interessando l’architettura, le arti decorative e visive, l’arredamento. Un gusto stilistico molto ricercato che si diffonde in gran parte d’Europa basti pensare ai mobili, agli indumenti, agli orologi, alle suppellettili da toilette, ai portagioie o ai noti bicchieri da cognac ancora oggi presenti in tante cristallerie delle nostre case.

Ajaccio, Elba e S. Elena, tre isole che traendo la propria notorietà dal nome di Napoleone diventano simbolo di una esistenza che si consuma come l’alba mentre va incontro al tramonto.

L’interrogativo manzoniano se “fu vera gloria”, dopo due secoli ritrova quel dubbio del poeta ancora in un perpetuo oscillare quanto l’irrisolta decodificazione del concetto di gloria come categoria o principio di valore.




Cristo nel mondo. La teodicea kenotica di S.N. Bulgakov

di Dario Chiapetti · Esce per la prima volta tradotto in lingua occidentale il saggio Cristo nel mondo di Sergej N. Bulgakov (1871-1944) (prefazione di L. Žak, Lateran University Press, Città del Vaticano 2020, 113 pp., 15 euro). Christos v mire, composto nel 1940 e conservato all’Institut Saint Serge a Parigi, fu pubblicato solo nel 1994, nel giornale Zvezda, per poi apparire nuovamente nel 2003 nel giornale Vestnik RCHD.

Come fa notare Žak nella prefazione, si tratta di un testo risalente agli ultimi anni di vita del teologo russo, segnati dalla sofferenza fisica della malattia e dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale, e successivo alle sue due grandi trilogie (Il roveto ardente, L’amico dello sposo, La scala di Giacobbe e L’Agnello di Dio, Il Paraclito, La Sposa dell’Agnello). L’esperienza di sofferenza ha spinto Bulgakov a redigere una vera e propria teodicea ortodossa come non si trova in altre sue opere (p. 8), mentre, la maturazione teologica del pensatore russo ha reso tale saggio – come opportunamente rileva Žak – un approfondimento della sua riflessione (p. 6), che porta sul piano teologico (non sofiologico) quanto approntato dallo Stesso qualche mese prima, sul piano esperienziale della sua malattia, in Sofiologia della morte (pp. 11-14).

Nella prima parte, intitolata Cristo nell’uomo, Bulgakov, anticipando e andando oltre la riflessione di Karl Rahner, spinge fino in fondo il discorso sulla teologia della creazione. A partire dall’assunto dell’origine divina dell’uomo, giunge all’affermazione della sua costituzione divino-umana, e relazionale con tutta la creazione, fino all’affermazione – mediante la riflessione sui passi scritturistici della benedizione ad Abramo e delle genealogie di Gesù – della creazione come «pre-Incarnazione» (p. 33) e di Cristo che è «presente al mondo già prima della Sua discesa dal cielo e si rivela nell’uomo», quale Sua immagine, rendendo possibile parlare di «cristianesimo prima di Cristo» e «per, così dire, senza Cristo» (p. 39).

Nella seconda parte, intitolata Cristo sulla terra, Bulgakov affronta innanzitutto il ministero profetico di Cristo. Sulla base del racconto genesiaco della creazione di Adamo e in virtù dell’assunto secondo cui Adamo è immagine di Cristo e Cristo si rivela in Adamo, Bulgakov riconosce in quest’ultimo un ministero profetico, in termini di divino-umanità, anche dopo la caduta, e quindi in ogni uomo (pp. 49-50).

Segue la riflessione sul ministero di sommo sacerdote di Cristo. Esso è connesso al sacrificio eucaristico ed è fatto risalire alla kenosi del Figlio nella creazione e, ancor più, alla kenosi intratrinitaria. Il Figlio, «auto-rivelazione del Padre» e «contenuto della vita dello Spirito», «si svuota dell’essere per dare in esso spazio a questo tutto», che è la creazione (pp. 55-56), e con l’Incarnazione avviene «l’assunzione del ministero di sommo sacerdote», come divino-umanità (p. 58), rivelato già a livello veterotestamentario dalla manifestazione di Melchisedek.

Cristo è presente anche a livello sacramentale nell’Eucaristia. Essa tuttavia è compresa come «non una manifestazione di Cristo, ma il mutamento del pane e del vino» (p. 73), la sua «divino-umanità» (p. 74), distinzione che per Bulgakov è rilevante per ciò che segue.

Il teologo russo riprende così la sua originale riflessione sul Sacro Graal, già esposta dieci anni prima. Sulla base del Vangelo di Nicodemo e della pericope di Gv 19,34, Bulgakov scrive: «il sangue e l’acqua di Cristo sgorgati dal costato rimangono nel mondo, in un certo senso separati dal suo corpo sepolto, risorto, asceso al cielo, che siede alla destra del Padre», sì che la natura umana di Cristo risulta «per così dire sdoppiata in celeste e terrena» (p. 82). Ciò significa che l’umiliazione di Cristo continua anche dopo l’Ascensione e che essa consiste nella condivisione della sofferenza umana. La teologia deve riconoscere non solo «la sofferenza redentrice per noi» ma anche «la sofferenza di Cristo con noi» (p. 89), giacché, si domanda il teologo russo: «la salvezza universale, data per tutti, compiutasi in Cristo, lascia forse ora il cielo indifferente e apatico alla sofferenza della terra?» (p. 86).

Pavel Florenskij e Sergej N. Bulgakov

Infine Bulgakov individua la presenza di Cristo intronizzato. A tal proposito egli teorizza «una duplice presenza di Cristo nel mondo: quella glorificata in cielo, che ci viene comunicata attraverso la sua misteriosa presa di dimora in noi nel mutamento eucaristico, e questa è la Sua nuova venuta, la discesa sulla terra per lo Spirito Santo; e la Sua presenza nel mondo naturale, la Sua co-umanità, nella storia, il cui misterioso fondamento, e in un certo senso il luogo della Sua permanenza è costituito dal sangue e dall’acqua sgorgati dal costato del Salvatore, dal Sacro Graal» (p. 93).

L’intento di Bulgakov è chiaro: giustificare la presenza di Cristo in un mondo lacerato dal male. E la strada che intraprende è quella di distinguere nettamente, anche dopo l’Ascensione, e sulla base di alcuni dati scritturistici, tra il Cristo glorificato (Ap) e il Cristo umiliato (Mt 25; 2Cor 4,10) e di concentrare l’attenzione più sul secondo che sul primo, mettendo a punto una teologia fortemente kenotica.

Il tentativo di Bulgakov è pregevole dal punto di vista teologico, in quanto appronta una teodicea che sa comporre insieme teologia trinitaria, cristologia, teologia della creazione e dell’Eucaristia. Esso è anche lodevole dal punto di vista della testimonianza di vita cristiana e di teologo: è mirabile che un uomo all’esperienza di dolore risponda con uno sforzo di riflessione teologica e nella fattispecie di teodicea. Essa, d’altro canto, pone anche delle questioni.

In primo luogo, Bulgakov radica il kenotismo del suo discorso a livello intratrinitario, ma tale operazione è stata contestata da teologi come Ioannis Zizioulas che rilevano come, a livello patristico, vi sia una chiara distinzione tra theologia e oikonomia ed un’attribuzione della kenosi solo al Figlio e solo in quest’ultima.

In secondo luogo, egli sottolinea più la compresenza, che a volte si fa distinzione piuttosto marcata, del Cristo glorificato e del Cristo umiliato/co-sofferente, che come Dio concili «in sé la completezza immutabile dell’eternità e il divenire nel tempo» (p. 87). Sarebbe utile, a tal proposito, distinguere tra Cristo-capo glorificato e di Cristo-corpo umiliato, nella linea del paolino «do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne» (Col 1,24)? Ciò che comunque sembra fruttuosa è una rimarcatura maggiore, come nella prospettiva giovannea, dell’identificazione del Crocifisso con l’Innalzato/Glorificato, e soprattutto del rapporto “pericoretico”, e aperto a un terzo, tra i due termini: l’abbassamento è glorificazione, in quanto consegna (pentecoste, realtà che sembra perlopiù mancare nel testo bulgakoviano) dell’esistenza kenotica/glorificata all’uomo. La glorificazione di Cristo viene così ad essere compresa in termini di abbassamento come co-sofferenza e di co-sofferenza come innalzamento di Sé e di colui con cui Questi soffre – l’uomo – allo stato glorificato, in quanto anch’esso reso co-sofferente con le altre membra sofferenti dell’unico Corpo a cui appartiene, con, infine, un innalzamento anche di queste. In tal senso, la speranza è data dalla co-sofferenza di Cristo in quanto consegna della Sua vita kenotico-glorificata che rende ontologicamente (e più o meno coscientemente) il sofferente co-sofferente con coloro con cui Egli soffre, e così partecipe dello stato glorificato del Suo Corpo Risorto-Trafitto insieme a costoro. E così l’ontologia trinitaria è completamente rovesciata sulla terra.




Padre Ettore Cunial, martire in Albania

di Giovanni Campanella · Nel mese di dicembre 2020, la casa editrice Gribaudi ha pubblicato un libro intitolato Verrò all’altare di Dio – Padre Ettore Cunial, sacerdote, vittima e altare e scritto da don Carmelo La Rosa.

Quest’ultimo è presbitero della Diocesi di Acireale, in provincia di Catania, e Rettore del Santuario di Santa Maria della Vena, a Vena di Piedimonte, sempre in provincia di Catania. Come padre Ettore, don Carmelo è stato missionario fidei donum nella Diocesi di Durazzo-Tirana, in Albania, dal 1992 al 2004, e ha scritto diversi libri, per raccontare i momenti grandi della gioia e i momenti profondi della prova del cammino della missione.

Il libro ripercorre alcuni tratti salienti della vita di padre Ettore Cunial, appartenente alla Congregazione di san Giuseppe (fondata da san Leonardo Murialdo nell’800), avvalendosi di numerose testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto personalmente. Non è da confondere con l’omonimo mons. Ettore Cunial, originario dello stesso paese (ma non parente) e che lo battezzò e con cui rimase in contatto per tutta la vita. Mons. Cunial è stato arcivescovo vicegerente della diocesi di Roma. Pur essendo più vecchio di padre Ettore di più di 20 anni, mons. Cunial morì dopo di lui, nel 2005, all’età di 99 anni. Padre Cunial è nato a Possagno, in provincia di Treviso, il 13 agosto 1933 da famiglia numerosa. È morto in Albania per il bene che faceva l’8 ottobre 2001 (poche settimane dopo il crollo delle Torri Gemelle), il giorno del suo cinquantesimo di consacrazione religiosa (fece i suoi primi voti proprio l’8 ottobre 1951), con diciannove coltellate su tutto il suo corpo, per mano di un giovane che lui aiutava insieme alla sua famiglia. A distanza di diciannove anni esatti, l’8 ottobre 2020, il domenicano mons. George Frendo, Arcivescovo di Tirana, ha aperto il Processo di Beatificazione.

Padre Ettore faceva lavorare nella sua casa varie persone come muratori e aiutanti, tra cui Skënder Hasku, il minorenne Fassli Krasnici e la mamma di quest’ultimo. Fassli e la mamma provenivano dall’entroterra (Kukës) e hanno cercato di sfuggire alla povertà giungendo a Durazzo, sulla costa. Padre Ettore li aiutava anche finanziariamente ma, nonostante ciò, sembra che Fassli ed altri facessero “sparire” soldi e altri oggetti. Padre Ettore non dava troppo peso a questi fatti. A lui si indirizzarono anche invidie (per il bene che faceva) e gelosie (tra i destinatari dei suoi aiuti). Mentre lavoravano insieme, Skënder inculcava nella testa di Fassli la falsa idea che Padre Ettore offendesse sua madre. Skënder aggiungeva che Fassli avrebbe dovuto fare qualcosa, “da vero uomo”, per difendere l’onore della madre. Fu così che il diciassettenne Fassli si sentì spinto ad accoltellare il suo benefattore.

Qualcuno potrebbe sospettare che padre Ettore sia stato vittima della sua ingenuità. Molti però ritengono che questo fatto così eclatante sia stato il coronamento di una vita tutta spesa per il bene del prossimo. Padre Ettore non era uno sprovveduto. Ha frequentato Filosofia e Teologia a Viterbo dove è stato ordinato sacerdote il 18 marzo 1962. Ha conseguito la laurea in Lettere e Filosofia a Roma e l’abilitazione a Napoli, conseguendo diverse specializzazioni. Dal 1962 al 1972, è stato docente e formatore nella Scuola Apostolica di San Giuseppe Vesuviano, in quel di Napoli. Dal 1972 al 1974 è stato insegnante ed educatore nella Scuola del Collegio “L. Murialdo” ad Albano Laziale (Roma). Dal 1974 al 1982 è stato superiore al Centro Vocazionale di Acquedolci, in provincia di Messina. Dal 1982 al 1988 è stato parroco dell’Immacolata al Tiburtino a Roma. Dal 1988 al 1994 è stato superiore provinciale per l’Italia centro-meridionale: sono di questo periodo numerosi suoi scritti, riportati a tratti nel libro, raggruppati per tema. Dal 1994 al 1997 è tornato a San Giuseppe Vesuviano per essere superiore e parroco al Santuario di San Giuseppe. Dal 1997 al 2000 è stato superiore all’Istituto Artigianelli “S. Di Giorgio” a Cefalù (Palermo). Dal 19 novembre 2000 all’8 ottobre 2001 è stato in Albania. Svolse per molti anni anche il ministero di esorcista. Proprio in una delle sedute esorcistiche, il diavolo gli disse «Ti aspetto a Tirana», molti anni prima che padre Ettore venne inviato in Albania. Da tante parti, moltissimi chiedevano il suo aiuto.

Per seguire il Processo di Beatificazione e le iniziative del Comitato “Padre Ettore Cunial” ci si può servire della Pagina Facebook “Comitato Padre Ettore Cunial”.




La pandemia da Covid-19 ha amplificato nel mondo decenni di disuguaglianze e di erosione dei servizi pubblici

di Carlo Parenti · La pandemia da Covid-19 ha messo in evidenza la tremenda eredità costituita da politiche volutamente divisive e distruttive che hanno perpetuato disuguaglianze, discriminazione e oppressione e hanno aperto la strada alla devastazione prodotta dal virus.

È quanto il 7 aprile u.s. ha chiarito Amnesty International in occasione della presentazione del proprio Rapporto 2020-2021 (vedi) che contiene un’approfondita analisi sulle tendenze globali nel campo dei diritti umani e schede su 149 stati.

La risposta alla pandemia è stata ulteriormente compromessa da leader che hanno spietatamente sfruttato la crisi e hanno usato il Covid-19 per attaccare i diritti umani.

La pandemia ha brutalmente mostrato e acuito le disuguaglianze all’interno degli stati e tra gli stati e ha evidenziato l’incredibile disprezzo che i nostri leader manifestano per la nostra comune umanità ”, ha dichiarato Agnès Callamard, nuova segretaria generale di Amnesty International.

Le disuguaglianze attuali, eredità di decenni di leadership dannose, hanno fatto sì che la pandemia da Covid-19 abbia avuto un impatto sproporzionatamente negativo su minoranze etniche, rifugiati, anziani e donne ed ha peggiorato la già precaria situazione dei rifugiati, dei richiedenti asilo e dei migranti , in alcuni casi intrappolandoli in campi squallidi, escludendoli da servizi essenziali o lasciandoli abbandonati a loro stessi a causa del rafforzamento dei controlli di frontiera.

Il rapporto 2020-2021 evidenzia un profondo aumento della violenza di genere e della violenza domestica: a causa delle limitazioni di movimento, molte donne e persone Lgbt hanno incontrato maggiori ostacoli nella ricerca di protezione e sostegno; l’assenza di meccanismi confidenziali di denuncia e la diminuzione, se non la sospensione, dei servizi dedicati, hanno lasciato le vittime sole in balia di soggetti violenti.

La pandemia infatti ha duramente colpito coloro che si sono trovati in prima linea – gli operatori sanitari e i lavoratori del settore informale –che hanno subito le conseguenze di sistemi sanitari deliberatamente smantellati e di ridicole misure di protezione sociale.

Stiamo raccogliendo quanto seminato in anni di calcolato diniego dei diritti da parte dei nostri leader” osserva Callamard.

La pandemia infatti ha duramente colpito coloro che si sono trovati in prima linea – gli operatori sanitari e i lavoratori del settore informale, “ gli eroi del 2020 che, sebbene collocati alla fine della scala del reddito hanno lavorato per nutrire le famiglie e mantenere in funzione i servizi essenziali. È crudele ma è così: coloro che hanno dato di più sono stati protetti di meno”, ha sottolineato Callamard.

Il rapporto presenta un quadro fosco dei fallimenti dei leader globali quando si è trattato di affrontare la pandemia, attraverso politiche basate sull’opportunismo e sul totale disprezzo per i diritti umani.

Le risposte dei nostri leader sono state di volta in volta mediocri, mendaci, egoiste, fraudolente. Alcuni hanno cercato di normalizzare le eccessive misure di emergenza adottate per contrastare la pandemia, altri sono andati persino oltre, intravedendo la possibilità di rafforzare il loro potere. Invece di sostenere e proteggere le persone, hanno semplicemente usato la pandemia come un’arma per attaccare i diritti umani”, ha accusato Callamard.

Un modello costante del 2020 è stata l’adozione di leggi per criminalizzare le critiche relative alla pandemia. In Ungheria il governo del primo ministro Viktor Orbán ha introdotto pene fino a cinque anni di carcere per “diffusione di informazioni false” sulla pandemia. Nella zona del Golfo persico, Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Oman hanno usato la pandemia come pretesto per continuare a sopprimere il diritto alla libertà d’espressione, avviando procedimenti penali per “diffusione di notizie false” ai danni di persone che avevano pubblicato sui social media commenti critici nei confronti della risposta sanitaria dei rispettivi governi.

Altri leader hanno autorizzato l’uso eccessivo della forza. Nelle Filippine il presidente Rodrigo Duterte ha detto di aver ordinato alla polizia di uccidere chi protestava o chi causava “problemi” durante le misure di quarantena. In Nigeria la brutalità delle forze di sicurezza ha causato morti nel corso delle proteste. Nel Brasile del presidente Bolsonaro, tra gennaio e giugno le forze di polizia hanno ucciso almeno 3181 persone, una media di 17 al giorno.

Alcuni leader hanno fatto persino di più, usando l’elemento distraente della pandemia per stroncare critiche estranee al virus e commettere ulteriori violazioni dei diritti umani mentre il mondo guardava altrove. In India il primo ministro Narendra Modi ha inasprito la repressione contro gli attivisti della società civile, anche attraverso raid nelle abitazioni, con la scusa della lotta al terrorismo. In Cina il governo di Xi Jinping ha proseguito a perseguitare gli uiguri e le altre minoranze musulmane del Xinjiang e a Hong Kong ha fatto entrare in vigore una legge sulla sicurezza nazionale dai contenuti vaghi e generici per legittimare la repressione politica.

Sulla scena internazionale, i leader mondiali hanno ostacolato i tentativi di organizzare una ripartenza collettiva, bloccando o pregiudicando la cooperazione internazionale.

I leader degli stati ricchi hanno fatto scempio della cooperazione globale acquistando buona parte delle forniture mondiali di vaccini, lasciando poco o nulla agli altri. Questi stati hanno rinunciato a premere sulle aziende farmaceutiche affinché condividessero conoscenze e tecnologie al fine di aumentare la fornitura globale di vaccini.

Il governo cinese di Xi Jinping ha censurato e perseguitato gli operatori sanitari e i giornalisti che avevano cercato di lanciare un allarme tempestivo sul virus, sopprimendo così informazioni cruciali.

La pandemia ha acceso un faro spietato su un mondo incapace di cooperare efficacemente su questioni che necessitano disperatamente di un intervento globale. L’unico modo per uscire da questo caos è la cooperazione internazionale. Gli stati devono assicurare che i vaccini siano rapidamente disponibili per tutti, ovunque e gratuitamente. Le aziende farmaceutiche devono condividere conoscenze e tecnologie affinché nessuno resti indietro. Gli stati del G20 e le istituzioni finanziarie internazionali devono rimodulare il debito dei 77 stati più poveri affinché possano reagire e riprendersi dalla pandemia”, ha sottolineato Callamard.

Come non osservare che, sempre in aprile, papa Francesco –nel solco della Fratelli Tutti e del messaggio pasquale – ha affermato: “Abbiamo particolarmente bisogno di una solidarietà vaccinale giustamente finanziata, perché non possiamo permettere che la legge del mercato abbia la precedenza sulla legge dell’amore e della salute di tutti”. Scrivendo ai partecipanti agli Incontri di Primavera 2021 del Gruppo della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale ha aggiunto: “Ribadisco il mio invito ai leader governativi, alle imprese e alle organizzazioni internazionali a collaborare per fornire vaccini a tutti, soprattutto ai più vulnerabili e bisognosi”. Francesco ha poi ricordato come nell’anno passato la pandemia di Covid-19 “ci ha costretto a confrontarci con una serie di gravi e correlate crisi socioeconomica, ecologica e politica”. Di qui l’auspicio di dar vita a “soluzioni più inclusive e sostenibili per sostenere l’economia reale e aiutare gli individui e le comunità a realizzare le loro più profonde aspirazioni e il bene comune universale”, con un’attenzione particolare a “coloro che sono ai margini della società e vengono di fatti esclusi dal mondo della finanza”. Il Papa ha rinnovato inoltre il suo appello a condonare il debito dei Paesi più poveri, come “gesto che può aiutare i popoli a svilupparsi, ad avere accesso ai vaccini, alla salute, all’educazione e al lavoro”, partendo dalla consapevolezza che esiste “un debito ecologico” specialmente tra il Nord e il Sud del mondo.




Igino Giordani. Un cristiano «ingenuo»

di Andrea Drigani · Igino Giordani (1894-1980) si definiva un cristiano «ingenuo», intendendo quest’ultimo termine nel suo significato etimologico, proveniente dal diritto romano, cioè di un uomo nato libero, ma libero, precisava, della libertà dei figli di Dio.

Di Igino Giordani scrittore, giornalista, parlamentare, bibliotecario, del quale è in corso la causa di beatificazione, è uscita in questi giorni, per i tipi di Città Nuova Editrice, una biografia di Alberto Lo Presti, con la prefazione di Sergio Mattarella, che vuole riproporre all’attenzione la figura di quest’uomo, collaboratore di don Sturzo, spina nel fianco di Mussolini, confidente di De Gasperi, amico di Paolo VI, cofondatore del Movimento dei Focolari.

Scrive il Presidente Mattarella: «Per Giordani la fede era una porta spalancata sulla verità e sulla libertà dell’uomo. Una fede esigente, e tuttavia non integralista, non ostile all’incontro, alla ricerca del bene comune, all’affermazione del metodo democratico, all’impegno il più possibile corale, comunitario per ridurre le diseguaglianze e far crescere la fraternità».

Il volume di Lo Presti è da segnalarsi anche per l’apparato critico, che ricorre a fonti edite e inedite, con note bibliografiche e archivistiche, testimonianze famigliari e con l’elenco cronologico completo dei libri di Giordani nonchè dei suoi carteggi.

Su questa ampia, documentata e avvincente biografia, vorrei soffermarmi, in particolare, su due periodi: la partecipazione di Igino Giordani alla prima guerra mondiale (1914-1920) e il suo impegno politico sotto il fascismo (1920-1927).

La partecipazione di Igino Giordani alla guerra lo segnò, come è stato rilevato, nel corpo e nell’anima; nel corpo perché riportò gravi ferite con conseguenze che si protrassero, e aumentarono, fino al termine della sua vita; nell’anima perché si sviluppò in lui l’impegno, già presente nella sua mente e nel suo cuore, per la pace e l’unità dei popoli, che lui considerava diretta ed evidente conseguenza del Vangelo.

Nel giugno 1916 il sottotenente Igino Giordani è destinato sull’altopiano di Asiago, partecipando ad un’impresa, a dir poco disperata, in quanto doveva arrivare, con il suo plotone, sotto alla trincea degli austriaci per collocare un esplosivo, nell’intento di aprire un varco, e rientrare poi alla base. Tutto questo sotto il tiro dei soldati austriaci, che annientò quasi del tutto il plotone italiano. Giordani, che si era gettato per primo verso l’obiettivo, cadde sotto i colpi dei cecchini nemici. Fu ferito alla mano destra con la perdita della funzionalità di tre dita, e al femore destro, spappolato per dieci centimetri. La gamba gli rimase più corta della sinistra e la flessione del ginocchio fu parzialmente perduta. Fu decorato per questo episodio della medaglia d’argento al valor militare.

Nel 1919 rientrando a casa dopo le degenze ospedaliere e diversi interventi chirurgici, diede alla stampe un poemetto «I volti dei morti» nel quale, in 788 endecasillabi, presentava i suoi ricordi e le sue considerazioni sulla tragica esperienza vissuta in trincea nel fango, nel gelo e con una miriade di morti.

L’attività politica di Giordani tra il 1920 e il 1927 fu caratterizzata da un grande rapporto personale e culturale con don Luigi Sturzo che lo volle capo ufficio stampa del Partito Popolare Italiano, incarico che Giordani svolse al meglio di se, in un confronto duro, serrato e polemico col fascismo, che riteneva un sistema neopagano, basato su principi inneggianti alla violenza, all’odio e al libertinaggio, lusingando, purtroppo, le masse cattoliche con l’inganno di una presunta compatibilità con la concezione cristiana della giustizia.

Nel giugno del 1925, era già avvenuto il delitto Matteotti, Igino Giordani, assieme ad altri tra i quali Mario Scelba, promosse la rivista «Parte Guelfa» che ebbe vita breve e chiuse le pubblicazioni perché, come venne comunicato, era lontana dalle direttive e dalle istruzioni della Santa Sede. Igino Giordani subì ritorsioni, processi e persecuzioni, fu espulso dall’associazione dei giornalisti, venne cancellato dalle liste elettorali, fu respinta la sua domanda di accedere alla libera docenza universitaria in letteratura cristiana antica.

Igino Giordani si trovò, in gravi ristrettezze economiche, dovendo provvedere anche alla moglie e ai figli, ma attraverso il sostegno del cardinale Evaristo Lucidi, che lo conosceva e lo stimava, fu assunto alla Biblioteca Apostolica Vaticana, svolgendo compiti rilevanti per l’ammodernamento della catalogazione.

Mi piace concludere su questo «prode e tenace combattente, la cui coerenza poggiava sulla coscienza religiosa», come scrive Lo Presti, con un frase del suo testamento, redatto l’8 marzo 1980, «I miei figli, tutti, saranno eredi tanto dei beni materiali, quanto dei beni spirituali e intellettuali. Lascio loro una ricchezza infinita: la Santa Eucarestia in cui, dopo morti, saremo legati in unità come prima».




Una maratona per tenere sempre fisso lo sguardo su Gesù.

di Stefano Liccioli · «Per vivo desiderio del Santo Padre, il mese di maggio sarà dedicato a una maratona di preghiera dal tema “Da tutta la Chiesa saliva incessantemente la preghiera a Dio (At 12,5)”». E’ un passaggio del breve comunicato stampa con cui il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione ha annunciato che dal 1° al 31 maggio trenta Santuari rappresentativi, sparsi in tutto il mondo, guideranno la recita del Rosario per invocare la fine della pandemia.

Non è la prima volta che il Santo Padre, da quando è scoppiata l’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Coronavirus, invita tutti i fedeli alla preghiera, ponendosi lui stesso come primo orante, come un Mosè che con le braccia alzate chiede a Dio la forza per combattere e vincere la battaglia contro il Covid. Abbiamo ancora negli occhi Papa Francesco che, nel marzo dello scorso anno, attraversava a piedi via del Corso per raggiungere come un pellegrino la chiesa romana di San Marcello e chiedere la conclusione della pandemia. Oppure sempre lui che, qualche settimana più tardi, in una piazza San Pietro deserta affermava:«Ti imploriamo Dio, non lasciarci in balia della tempesta».

Personalmente non mi ha sorpreso, dunque, questo nuovo appello del Pontefice a pregare incessantemente il Signore perché passi presto questa situazione di difficoltà che investe tutt’ora gran parte del mondo.

Non mi ha sorpreso del resto neanche la reazione di certi “devoti atei” (“categoria dello spirito” per riferirsi a coloro che dicono di rispettare l’onnipotenza di Dio, ma in realtà lo rinchiudono nei loro angusti ragionamenti) che hanno guardato con sufficienza a questa iniziativa, considerandola un’inopportuna trattativa con il Signore. Mi sembra che a questi personaggi sfuggano diversi aspetti della fede cristiana così come qualche passaggio molto eloquente della Scrittura. Solo alcuni esempi:«Nel pericolo ho gridato al Signore: mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo» (Sal 117). Dal Vangelo di Matteo:«In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,19-20). Ed ancora:«Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti (Lettera ai Filippesi 4,6)».

Dobbiamo certamente intenderci su che cosa siano la fede cristiana e la preghiera. A tal proposito ho trovato illuminanti alcune considerazioni di don Luigi Epicoco, sacerdote e scrittore, secondo cui la prima consiste nel dono di credere “ostinatamente” contro tutto e contro tutti (persino contro noi stessi) che l’Amore di Dio avrà sempre l’ultima parola su tutto. Infatti, precisa don Epicoco, «se la fede cristiana è solo la “sensazione” che Dio esista e che ci ama, allora essa è destinata a finire presto. Infatti capitano cose nella vita che mutano costantemente il nostro sentire. Basta una semplice esperienza negativa o di rifiuto per avere la sensazione di essere soli, abbandonati e lasciati in balia degli eventi».

D’altra parte non si prega con lo scopo di convincere Dio, ma di lasciare «che quella preghiera converta noi, ci accompagni passo dopo passo al punto più essenziale di noi stessi in cui la preghiera coincide con il nostro stesso essere». Il fine dell’orazione è allora ricordarci chi siamo, avere la consapevolezza che siamo figli di Dio. «Se tu sei figlio di Dio – osserva ancora Epicoco – , allora tutto è possibile. Gesù prega perché non può fare a meno del Padre. Noi dovremmo pregare per lo stesso motivo, ma con il vantaggio che nella nostra preghiera è Gesù stesso che continua a pregare».

In questa ottica, allora, pregare Dio perché ci liberi dalla pandemia non è una trattativa “paganeggiante”, ma significa innanzitutto immergersi nella relazione con Lui, scoprirsi piccoli e fragili (e l’emergenza sanitaria quanto ci ha fatto capire la nostra fragilità), ritornare all’Essenziale e correre con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,1).




Concilio e Chiesa in Hans Küng

di Alessandro Clemenzia · All’età di 93 anni, nella sua abitazione di Tubinga, è morto Hans Küng, uno degli intellettuali che ha occupato più pagine nei numerosi dibattiti in ambito ecclesiale, divenendo lo stesso suo pensiero “oggetto” di riflessione e di discernimento da parte della Chiesa. Tanti sono i temi da lui affrontati: dall’ermeneutica del Vaticano II all’infallibilità del Romano Pontefice, dal dialogo interreligioso alla questione della ministerialità della Chiesa. Lo stesso rapporto tra Teologia e Magistero ha conosciuto con Küng una stagione di particolare opposizione.

Tra i suoi testi, usciti dopo il Concilio Vaticano II, si possono menzionare “La Chiesa”, che fu messo sotto inchiesta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, “Strutture della Chiesa” e “Infallibile?”, volume quest’ultimo uscito in occasione del primo centenario della costituzione conciliare Pastor Aeternus. I suoi scritti hanno generato una forte obiezione; basti ricordare che la Congregazione per la Dottrina della Fede, nella persona del suo prefetto il cardinale Franjo Šeper, gli revocò la missio canonica per l’insegnamento della teologia.

Dei tanti temi, è bene concentrarsi maggiormente su quello della sinodalità, di grande attualità per la riflessione ecclesiologica odierna, tanto che Papa Francesco – come ha affermato nella Commemorazione del 50° anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi – l’ha descritta come ciò che «Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio», e come «dimensione costitutiva della Chiesa».

Il documento della Commissione Teologica Internazionale, intitolato La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa (2 marzo 2018), scrive: «Il greco σύνoδος viene tradotto in latino con sýnodus conciliumConcilium, nell’uso profano, indica un’assemblea convocata dalla legittima autorità. Benché le radici di “sinodo” e di “concilio” siano diverse, il significato è convergente. Anzi, “concilio” arricchisce il contenuto semantico di “sinodo” richiamando l’ebraico קָהָל – (qahal) l’assemblea convocata dal Signore – e la sua traduzione nel greco ἐκκλησία, che designa nel Nuovo Testamento la convocazione escatologica del Popolo di Dio in Cristo Gesù» (n. 4). In questa citazione emergono almeno due elementi rilevanti: 1) Sinodo e concilio sono parole distinte ma possiedono un significato convergente. 2) Concilio arricchisce il termine “sinodo” richiamando l’assemblea convocata dal Signore (ἐκκλησία). Dunque, secondo questo documento, concilium coincide con ἐκκλησία. Tale affermazione (anche se non vi è alcun esplicito riferimento bibliografico) si inserisce in realtà all’interno di un dibattito ecclesiologico molto acceso, iniziato già negli anni ’60, tra Hans Küng e Joseph Ratzinger.

Küng, nel suo testo “Strutture della Chiesa” (1965), dopo aver specificato il rapporto tra sinodo e concilio, sottolinea la relazione tra concilio e Chiesa, a partire dalla loro etimologia: «Qui non sarà inopportuno notare che parole concilium ed ecclesia hanno, dal punto di vista glottologico, la stessa radice; e non si tratta di una coincidenza esteriore. Con-cilium viene da con-kalium, ovvero sia da con-calare, dove calare è un termine tecnico religioso che significa “chiamare”. Concilium vuol dire dunque “convocazione, assemblea”. […] Il latino calo è infatti l’equivalente del greco καλῶ, che tante volte ricorre nei Vangeli nel semplice senso di “chiamare”, ma anche già nei sinottici e soprattutto in Paolo ha preciso significato teologico di “eleggere”. Se noi diamo ora una scorsa al lessico del Nuovo Testamento ed esaminiamo la voce καλῶ, constatiamo quanto segue: il καλῶν, “colui che chiama”, non è altri che Dio» (pp. 23-34).

A questa prospettiva reagisce Joseph Ratzinger nel suo testo “Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche” (1969), ribadendo che «l’etimologia è pienamente secondaria; se si vuole sapere che cosa voglia dire la parola “concilium” come parola ecclesiastica, si deve partire dall’impiego e dalla comprensione del linguaggio di coloro che ne hanno fatto appunto una parola ecclesiastica. E si ottiene qui un campo di osservazione di vaste proporzioni. Concilium non è mai, né nella Bibbia latina né nei Padri della Chiesa, traduzione di ἐκκλησία, ma è piuttosto l’equivalente di συνέδριον (Sanhedrin), συναγωγή, σύνoδος» (p. 170). Per questa ragione «il raggio del concilio è decisamente più ristretto che non quello della Chiesa nel suo insieme. […] il concilio è συνέδριον, non ἐκκλησία. Si tratta di due forme di assemblea, diverse qualitativamente» (p. 174).

Le due impostazioni sono radicalmente differenti e, come ci si può facilmente rendere conto, hanno delle implicazioni ecclesiologiche altrettanto eterogenee tra loro.

Il documento della Commissione Teologica Internazionale, senza menzionare esplicitamente Küng e tantomeno la portata ecclesiologica delle riflessioni post-conciliari, attraverso il recupero etimologico si è inserito all’interno del dibattito, assumendo l’impostazione teologica del teologo svizzero, soprattutto per quanto concerne il rapporto tra concilium ed ἐκκλησία.

A volte sembra non essere necessario citare esplicitamente Küng per renderlo attuale; il suo contributo, volenti o nolenti, continua ad affermarsi nell’oggi della riflessione ecclesiale.




Ritirare le truppe occidentali dall’Afghanistan è un grave errore

Talebani festeggiano l’accordo di pace e il ritiro dei soldati occidentali

di Mario Alexis Portella · «Abbiamo vinto la guerra e l’America ha perso». Queste sono state le parole pronunciate da Haji Hekmat, un sindaco talebano, dopo che il presidente statunitense Joe Biden ha annunciato il ritiro di tutte le truppe americane (ufficialmente 2.500 soldati, anche se si sospetta che siano almeno mille di più) in Afghanistan prima del 20° anniversario degli attentati dell’11 settembre.

L’ex presidente Donald Trump aveva firmato un accordo con i jihadisti islamici promettendo il ritiro entro il 1° maggio; Biden promette che il primo maggio le truppe cominceranno il ritiro.

La guerra contro lAfghanistan cominciò il 7 ottobre 2001, poche settimane dopo gli attentati a New York e Washington condotti dagli uomini di al-Qaeda sotto la guida del saudita Osama Bin Laden, da tempo nel mirino degli americani dopo una serie di devastanti attentati in ambasciate Usa in Africa. Guerra questa costata più di trilioni di dollari per non parlare delle vite di oltre 2.400 militari statunitensi e di almeno 100.000 civili afgani.

Più sofferenza a causa della “pace”

I talebani, che ufficialmente si definiscono come l’Emirato islamico di Afghanistan, parlano di ristabilire la pace e la sicurezza in Afghanistan. Questo, però, è impossibile perché essendo musulmani integralisti, i talebani, hanno promesso di imporre la sharia (la legge draconiana imposta da Allah) come norma suprema del paese. In altre parole, come ha detto il mese scorso al Washington Post un alto comandante talebano:

Questa lotta non è per condividere il potere. Questa guerra è per scopi religiosi al fine di realizzare un governo islamico e attuare la legge islamica”.

A parte i cittadini innocenti che dovranno affrontare la continua violenza dei talebani, quelle che rischiano di perdere di più a causa del ritiro statunitense saranno le donne e le ragazze siccome la sharia le considera come proprietà degli uomini.

Sotto il dominio talebano alle donne

  • era negato il trattamento medico delle malattie almeno che un accompagnatore maschio non le accompagnasse; 

  • di età superiore ai dieci anni era vietato di ricevere un’educazione a scuola, come era anche vietato di guardare la tv;

  • ed erano picchiate pubblicamente se la burqa scivolava o se mostravano una caviglia o una ciocca di capelli; 

  • veniva inferta la pena della lapidazione a morte per “adulterio” anche se violentate; 

  • era proibito persino di ridere poiché era considerato improprio per uno sconosciuto ascoltare la voce di una donna;

  • spesso vittime di matrimoni forzati, sotto l’età di 15 anni era fatto obbligo di unirsi a uomini fino all’età di 60 anni (ciò è dovuto agli hadith che testimoniano che la moglie preferita di Maometto, Aisha, aveva solo sei anni quando la incontrò e nove quando il matrimonio fu consumato).

Secondo quanto narra il padre di Hisham: Khadija morì tre anni prima che il Profeta partisse per Medina. Rimase a Medina per circa due anni e poi sposò Aisha quando lei era una bambina di sei anni, e consumò quel matrimonio quando lei aveva nove anni. —Sahih al-Bukhari 58, 236

Il presidente Biden è stata molto criticato dei membri del Congresso Usa:

  • la rappresentante repubblicana, Liz Cheney (figlia dell’ex vice presidente Dick Cheney) ha detto: «Ritirare le nostre forze dall’Afghanistan entro l’11 settembre non farà che incoraggiare gli stessi jihadisti che hanno attaccato la nostra patria quel giorno vent’anni fa».

    Faiz (40 anni) e Ghulam (11 anni) prima del loro matrimonio nel villaggio di Damarda, Afghanistan, 11 settembre 2005.

  • il senatore repubblicano Lindsay Graham ha dichiarato: «Un ritiro completo dall’Afghanistan è più stupido dello sporco e diabolicamente pericoloso. Il presidente Biden, in sostanza, avrà annullato una polizza assicurativa contro un altro 11 settembre…le truppe statunitensi ancora in Afghanistan sono una polizza assicurativa contro un altro 11 settembre», aggiungendo che «le guerre finiscono quando la minaccia viene eliminata».

L’ISIS, nonostante abbia perso il suo califfato in Siria e Iraq, nelle montagne dell’Afghanistan nord-orientale i jihadisti stanno lentamente riprendendo forza, reclutando nuovi combattenti e pianificando attacchi agli Stati Uniti e ad altri paesi occidentali. Inoltre, centinaia di jihadisti turchi si sono uniti ad al-Qaeda in Afghanistan (il presidente Recep Tayyip Erdoğan, sebbene ne sia al corrente, ha negato totalmente questi fatti).

Non ci sono schemi per garantire che i talebani rinnegheranno i loro abusi sui diritti umani specialmente contro le donne, e non intendono nemmeno di combattere contro i terroristi musulmani siccome loro stessi sono jihadisti.

E purtroppo, come si può dedurre dai quattordici secoli di storia dell’islam, fare la pace con tali islamisti è inutile quanto l’accordo di pace che il primo ministro britannico Neville Chamberlain fece con Adolf Hitler.

Come il Maomettano Erdoğan che sta ristrutturando l’hakimiyyat Allah—il regno di Allah sulla terra—così fanno i talebani in Afghanistan; e purtroppo essi non si fermeranno lì, nonostante i membri della gerarchia della Chiesa Cattolica e i politici occidentali che fanno tutto il possibile per presentare l’islam come una religione moderata. Sbagliato.