Presentazione degli articoli del mese di marzo 2021

Andrea Drigani da un’adeguata esegesi di un verso dantesco rammenta la coordinazione tra foro esterno e foro interno che è propria della Chiesa ed è in vigore da secoli. Carlo Nardi ritorna su Sant’Anna e San Gioacchino con una serie di digressioni storiche, provenienti dell’Antico Testamento, dei vangeli apocrifi, della cosmologia che ci portano al Nipote: Gesù. Giovanni Campanella presenta il saggio di Françoise Benhamaou circa i notevole aspetti economici delle attività culturali, maggiormente considerati dalle strutture pubbliche e meno dalle imprese private. Stefano Tarocchi ritiene che dal Vangelo, e dagli altri scritti del Nuovo Testamento, riguardanti il Satana, si evidenzia un insegnamento: il credente è in comunione con Cristo che è stato messo alla prova, ma nella sua sequela ha vinto lo spirito del male. Dario Chiapetti illustra lo studio di Pietro Messa sulla «profezia» di San Francesco d’Assisi che concerne la sua persona, il suo futuro, li sviluppo dell’Ordine, i grandi avvenimenti storici. Carlo Parenti dal volume del sociologo Franco Garelli sulla crisi del sentimento religioso in Italia, annota tuttavia che ogni crisi deve essere sempre vista alla luce del Vangelo. Gianni Cioli richiama l’attenzione su un testo di Claudio Risè, scritto 17 anni fa, grandemente attuale in questo tempo di pandemia, poiché il rifiuto e la rimozione della morte esprimono un narcisismo distruttivo. Giovanni Pallanti con il libro di Adam Smulevich e Pierfranco Fabris ripercorre brevemente la storia dell’ebraismo italiano anche nei rapporti con la Chiesa, in particolare dopo il Vaticano II. Leonardo Salutati rileva che il termine «transizione ecologica» è stato usato nel 2012 dal padre gesuita Gaël Giraud per un progetto economico e culturale, a lungo periodo, che coinvolga l’intera società e in tutte le sue dimensioni. Francesco Vermigli recensisce la «Danteide» di Piero Trellini che fa dell’uomo Dante un uomo del suo tempo, per poter parlare e vivere con lui. Mario Alexis Portella nella circostanza del viaggio di Papa Francesco in Iraq espone la grave situazione dei cristiani in questo Paese, molti dei quali sono stati costretti, per le vicende belliche, ad emigrare. Antonio Lovascio insiste sulla promozione del «capitale umano», che riguarda il futuro dei giovani, attraverso un grande impegno delle autorità politiche per la scuola e la ricerca, finora piuttosto scarso. Alessandro Clemenzia svolge alcune riflessioni sul discorso di Francesco al Movimento dei Focolari, con orientamenti validi per tutta la Chiesa in riferimento alla fedeltà creativa e all’assunzione, personale e comunitaria, dello stile di Dio. Francesco Romano con l’Orestea di Eschilo trae delle considerazioni sul passato e sul presente del diritto penale, che dalla vendetta, basata sulla passione, giunge al processo fondato sulla ragione. Stefano Liccioli esprime compiacimento per l’istituzione, ad opera di Papa Francesco, della Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani che permetterà, anche ai giovani, una maggiore attenzione verso queste persone così importanti per la nostra società. Nella rubrica «Coscienza universitaria» si riscontra che la didattica a distanza, indirettamente e paradossalmente, può favorire interesse per la lettura dei classici greci.




La vicinanza come stile di Dio

di Alessandro Clemenzia · Ogni istituzione carismatica che voglia definirsi realmente “ecclesiale” non può fare a meno di cercare in colui che incarna l’unità della Chiesa, vale a dire il Papa, un punto di orientamento per vivere appieno il proprio carisma nelle coordinate della storia.

Al termine dell’Assemblea generale del Movimento dei Focolari, svoltasi tra i mesi di gennaio e di febbraio scorsi, che ha visto tra l’altro l’elezione di Margaret Karram, seconda Presidente dopo la morte della fondatrice (Chiara Lubich), Papa Francesco ha convocato in udienza i partecipanti assembleari (6 febbraio 2021). Ancora più importante delle parole proferite dal Pontefice è l’evento stesso, che mostra come un carisma possa trovare nel Successore di Pietro quell’unità e quella cattolicità che devono caratterizzare ogni esperienza ecclesiale. Proprio in quell’occasione, il Papa si è focalizzato su tre punti: la fedeltà creativa, l’importanza della crisi e l’assunzione, personale e comunitaria, dello stile di Dio.

Francesco ha parlato di “fedeltà dinamica e creativa” che deve caratterizzare il Movimento: come un albero che, avendo radici ben fisse, cresce in costante dialogo con la realtà. Ogni esperienza carismatica, infatti, è chiamata a rimanere sempre fedele allo spirito della fondazione per saper interpretare i segni e i bisogni dei tempi in cui vive, nella costante apertura alla novità e in dialogo con tutti. Apertura e dialogo, tuttavia, non sono atteggiamenti esteriori, mossi dall’intento di convertire gli altri, ma un modo concreto per uscire da quell’autoreferenzialità, che, in numerosi casi nella Chiesa e fuori, ha portato a compiere degli abusi di potere. In questo contesto si colloca l’invito del Papa, rivolto ai partecipanti, a lasciarsi scuotere dalla realtà e ad accogliere ogni giorno con stupore il carisma ricevuto.

Da questo atteggiamento di stupore la crisi può essere colta come una «opportunità per crescere» e «una chiamata a nuova maturità», sia che riguardi un’intera comunità, sia la singola persona. E qui Francesco allude alla necessaria distinzione, in seno alla Chiesa, tra foro esterno e foro interno: «La commistione tra ambito di governo e ambito della coscienza dà luogo agli abusi di potere e agli altri abusi dei quali siamo stati testimoni, quando si è scoperta la pentola di questi problemi brutti».

Si tratta, infine, di assumere lo stile di Dio nel quotidiano, con coerenza e realismo. Il Papa offre alcune indicazioni al Movimento dei Focolari su come vivere quanto affermato, sia ad intra che ad extra. Per quanto riguarda l’agire esterno, Francesco raccomanda di essere «testimoni di vicinanza con l’amore fraterno che supera ogni barriera e raggiunge ogni condizione umana. […] È la strada della prossimità fraterna, che trasmette la presenza del Risorto agli uomini e alle donne del nostro tempo, a partire dai poveri, dagli ultimi, dagli scartati». Non si tratta di un orientamento moralistico mosso dalla circostanza, ma di assumere la vicinanza, la prossimità come “stile” di Dio, manifestato sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, e che ha raggiunto il suo culmine nell’incarnazione del Verbo divino.

Per quanto, invece, riguarda l’agire interno, il Papa si è raccomandato di promuovere in modo sempre più efficace la sinodalità, affinché coloro che hanno ricevuto in dono il medesimo carisma possano essere corresponsabili e co-partecipi alla vita dell’Opera di Maria. L’impegno di coloro che hanno assunto particolari responsabilità deve «favorire e attuare una trasparente consultazione non solo in seno agli organi direttivi, ma a tutti i livelli, in virtù di quella logica di comunione secondo la quale tutti possono mettere al servizio degli altri i propri doni, le proprie opinioni nella verità e con libertà».

Prima di concludere Francesco ha richiamato i presenti a quello che Chiara Lubich definiva il “segreto” per riuscire a vivere, come dono di grazia, lo stile di Dio, sia come prossimità all’altro, sia come forma sinodale del pensare: il rimanere in ascolto del grido d’abbandono di Cristo in croce, come manifestazione della misura più alta e sublime di un amore capace di transustanziare il negativo in luce e speranza: «La grazia che ne deriva è in grado di suscitare in noi, deboli e peccatori, risposte generose e a volte eroiche; è in grado di trasformare le sofferenze e persino le tragedie in fonte di luce e di speranza per l’umanità».

Attraverso la circostanza di questo incontro con i partecipanti all’Assemblea generale del Movimento dei Focolari, Papa Francesco ha rivolto un chiaro invito a tutta la Chiesa: a vivere nella fedeltà creativa, a saper leggere la sfida presente in ogni crisi personale e comunitaria, e ad assumere nei confronti dell’umanità il medesimo stile di Dio.




Gesù e l’antico avversario

di Stefano Tarocchi · La pagina di Vangelo assegnata alla prima domenica di Quaresima come ogni anno ci mette di fronte al tempo in cui per quaranta giorni Gesù viene messo alla prova nel deserto dal Satana. Il testo di Marco che abbiamo ascoltato quest’anno utilizza, infatti, l’articolo per determinare la figura dell’avversario di Dio e dell’uomo. Dopo che l’evangelista ha raccontato che lo Spirito discende su Gesù come una colomba, lo stesso Spirito lo spinge con forza nel deserto, laddove viene messo alla prova.  

A differenza dei paralleli Matteo e Luca, Marco non dice il contenuto di questa prova. Si è soliti parlare di tentazione, o tentazioni, con un linguaggio non del tutto adeguato ai tempi nostri, e fonte di interpretazioni inesatte.  

Lo stesso racconto dice che Gesù nei quaranta giorni è in compagnia degli animali selvaggi, che realizzano la pace intravista dai profeti, e pur nella sua solitudine non è abbandonato da Dio. Infatti, si parla di angeli che stanno al suo servizio.  

La sobrietà scarna del racconto marciano a differenza dei tre momenti in cui rispettivamente l’evangelista Matteo e Luca raccontano il confronto di Gesù con il tentatore è quanto mai significativa, e paradossalmente non potrebbe essere più eloquente. Gesù è messo alla prova come nel momento culminante della sua passione, ma egli non soccombe all’insidia del male, come dice ai discepoli: «vegliate e pregate per non entrare in tentazione» (Mc 14,38). Qui parla il Vangelo di Luca, che così conclude il racconto della triplice prova: «è stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo. Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato» (Lc 4,12-13). 

Nello stesso Vangelo di Marco, Gesù dopo la chiamata delle prime due coppie di discepoli, si scontra con un uomo posseduto da uno spirito impuro. Questo spirito si rivolge a Gesù e paradossalmente lo indica come il Santo di Dio. Gesù libera quell’uomo dallo spirito impuro, non con un esorcismo come impropriamente si potrebbe intendere – Gesù, a differenza di noi, non è costretto a combattere, perché la sua potenza divina gli fa vincere il male con la sola parola, Con un atto della sua autorità libera l’uomo restituendolo alla pienezza della sua esistenza quotidiana.  

C’è anche un altro episodio, realmente sconcertante, nel Vangelo di Marco, accaduto nella regione dei Geraseni, nella Decapoli, in territorio pagano, dove è addirittura una legione che abita un uomo, isolato dai suoi concittadini, incapaci di trattenerlo in quello stato. Quella legione di spiriti malvagi – una legione romana era in realtà composta da seimila uomini – viene allontanata dall’uomo, ma al prezzo di farla discendere nel corpo di un gregge di porci che si getta nel mare.  

Anche in quella circostanza Gesù rivela la sua autorità sullo spirito del male. È lui che “permette” alla legione di abitare i porci, per liberare l’indemoniato: la vittoria di Cristo abita nel suo dominio totale sullo spirito del male e le sue trame.

C’è un punto che dobbiamo tenere particolarmente presente, come ci ricorda Papa Francesco (vedi) «nelle tentazioni Gesù mai dialoga con il diavolo, mai. Nella sua vita Gesù mai ha fatto un dialogo con il diavolo, mai. O lo scaccia via dagli indemoniati o lo condanna o fa vedere la sua malizia, ma mai un dialogo. E nel deserto sembra che ci sia un dialogo perché il diavolo gli fa tre proposte e Gesù risponde. Ma Gesù non risponde con le sue parole; risponde con la Parola di Dio, con tre passi della Scrittura. E questo dobbiamo fare anche tutti noi. Quando si avvicina il seduttore, incomincia a sedurci: “Ma pensa questo, fa quello…”. La tentazione è di dialogare con lui, come ha fatto Eva, e, se noi entriamo in dialogo con il diavolo saremo sconfitti. Mettetevi questo nella testa e nel cuore: con il diavolo mai si dialoga, non c’è dialogo possibile. Soltanto la Parola di Dio».

Questo atto di prudenza appartiene alla coscienza della prima generazione cristiana. Così la prima lettera a Timoteo precisare la necessità che «il vescovo … non sia un convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo. È necessario che egli goda buona stima presso quelli che sono fuori della comunità, per non cadere in discredito e nelle insidie del demonio» (1 Tim 3,6-7).  

Ma è soprattutto degno d’interesse, la vera e propria teologia della storia come in un passaggio non certo semplice della seconda lettera ai Tessalonicesi, testo dell’ultimo quarto del primo secolo.. Scrive l’autore, nel solco della tradizione paolina: «nessuno vi inganni in alcun modo! Prima, infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene. Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati» (2 Ts 2,5-10). 

Ne voglio rammentare comunque altri due, nel solco delle problematiche della Chiesa del tempo. Sono tratte dalle lettere dell’apostolo Giovanni, che rivela alle sue comunità l’effetto divisivo devastante dello spirito del male: «figlioli, è giunta l’ultima ora. Come avete sentito dire che l’anticristo deve venire, di fatto molti anticristi sono già venuti. Da questo conosciamo che è l’ultima ora. Sono usciti da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; sono usciti perché fosse manifesto che non tutti sono dei nostri (1 Gv 2,18-19). E nella lettera seguente rivela l’inganno principale che ha la stessa origine, ossia il non riconoscere il mistero dell’incarnazione: «questo è l’amore: camminare secondo i suoi comandamenti. Il comandamento che avete appreso da principio è questo: camminate nell’amore. Sono apparsi infatti nel mondo molti seduttori, che non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo!  (2 Gv 1,6-7). 

Il credente è dunque in comunione con il Cristo che è stato messo alla prova, ma nella sua sequela ha vinto lo spirito del male. Il credente, perciò, non è abbandonato al male, ma si trova sicuro nelle mani di Dio, nonostante le insidie dell’antico avversario. Come dice Dante Alighieri: «Nostra virtù che di legger s’adona (“facile a cedere”), / non spermentar (“non mettere alla prova”) con l’antico avversaro, / ma libera da lui che sì la sprona» (Purgatorio XI). 

E così leggiamo anche nell’Apocalisse, che lega la prima pagina biblica all’ultima: il «serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli» (Ap 12,9; cf. 20,2). 

 




Dante, il suo mondo, la sua vita. Un libro

di Francesco Vermigli · Esistono libri che si leggono tutti d’un fiato. Non conta che questi libri ammontino a centinaia di pagine; per leggerlo tutti d’un fiato conta lo stile con cui sono scritti, le suggestioni che suscitano, la bellezza che fanno intravedere ad ogni scorcio della pagina. È questo il caso di una recentissima pubblicazione, uscita per i tipi di Bompiani, per mano di un autore, che chi scrive aveva conosciuto per un libro precedente, di tutt’altra fattezza rispetto a quello che ci apprestiamo a commentare. Un libro, quello, che narrava una partita entrata nella storia del nostro Paese: una partita giocata in Spagna in uno stadio che non riusciva a contenere gli spettatori e che richiama alla memoria i nomi di Falcao, Zico, Socrates e Junior e Gentile, Cabrini, Antognoni, Zoff e tre volte Paolo Rossi e Nando Martellini, che sbaglia a dare il risultato che tutti attendono. Insomma, questo era il titolo: La partita. Il romanzo di Italia-Brasile.

Il libro che qui presentiamo e di tutt’altra fattezza, si diceva… o forse no. Perché forse lo stile con cui si approccia il tema è monumentale e vorticoso, allo stesso modo di quello usato nel libro che si volgeva alla partita giocata dagli italiani, come la partita di una vita. L’autore è appunto lo stesso di quel romanzo calcistico, Piero Trellini; il titolo è Danteide, ad evocare, crediamo, l’epopea di quel tal figlio di Anchise, esule da Troia; come l’Alighieri fu esule dopo la cacciata ignominiosa da Firenze, fino alla morte.

A volerla dir tutta, il parallelo con Enea non finisce qui, se andar per le pagine di questo libro significa scoprire storie piene di lotte e faide, e armi e uccisioni e fazioni e partiti. Insomma si parla di un uomo e di un mondo feroce e bellicoso; e al liceale di oggi si insegna ancora come comincia il primo esametro di quel poema antico? Arma virumque cano: lo sanno ancora i liceali? Ma a voler far paralleli ulteriori, forse quello che meglio s’adatta è il celebre incipit dell’Ariosto, a rendere più dolce con gli amori e le contese sentimentali quell’aria nefasta di lotte e morti: Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto… potrebbe dire il Trellini, a buon diritto. L’orizzonte del libro è disegnato dunque di rose e di spade; non solo di spade (oggi si direbbe piuttosto Guns N’ Roses). E in mezzo a questo mondo di amori e lotte tra fazioni, sta Dante. È il mondo di Dante, un mondo sanguigno e popolare; ma è il mondo da cui si erge come un monumento il poema per eccellenza della nostra letteratura.

Tutto inizia attorno a delle ossa, che le mani giudiziose di un frate seicentesco avevano nascosto un po’ più in là, rispetto al luogo in cui tutti se le attendono. Sono le ossa, e soprattutto il cranio, a scatenare la gente e i notabili di Ravenna e i professori che giungono da Firenze. Sono le ossa del Sommo poeta, lo veniamo a sapere: è certificato. E l’agitazione è comprensibile. Erano gli anni, quelli, in cui un tale politico piemontese andava dicendo che se anche l’Italia era stata fatta, dovevano ancora esser fatti gli italiani. Ma per far gli italiani e dar loro una cultura nazionale, quale ricordo poteva essere più adatto di quello del Vate del tempo antico, il sommo poeta dell’evo della lingua italica nascente? Cadeva a fagiolo, come si suol dire, quel ritrovamento.

Tutto inizia con la concitazione generata dal ritrovamento dei resti mortali del poeta, sorta di reliquia di un santo laico; si diceva. Poi si va a ritroso, si va all’epoca del Sommo poeta, alla sua famiglia, alla sua storia, al suo mondo. E i personaggi della Commedia, tornano a vita nuova nelle pagine di questo libro. Tornano a vita nuova restituiti Gemma Donati e Paolo Malatesta, Beatrice e il re Enzo e i mille volti della Commedia. Torna anche a vita nuova, sulla pagina del libro, un tale Buondelmonte dei Buondelmonti, che per ragioni biografiche è caro a chi scrive queste righe; e che se l’avesse preso l’Ema, prima di scendere in città, sarebbero stati contenti tutti, ci dice Dante.

Ci par di tornare a Montaperti, luogo di una battaglia devastante; ci pare di essere tra le vie di Firenze, umide e brulicanti di mercanti e artigiani. Ci pare di essere là, e di vedere Dante, dietro quella cortina fumogena che è la sua opera. Che se è una meraviglia, se è divina; può fare anche da schermo e Dante si può non vedere.

Intendiamoci, non è un libro storico. È un romanzo, che parte da dati certi, ha una buona conoscenza delle dinamiche della vita religiosa e sociale del Medioevo; e questi dati li rielabora nella finzione letteraria e ce le restituisce, comunque verosimili. E che fece quell’altro che venne a sciacquare i panni in Arno se non proprio questo? Dalla storia della Milano del ‘600 prese un insegnamento, una morale, un messaggio, un capolavoro.

Il libro del Trellini non lo potremo paragonare al Manzoni, ma ha una medesima prospettiva: fare dell’uomo Dante un uomo del suo tempo, per potere ragionare con lui, vivere con lui. Infine, da lui prendere un insegnamento per il nostro tempo.




La lotta continua dei cristiani in Iraq

di Mario Alexis Portella · L’impressione di molti in Occidente è che, a seguito della sconfitta del “califfato” islamico, le minoranze religiose in Iraq, in particolare i cristiani, non siano più perseguitate. Almeno questa è la tesi dei media mainstream. Ma è una tesi ben lontana dalla realtà.

Sì, le comunità cristiane irachene hanno subito e superato un duro colpo quando sono state disperse dall’attacco dell’ISIS nel 2014 — riducendo ulteriormente la popolazione cristiana già in diminuzione del paese. Ma loro continuano, di fatto, a soffrire a causa della jihad islamica.

Le ostilità, infatti, hanno assunto una nuova forma anche se i persecutori hanno per lo più il medesimo volto e la medesima mente. Per esempio, ex-membri dell’ISIS si sono inseriti in posizioni di governo a livello locali e nelle milizie sciite sostenute dal regime iraniano che controllano le città e i villaggi in cui vivono i cristiani.

Avendo visitato nel novembre 2018 la città di Mosul devastata dalla guerra — una delle prime regioni del mondo ad accogliere il messaggio del cristianesimo ho avuto l’opportunità di parlare con un certo numero di cristiani residenti nel settore di Nineveh, nelle altre città e villaggi che circondano Mosul. Essi concordano sul fatto che la drastica riduzione della popolazione, quasi una desertificazione, post-ISIS, sia sostanzialmente dovuta alla non volontà, da parte della comunità internazionale, di riconoscere il problema islamico in quanto i non musulmani sono considerati come individui di seconda classe unicamente da conquistare come prescritto dal Corano:

Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi politeisti [i cristiani, gli ebrei e altri non-musulmani] ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l’orazione e pagano la jizya [decima], lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore e misericordioso”. —Sura 9, 5

Ad Erbil, la capitale del Kurdistan, che è autonoma dal governo centrale iracheno e che è forse la regione più sicura di tutto l’Iraq, molti cristiani subiscono soprusi di vario genere: le donne cristiane sono importunate perché non indossano la hijab (la sciarpa che copre la testa) e, poiché i musulmani hanno sempre la preferenza, si genera una forte disoccupazione e una scarsa uguaglianza davanti alla legge civile.

A Karamless — 28 chilometri sudest da Mosul — oggi abitano solo un centinaio di famiglie cristiane sulle oltre ottocento ivi stanziate prima dell’occupazione dell’ISIS; i gruppi sciiti, come gli Shabak, poiché ora sono più numerosi, si sono appropriati della quasi totalità degli spazi ancora utilizzabili provando ad imporre la legge e la cultura islamica. Altri che sono aiutati dai finanziamenti governativi per la ricostruzione delle case, si son pure insediati nelle proprietà dei cristiani.

Molti sperano che la loro lotta per resistere riceva una spinta da una storica visita di Papa Francesco.

La visita del Vescovo di Roma, il suo primo viaggio all’estero dopo la pandemia del COVID’19 e il primo in assoluto da parte di un papa in Iraq, è un segno che “non sei solo”, ha detto monsignor Segundo Tejado Muñoz, sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. “C’è qualcuno che ti sta pensando, che è con te. E questi segni sono veramente importanti”.

Queste parole possano dare un po’ di conforto, però, i cristiani hanno bisogno di più. Per poter risolvere la crisi dei cristiani iracheni con successo, bisogna che la comunità internazionale, incluso il Vaticano, riconosca che sia il terrorismo islamico che la disuguaglianza tra musulmano e non musulmano e tra uomo e donna è fondata sui testi islamici. In altre parole, come ha detto nel 2018 il segretario generale del Consiglio supremo del Nahdlatul Ulama — la più grande organizzazione musulmana del mondo — l’Imam Yahya Cholil Staquf: «Il problema è nell’Islam stesso».




Le Sinagoghe in Italia

di Giovanni Pallanti · Gli ebrei sono il popolo di Gesù Cristo. Come ha scritto nelle Enciclica “Fratelli tutti” Papa Francesco, nel 2020, gli ebrei sono i fratelli maggiori dei cristiani. San Giovanni Paolo II nell’aprile del 1986 fu il primo vescovo di Roma a visitare il Tempio Maggiore di Roma (edificato nel 1904) quando il rabbino capo era Elio Toaff. Due avvenimenti straordinari che hanno segnato la storia dei rapporti tra ebrei e cristiani che per secoli hanno vissuto un rapporto conflittuale provocando molte sofferenze al popolo ebraico considerato deicida per la crocefissione di Gesù Cristo.

Per molto tempo anche in Italia questo popolo di Abramo ha dovuto subire vessazioni di ogni genere e gli ebrei, anche in Italia, hanno dovuto praticare la loro fede in clandestinità. Nella cultura ebraica il secolo XVI è considerato il punto più oscuro della loro storia nella penisola. Un libro “ Sinagoghe Italiane, raccontate e disegnate” di Adam Smulevich e Pierfranco Fabris (edizioni Biblioteca dell’immagine) racconta la storia delle 43 sinagoghe, da Trieste a Palermo disseminate sul territorio italiano. Nel quindicesimo secolo le prime aperture agli ebrei furono nel Ducato di Ferrara dove i governanti Estensi cominciarono a considerare gli ebrei come una comunità integrata. Il primo ghetto fu costituito dalla Serenissima Repubblica di Venezia nel 1516. Una delle prime sinagoghe fu fondata a Pitigliano,in Toscana, nel 1598, il che dimostra che la famiglia Medici cominciava, come nella città di Livorno, a considerare importante e rispettabile la presenza ebraica nel Granducato. Nel libro “Sinagoghe Italiane” viene ripercorsa la storia in modo sintetico ma esaustivo degli ebrei attraverso le signorie, i principati e gli stati italiani fino all’Unità d’Italia. Fino al 20 settembre 1870 gli ebrei erano considerati nello Stato Pontificio un popolo che doveva essere chiuso in un ghetto che fu costituito nel 1555 nell’area urbana adiacente al tempio Marcello. Anche i Savoia avevano avuto una politica liberale nel regno di Sardegna nei confronti delle comunità ebraiche. Il vero sdoganamento degli ebrei avvenne però con la conquista italiana dello Stato Pontificio e, poco più di un trentennio dopo, il Regno d’Italia ebbe dal 1905 al 1911 tre Presidenti del Consiglio dei Ministri di religione ebraica: Alessandro Fortis (1905-1906), Sidney Costantino Sonnino ( 1906-1910), e Luigi Luzzatti (1910 – 1911). Questa lunga e travagliata storia ebbe il periodo più drammatico e doloroso a partire dal 1938 quando Mussolini decise di affiancare Hitler nello sterminio degli ebrei. Il Re Vittorio Emanuele III tradendo i suoi avi firmò le leggi razziali che, dopo la seconda guerra mondiale ,furono una delle cause determinanti per la caduta della monarchia italiana. Il libro di Adam Smulevich e Pierfranco Fabris è corredato da numerosi acquarelli che illustrano l’esterno e l’interno delle singole sinagoghe tra cui quella di Firenze considerata una delle più belle che fu costruita nel 1882 . La questione ebraica è ancora molto attuale purtroppo: in Francia, in Germania e in Italia avvengono periodicamente dei rigurgiti anti ebraici come se lo sterminio di sei milioni di ebrei nei forni crematori nazisti non fosse mai avvenuto. In Italia la senatrice a vita Liliana Segre è sottoposta a un stillicidio di offese di ogni genere tramite social media ed è sottoposta ad una scorta permanente di carabinieri che l’accompagnano in ogni suo spostamento nonostante sia una sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. La pubblicazione che illustra i templi ebraici in Italia racconta la fede in Dio, le gioie e le sofferenze di un popolo. Con il Concilio Vaticano II e i pontificati di San Giovanni Paolo II e di Papa Francesco , questa vicenda ha preso una strada irreversibile di riconciliazione buona e giusta.  




La «Transizione Ecologica», un progetto politico, economico, sociale e spirituale

di Leonardo Salutati · In occasione della costituzione del nuovo governo guidato da mario Draghi si è molto parlato di “Transizione ecologica”. In realtà dell’argomento ne parla da più di 10 anni Gaël Giraud, almeno da quando nel 2012 pubblicò a Parigi il suo “Illusion financière. Des subprimes à la transition écologique”, edito in Italia nel 2015 col titolo “Transizione ecologica. La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia”.

Padre Giraud è dal 2004 gesuita, ma è anche un economista di primo piano: Chief economist dell’Agence Francaise de Développement; direttore di ricerche del Centre National de la Recherche Scientifique; membro del Centro di Economia della Sorbona-Laboratorio d’Eccellenza di Regolazione Finanziaria e della Scuola di Economia di Parigi. Attualmente è Research Professor & Director of the Georgetown Environmental Justice Program, alla Georgetown University di Washington dei Gesuiti.

Il libro di Giraud prende le mosse dall’“infarto finanziario” del 2008 che ha generato una grave crisi finanziaria, rapidamente trasformatasi in recessione economica e poi in disoccupazione, scaricando su lavoratori e famiglie i costi maggiori. Il lavoro di Giraud ha vari meriti. Tra questi quello di rendere comprensibili gli aspetti più complessi dell’opaco mondo della finanza internazionale. Infatti, componendo in un quadro chiaro e intellegibile gli aspetti tecnici, istituzionali e culturali del mondo finanziario, Giraud spiega in modo approfondito quali fattori abbiano generato la crisi del 2008: non un evento improvviso ma «la conseguenza di una logica di azione scientemente perseguita da un plesso politico-finanziario che si è impossessato delle leve del potere nelle società avanzate» (M. Magatti),

Un ulteriore importante merito è quello di offrire un orizzonte di lavoro su cui muoversi per conseguire un nuovo modello di sviluppo. La grave crisi del 2008 ha infatti evidenziato l’urgenza di un cambio di paradigma per superare la visione iperindividualistica e ipertecnicizzata affermatasi nei decenni precedenti e causa della crisi. Soprattutto, la narrazione di Giraud permette di constatare come, nonostante il suo ruolo fondamentale, la finanza lasciata a sé stessa possa fare molti danni. Già J.M. Keynes aveva messo in guardia dal «feticcio della liquidità», cioè l’aspetto patologico dei mercati finanziari interessati soltanto ai rendimenti di breve periodo. All’indomani della Grande Crisi del ’29, nel 1933, su “The New Statesman and The Nation”, il grande economista scriveva: «Il decadente capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non fornisce nessun bene».

Giraud allora ricorda che una crescita sostenibile può svilupparsi solo sul lungo periodo coinvolgendo la società nella sua interezza, nelle sue dimensioni umane, tecnologiche, istituzionali, culturali e sociali, con un approccio economico che punti sull’investimento, sulla qualità complessiva della vita economica, istituzionale e ambientale, sulla coesione sociale, lo sviluppo e la valorizzazione delle capacità personali.

In sintesi, la transizione energetica e, più largamente, ecologica ha due obiettivi: anzitutto ridurre le emissioni di CO2 e, più in generale, l’impronta materiale dell’economia; in secondo luogo, adattare i sistemi economici agli sconvolgimenti ecologici già in corso. La ragione dell’urgenza di ridurre le emissioni, è dettata inoltre dalla necessità di liberare i sistemi economici dalla dipendenza dai combustibili fossili. Infatti, il calo degli investimenti petroliferi, iniziato già dal 2015, porterà a una mancanza di estrazione e produzione di petrolio. Questo significa che il prezzo dei carburanti nei prossimi anni potrà variare molto e, soprattutto, che in futuro non tutti avranno accesso al petrolio e ai suoi derivati, dato che la quantità sarà ridotta. La sovranità energetica di tanti paesi, Italia in testa, richiede di imparare a fare a meno degli idrocarburi fossili (petrolio, carbone, gas). Lo stesso dicasi riguardo all’indipendenza da alcuni metalli (anche questi risorse non rinnovabili) che stanno diventando scarsi, come il rame, il cobalto e il fosfato, la cui densità di riserve disponibili sta diminuendo considerevolmente da diversi decenni.

In concreto la transizione ecologica si articola su quattro grandi progetti: realizzare il rinnovamento termico di tutti gli edifici, pubblici e privati; sostituire con fonti energetiche rinnovabili gli idrocarburi fossili; passare ad una mobilità verde che privilegi il trasporto di persone e merci su rotaia; inventare un’agro-ecologia e un’industria verde, per favorire la “quarta rivoluzione industriale”, quella del riparabile e riciclabile, in termini di acqua, energia, risorse minerarie e rifiuti.

È un grande progetto politico, economico, sociale ma anche spirituale (G. Giraud), infatti «in questo giardino che Dio ci offre, gli esseri umani sono chiamati a vivere in armonia nella giustizia, nella pace e nella fraternità… E quando si considera la natura unicamente come oggetto di profitto e di interessi – una visione che consolida l’arbitrio del più forte – allora l’armonia si rompe e si verificano gravi disuguaglianze, ingiustizie e sofferenze» (Papa Francesco 2020). Inoltre, tutto è connesso e non dobbiamo scordare che «non possiamo illuderci di risanare la nostra relazione con la natura e l’ambiente senza risanare tutte le relazioni umane fondamentali» (LS 119).

 




Draghi, Papa Francesco e il «capitale umano»

di Antonio Lovascio · E’ una “fotografia” che fa rabbrividire. Siamo ventisettesimi nel ranking mondiale della ricerca, anche se spesso scopriamo dai giornali che i nostri scienziati si fanno onore in varie parti del Pianeta. Investiamo meno di Sloveni e Cechi, addirittura preceduti da Corea e Taiwan, pur essendo ancora la settima potenza industriale. La quota che destiniamo al settore (meglio: al futuro dei nostri giovani) è solo dell’1,4 per cento del prodotto interno lordo, inferiore alla media europea(2%) ed a quella OCSE (2,4%). Ce lo ha ricordato nel suo discorso d’insediamento in Parlamento il neopremier Mario Draghi, che ha promesso un deciso “cambio di passo” nella valorizzazione del cosiddetto “capitale umano”. Oltre che le statistiche più aggiornate, all’ex presidente della Bce devono essere rimaste impresse le parole di Papa Francesco che pochi mesi fa lo ha chiamato a far parte della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. «Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società». Così Bergoglio nell’enciclica “Laudato sì “ e nei più recenti interventi ha espresso la propria preoccupazione per il ruolo del “capitale umano” nell’attuale sistema economico. Un modello che andrebbe rimodulato alla luce di un nuovo paradigma, che comprenda come la vera innovazione si giochi nel trovare un valore immateriale e di lungo periodo per tutti laddove comunemente si ricerca un valore materiale immediato. E per fare questo occorre uno sguardo maieutico antropologico. Cioè l’imprenditore e la società in generale sono veramente innovatori quando fanno risorgere la persona, il lavoratore, quando trovano un valore dove si supponeva che non ci fosse. Le aziende e le comunità che oggi crescono, infatti, sono quelle capaci di trasformare i problemi in opportunità, di far fiorire i talenti delle persone che così diventano un valore per l’intera comunità.

Ora il nuovo Governo è atteso alla prova dei fatti , a dare risposte concrete ed immediate dopo che i precedenti esecutivi hanno deluso per anni i nostri giovani, costringendoli – per trovare un lavoro – ad emigrare da un Paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato un’effettiva parità di genere. Purtroppo è vero. Il divario con l’Ue – lo ha analizzato sulle colonne del “Corriere della Sera” un commentatore attento come Ferruccio de Bortoli – vede l’Italia 3 punti sopra la media per abbandono scolastico e 14 punti sotto la media come percentuale di laureati nella fascia di età fino a 34 anni. Senza dimenticare gli oltre 320mila ragazzi e ragazze nella fascia 20-34 anni che hanno lasciato l’Italia tra il 2009 e il 2018. Preoccupa altresì la dinamica: erano 20mila l’anno all’inizio dell’ultimo decennio, sono diventati 40 mila nella seconda metà. Dati, questi, precedenti alla pandemia. La complessità del problema non consente rimedi immediati, ma la soluzione di una urgenza presente e per una scelta di prospettiva. Impellente è la necessità di riportare la Scuola alla normalità nel contesto di sicurezza richiesto dall’emergenza Covid. Su questo aspetto Draghi ha fornito un dato quantitativo”. Sui 1.696.300 studenti delle scuole secondarie di secondo grado nella prima settimana di febbraio solo il 61% ha avuto assicurato il servizio attraverso la didattica a distanza. Nelle già penalizzate regioni del Mezzogiorno si sono registrate le maggiori difficoltà. La scelta di prospettiva è di investire in una “transizione culturale… (per) disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, coniugando le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche del multilinguismo”.
Ma come ha ben sottolineato il neopremier la trasformazione del modello di sviluppo richiede sempre più competenze nell’area ecologica e ambientale e in quelle digitali. Non dimenticando che in Francia e in Germania un ruolo importante hanno anche gli istituti tecnici-professionali superiori che in Italia vanno potenziati. Qui si apre un capitolo italiano pieno di dualismi, tra i quali ne citiamo uno che fotografa l’Italia ben al di sotto della media europea per l’istruzione terziaria. Dei laureati fino a 34 anni s’è già detto. Ora va aggiunto che tra i 25 e i 64 anni, solo il 62% ha un diploma, contro una media europea di quasi il 79%. L’Italia è sotto di 17 punti. Il divario si riduce sul lavoro in base al titolo di studio perché la percentuale di occupazione dei laureati tra i 30 e i 34 anni in Italia è (solo) 9 punti sotto l’Europa. Quindi il livello di studi favorisce la possibilità di trovare un’occupazione in un Paese che, secondo l’Istat, dall’inizio del lockdown ha perso più di 600 mila posti di lavoro, per lo più da parte delle donne.

La sfida più impegnativa del programma di Draghi è sicuramente quella raccomandata dall’Europa: le priorità riguardanti la transizione ecologica, la trasformazione digitale, la protezione della salute. Per la sua complessità, l’innovazione è uno dei più difficili temi perché coinvolge la scienza di base e le applicazioni tecnologiche, le istituzioni e le imprese, le regole e i mercati, la società e l’economia. Il premier ne è consapevole. Ma la Politica lo supporterà ?




Conservare il patrimonio culturale

di Giovanni Campanella · Nel mese di aprile 2020, la casa editrice Il Mulino ha pubblicato un libro intitolato L’economia della cultura, all’interno della collana “Universale paperbacks”, e scritto da Françoise Benhamou.

È la traduzione dell’ottava edizione francese del 2017. La prima edizione originale francese è del 1996. Naturalmente le successive edizioni sono state ampliate con dati più aggiornati.

Françoise Benhamou è nata il 12 novembre 1952 a Oujda in Marocco da famiglia ebrea marocchina francese. È economista ed editorialista francese, professoressa a Sciences Po Lille, Sciences Po Paris, all’Ecole Normale Supérieure e all’Università di Parigi XIII. È specialista di economia della cultura e dei media. Ha fatto parte del Consiglio di Amministrazione del Louvre e presiede il Conseil des études del CNL (Centre National du Livre), il Comitato Etico di Radio France e il Comitato consultivo dei programmi di ARTE.

Il libro che prendiamo in considerazione è un piccolo manuale di economia della cultura. All’inizio tratta della storia di tale materia, che comunque, come presumibile, è abbastanza recente. Prende in esame produzione, consumo e politiche culturali. Scende anche in dettaglio, analizzando l’economia delle esibizioni dal vivo, mercati d’arte, beni culturali, industrie culturali, tecnologia digitale e videogiochi.

Solo nel ventesimo secolo l’economia della cultura incomincia a essere presa sul serio con articoli e opere di livello accademico. Ciò che forse per noi è di maggiore interesse è lo studio dell’ambito delle politiche culturali. Lo Stato ha un ruolo fondamentale e insostituibile per la preservazione e la gestione del patrimonio culturale perché è l’unico che, attraverso l’imposizione fiscale, può compensare l’inevitabile fenomeno di free-riding del consumatore (il consumatore gode della vista di un monumento senza normalmente pagare alcun prezzo e senza quindi contribuire direttamente al suo mantenimento). Dato che il mercato tende a ignorare tutto ciò che non si riflette immediatamente su un prezzo ossia tutte le esternalità, i privati tenderebbero ad adoperarsi meno per la cultura rispetto a quanto sarebbe ottimale. L’impatto economico della cultura è in realtà grande: istituzioni, musei e monumenti attirano turismo, muovono gli affari delle aziende di trasporto, degli alberghi, dei ristoranti, dei commercianti in genere. Tuttavia, proprio per la natura peculiare del bene culturale, i vantaggi di tutti questi soggetti, anche se grandi, non sono esattamente quantificabili ed è difficile stabilire a quanto deve ammontare precisamente il prezzo che dovrebbe versare un determinato esercente.

Noi diamo moltissime cose per scontato. Contemporaneamente, ci lamentiamo dell’imposizione fiscale e delle ingerenze dello Stato in generale. Tuttavia, senza l’opera del soggetto pubblico, moltissimi servizi e beni essenziali non ci sarebbero o sarebbero in quantità e qualità inferiori a quanto sarebbe necessario. È solo grazie a uno Stato, che solo si prefigge costituzionalmente il bene della collettività, che inestimabili patrimoni artistici, storici e culturali possono essere conservati. Questi patrimoni non solo favoriscono il progresso economico ma sono anche strettamente legati all’identità culturale e spirituale nostra e delle generazioni future.




Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio

di Carlo Parenti · Viviamo in un’epoca che coltiva un’idea debole e plurale della verità: la religione non fa eccezione. Lo scenario religioso è in grande movimento in un paese in cui crescono l’ateismo e l’agnosticismo tra i giovani, i seguaci di altre fedi e culture, nuove domande e percorsi spirituali. A fronte di ciò, il legame cattolico si fa più esile, il Dio cristiano sembra più sperato che creduto, la pratica religiosa manifesta tutta la sua stanchezza. Tuttavia il sentimento religioso resta vivace nella nazione, pur in un’epoca in cui molti si rifugiano in un cattolicesimo «culturale» a difesa dei valori della tradizione. La perdita di centralità della chiesa cattolica nelle vite di tutti i giorni convive di fatto con una nuova religiosità al plurale: una fede impersonata da credenti sempre più deboli o «soli» dinanzi alle questioni dell’esistenza, che per la prima volta si confrontano con spiritualità diverse, giunte a noi attraverso la rete o le migrazioni.

Una analisi di tale scenario ci è offerta dal sociologo Franco Garelli nel suo libro “Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio” (Il Mulino,2020)

Basato su una aggiornata grande indagine nazionale, il volume restituisce l’immagine di un Paese incerto su Dio ma ricco di sentimenti religiosi, disorientato e ondivago nelle sue valutazioni etiche e morali. Tale indagine, durata un anno e mezzo, è nata dalla necessità di aggiornare i dati presentati nel volume “La religiosità degli italiani” (Milano, Mondadori, 1995). Garelli, allievo del grande laico Luciano Gallino, è stato a lungo professore ordinario di Religioni nel Mondo Globalizzato e Sociologia della religione e poi dal 2004 al 2015 preside della facoltà di Scienze Politiche nella Università di Torino. La ricerca posta a base del libro è stata talmente dettagliata che la Cei ha deciso di contribuirvi con 100.000 euro, un parziale rimborso ai ricercatori. E’ stato coinvolto un ampio campione nazionale (più di 3.200 casi), rappresentativo della popolazione di età compresa tra i 18 e gli 80 anni. Un campione dal punto di vista statistico di valore elevatissimo. Inoltre i dati empirici sono stati integrati con le indicazioni provenienti da 164 interviste libere in tutta Italia e a persone di diverse età, culture, possibilità economiche.

Un accenno ad alcuni numeri citati da Garelli: 75 cittadini su 100 credono nell’ esistenza di un «Essere superiore», prima erano 82; solo 65 pensano che la religione aiuti a trovare il senso profondo della vita, prima erano 80; solo 22 non mancano mai alla messa domenicale, prima erano 30. E poi 38 sono dubbiosi, prima erano 30; 23 ritengono che la fede riguardi le persone più ingenue e sprovvedute, prima erano 5; 76 si dichiarano cattolici, prima erano 88; 30 si ritengono attivi nell’ apostolato, prima erano 41. Negli ultimi 25 anni i non credenti sono cresciuti del 30%, mentre le altre fedi sono passate dal 2 all’ 8%. Fra i 18 e i 34 anni si riscontra la quota più alta, dal 35 al 40%, di coloro che si dichiarano senza Dio, senza preghiera, senza culto, senza vita spirituale. La preghiera assidua, che un tempo coinvolgeva il 60% della popolazione, oggi riguarda il 40%. Il 46% degli intervistati è contrario all’8 per mille alla Chiesa cattolica. I matrimoni con rito religioso a partire dal 2018 risultano meno di quelli celebrati in Comune. Sono circa il 50%, mentre negli anni Novanta erano l’ 80%. Il 20% degli italiani nega la liceità morale dell’ aborto in qualsiasi caso. L’ 83% lo accetta se vi sono gravi rischi per la salute della madre, il 78% se sussistono probabilità di malformazioni, il 70% se la gravidanza è conseguenza di uno stupro. Il diritto all’ obiezione di coscienza del personale medico, riconosciuto dal 59% dieci anni fa, ora è ammesso solo dal 36%. Il 63% è favorevole all’ eutanasia. Una percentuale raddoppiata e assai vistosa, considerato che 76 su 100 si dichiarano cattolici. Peraltro in una intervista ad Avvenire (vedi) Garelli osserva che «Al tempo del Covid cresce il bisogno di Dio».

Come osserva La Civiltà Cattolica, dal lavoro di sondaggio sulla religiosità degli italiani nell’ultimo ventennio emerge chiaramente il «pluralismo religioso» che caratterizza il panorama del nostro Paese, e quanto l’Italia si stia diversificando dal punto di vista religioso. Un riferimento importante – per la rivista- è anche l’opera “I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo” (Bologna, Emi, 2017) di Peter L. Berger, per il quale «il pluralismo è la sfida di gran lunga maggiore per tutte le tradizioni e le comunità religiose del nostro tempo». Berger infatti sostiene che è necessario un nuovo paradigma rispetto a quello della secolarizzazione: «Un nuovo pluralismo deve essere capace di affrontare due pluralismi: la coesistenza di diverse religioni e la coesistenza di discorsi religiosi e discorsi secolari. Tale coesistenza ha luogo sia nelle menti degli individui sia nello spazio sociale» (p. 9). Un capitolo è dedicato alle nuove forme di spiritualità di cui si parla molto nelle società occidentali «per indicare una ricerca del sacro fuori dai luoghi convenzionali della religione» (p. 165).

Osservo che papa Francesco più volte ha ricordato che «non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata»[21 dicembre 2019].

Rimandando ai citati libri per i dati e le riflessioni sommariamente indicate sulla decritta situazione di crisi non posso non ricordare un discorso di papa Francesco alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi (vedi) .

Francesco ha voluto evidenziare il significato e l’importanza dell’essere in crisi. Ha riconosciuto innanzitutto che «la crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione». Dunque, è una esperienza umana fondamentale ed è «una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale». Non la si può evitare, e i suoi effetti sono sempre «un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare». Francesco ricorda la Bibbia, che è popolata di «personaggi in crisi», i quali però – come anche commenta La Civiltà Cattolica (vedi) – proprio attraverso di essa compiono la storia della salvezza: Abramo, Mosè, Elia, Giovanni Battista, Paolo di Tarso e lo stesso Gesù, in particolare durante le tentazioni e poi nell’«indescrivibile crisi nel Getsemani: solitudine, paura, angoscia, il tradimento di Giuda e l’abbandono degli Apostoli», fino alla «crisi estrema sulla croce».

E questo perché? Perché «Dio continua a far crescere i semi del suo Regno in mezzo a noi». Allora chi guarda alla crisi senza farlo alla luce del Vangelo «si limita a fare l’autopsia di un cadavere». Il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, e il Vangelo stesso mette in crisi. Perciò, «davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento», a ben vedere si comprende «che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio».

Francesco definisce la Chiesa come un «Corpo perennemente in crisi», dove la novità «germoglia dal vecchio e lo rende sempre fecondo» senza contrapporsi a esso.

Ma per Il Papa «Difendendoci dalla crisi, noi ostacoliamo l’opera della Grazia di Dio che vuole manifestarsi in noi e attraverso di noi. Perciò, se un certo realismo ci mostra la nostra storia recente solo come la somma di tentativi non sempre riusciti, di scandali, di cadute, di peccati, di contraddizioni, di cortocircuiti nella testimonianza, non dobbiamo spaventarci, e neppure dobbiamo negare l’evidenza di tutto quello che in noi e nelle nostre comunità è intaccato dalla morte e ha bisogno di conversione. Tutto ciò che di male, di contraddittorio, di debole e di fragile si manifesta apertamente ci ricorda con ancora maggior forza la necessità di morire a un modo di essere, di ragionare e di agire che non rispecchia il Vangelo. Solo morendo a una certa mentalità riusciremo anche a fare spazio alla novità che lo Spirito suscita costantemente nel cuore della Chiesa».




Il superamento della giustizia vendicativa e l’inaugurazione del giusto processo nelle tragedie di Eschilo

di Francesco Romano • A chi sia capitato di partecipare ad adunanze, consigli di facoltà o d’istituto, capitoli provinciali o generali di istituti religiosi o ad altro di simile per prendere decisioni collegiali attraverso il voto, si sarà accorto che non di rado la procedura che regola la votazione diventa oggetto di dubbio sul ruolo di colui che presiede, sul tipo di maggioranza da raggiungere e il suo conteggio in caso di numero dispari dei votanti, sulla modalità di espressione del voto da osservare in forma palese o segreta, sulla soluzione in caso di parità e molto altro di più.

A proposito di parità raggiunta in una votazione collegiale e sulla prerogativa che spetta a colui che presiede il collegium di dirimerla con il proprio voto, che va sotto il nome di calcolus Minervae, torna alla memoria la terza tragedia di Eschilo, le Eumenidi, l’unica della trilogia di cui si compone l’Orestea che ci è pervenuta e di cui facevano parte anche l’Agamennone e le Coefore. Il calcolus era il voto espresso mediante una pietra gettata, mentre Minerva è l’omologa latina della dea greca Pallade Atena figlia di Zeus, nata già adulta dalla sua testa, tra le figure protagoniste della tragedia di Eschilo.

L’Orestea è la narrazione tragica degli omicidi perpetrati nella casa degli Atridi, ma al tempo stesso, per il nostro interesse, del progresso della civiltà giuridica passando da una giustizia solo vendicativa alla pena irrogata dopo il giusto processo celebrato in tribunale.

Al centro della carneficina familiare vi sono Ifigenia, figlia di Agamennone da lui presentata alla dea Artemide per essere sacrificata; Clitennestra che, complice Egisto suo amante e usurpatore del trono, fa uccidere il marito Agamennone per vendicare il sacrificio della figlia; Oreste che, con l’aiuto del fedele Pilade, uccide la madre Clitennestra ed Egisto per vendicare l’uccisione di suo padre Agamennone.

L’ordine divino è stato stravolto da Oreste non tanto per l’uccisione di Egisto, ma per il matricidio, la violazione della sacra legge del “ghenos”, il vincolo tribale tra generazioni, che non tollera l’uccisione di un consanguineo e viene regolata con la sanguinaria vendetta privata.

La condanna per Oreste è di veder trascinare la sua esistenza “in un gorgo di atroci tormenti” come dirà Eschilo. Di questa giustizia vendicativa “garanti” sono le Erinni, mostruose divinità femminili, ancestrali portatrici dello spirito dell’uomo ucciso che insegue il reo sotto forma di serpente bramoso di vendetta, o in altro modo. Queste divinità legate a culti primitivi scatenano la loro ira quando viene commesso un delitto.

Oreste vaga di paese in paese mentre viene braccato dalle Erinni con visioni terrificanti senza riuscire a sottrarsi alla loro insaziabile vendetta.

Consultata Pizia, la sacerdotessa dell’oracolo di Apollo, Oreste si rivolge ad Atena per chiederle di giudicare il suo delitto e di liberarlo dalla persecuzione dei demoni materni in caso di giudizio favorevole. Atena interrompe la catena di vendette, ma di rilievo a questo punto è il tramonto della giustizia vendicativa attraverso la fondazione del tribunale dell’Areopago, il nuovo ordine fondato “su un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre”, come dirà Atena (Eumenidi, v. 484).

Troppo gravoso per Atena districarsi fra le due ragioni che hanno condotto Oreste al terribile delitto, il matricidio commesso per vendicare l’uccisione del padre Agamennone perpetrata dalla moglie Clitennestra con la complicità di Egisto suo drudo.

Atena si rifiuta di sostituirsi alle Erinni nel giudizio, ma anche di giudicare da sola un delitto così grave e complesso per come è stato commesso: “La questione è troppo grande, se un mortale pensa di giudicarla; ma neanche a me è lecito giudicare una causa di omicidio che suscita acute ire vendicatrici” (Eumenidi, v. 471).

Il rifiuto di Atena spiana la strada a un cambiamento di rotta dando impulso a un significativo passo per la crescita della civiltà giuridica. Il rifiuto di Atena non è negazione della giustizia, ma introduzione di una nuova forma di giudizio: “sceglierò comunque nella città persone irreprensibili, giudici dell’omicidio che abbiano rispetto dei giuramenti e creerò un istituto che rimarrà per sempre. Voi intanto presentate testimonianze e prove, giuramenti che aiutano la giustizia” (Eumenidi, vv. 480-485).

Atena interrompe la catena della vendetta e istituisce il tribunale degli uomini secondo la struttura dell’Areopago composta da un collegio di dodici giurati, scelti tra i migliori cittadini, presieduto dalla stessa dea della Sapienza.

Atena fornisce le cognizioni del processo: l’Areopago il luogo sacro della celebrazione del processo, l’accusa pubblica sostenuta dalle Erinni mosse dal furore di vendetta, Apollo il difensore dell’imputato Oreste, il collegio di giudici presieduto da Atena. Nasce il processo sul modello tipicamente accusatorio, molto differente da quello inquisitorio che invece si affermerà alla fine dell’impero romano e diventerà anche il modello processuale tipico dell’ordinamento canonico.

La giustizia vendicativa perseguita dalle Erinni è soppiantata dal processo davanti al tribunale, cioè il contraddittorio, il ragionamento, la forza della parola argomentatrice, l’esame delle circostanze che portano alla formazione della prova processuale. La forza della ragione personificata dalla dea Atena prevale sul cieco e spasmodico istinto di vendetta di cui sono espressione le Erinni, creature nauseabonde: “Davanti a quest’uomo una strana schiera di donne dorme sopra i sedili. No! non donne voglio dire, ma Gorgoni: no! neanche alla figura delle Gorgoni le posso assomigliare […] sono senz’ali a vedersi queste e nere, completamente nauseanti, russano con aliti che non si possono avvicinare e dagli occhi versano lacrime sgradevoli” (Eumenidi, vv. 48-54).

Il processo non è vendetta, ma azione guidata dalla ragione, azione dialogica che si intreccia tra l’accusa delle Erinni, la difesa di Apollo e il collegio giudicante presieduto da Atena, espressione del logos. Con le Eumenidi Eschilo ci introduce nel giusto processo in cui le parti sono poste in condizione di parità nel contraddittorio secondo il principio “audiatur et altera pars”. La “parola” passa dall’accusa mossa dalle Erinni: “è vostra la parola, dichiaro aperto il dibattito. L’accusatore parlando per primo fin dal principio può spiegare con esattezza il fatto” (Eumenidi, vv. 582-584), all’arringa difensiva pronunciata da Apollo cui viene premessa l’ammonizione di Atena. “bada a come difendi costui perché scampi alla condanna” (Eumenidi, v. 625).

La parola pronunciata dalle parti e dal collegio è ascoltata e accolta dal giudice che in questa attività fa sì che l’ascolto e la giustizia operino la fondamentale funzione realizzata attraverso una nuova forma di giudizio lasciandosi alle spalle la furiosa giustizia vendicatrice delle Erinni.

È significativo che sia proprio Atena, la dea della Ragione e non la dea della Giustizia a inaugurare questo nuovo “istituto di giustizia”. Compito del giudice è infatti di decidere rendendo appunto ragione attraverso argomentazioni logiche e convincenti. Il giudizio non è più prerogativa esclusiva di una dea o di più divinità, bensì, come dichiara Atena, “sceglierò comunque nella città persone irreprensibili, giudici dell’omicidio che abbiano rispetto dei giuramenti e creerò un istituto che rimarrà per sempre” (Eumenidi, v. 482). Atena inaugura il processo istituendo un tribunale collegiale di uomini scelti presieduto da lei, la dea della Regione, come a voler significare che compito del giudice è rendere ragione, ma anche che la funzione del giudicare è la più alta tra le attività umane che più si avvicina a quella divina. La sentenza emessa da “uomini irreprensibili”, guidati dalla dea della Ragione viene avvolta da un alone di sacralità per la profondità del giudizio e il destino dell’uomo messo sotto accusa riposto nelle loro mani.

Il collegio giudicante raggiunge la parità di voto, ma sarà Atena che lo presiede a dirimerla con il suo voto favorevole. La prerogativa di tradurre in maggioranza la parità raggiunta nella votazione collegiale viene inaugurata in questo processo narrato da Eschilo e verrà conosciuta nel diritto romano imperiale sotto il nome di calcolus Minervae. Ancora oggi nel Codice di Diritto Canonico la prerogativa di dirimere la parità da parte di colui che presiede il collegium, “praeses suo voto paritatem dirimere potest”, la troviamo sancita al can. 119, 2°.

Le Erinni, creature ancestrali furiose e assetate di vendetta, non perdono la loro cieca inclinazione, ma trovano nel processo il ruolo di pubblica accusa, mentre il loro nome viene significativamente mutato in “Eumenidi” di cui il prefisso greco “eu” contrasta con la loro natura. La loro visione del diritto e della giustizia considera la violazione della legge umana come infrazione di una legge fisica che arriva perfino ad alterare l’ordine cosmico.

Il processo codificato da Atena dona agli Ateniesi un nuovo ordine alla polis e alla comunità introducendo nel processo una dialettica alla quale le stesse Erinni/Eumenidi sono obbligate ad allinearsi abbandonando il linguaggio del furore e della maledizione bramosa di vendetta giustizialista.

Le Erinni constatano il fatto oggettivo commesso e la legge violata che fa loro gridare vendetta, sono solo capaci di condannare, non di assolvere, di non riuscire a vedere l’innocenza oltre il fatto oggettivo commesso, perché non sono capaci di giudizio, di esprimere il logos, di dare forza alla parola, di contesa dialettica, di ragionamenti argomentativi. Rimangono ferme nella loro prerogativa di accusatrici in modo irremovibile e cieco anche di fronte a evidenti circostanze attenuanti se non addirittura esimenti.

Di fronte all’oggettività del duplice delitto commesso neppure Oreste può negare l’evidenza che lo porta a doversi sottrarre al giuramento di innocenza per non incorrere nella punizione divina dovuta allo spergiuro. La spaccatura del collegio giudicante è netta, il risultato della votazione è pari tra coloro che riconoscono l’innocenza e coloro che lo reputano colpevole. Prevarrà la difesa di Apollo che non nega i fatti, ma spinge a comprendere le ragioni dell’accusato (Eumenidi, vv. 614-621). Il voto, il calcolus gettato da Atena, fa pendere l’ago della bilancia determinando il verdetto assolutorio di Oreste nonostante il delitto di cui si è macchiato. Il voto di Atena esprime ciò che lei è e rappresenta, innalzando il giudizio suffragato da una conoscenza più alta, la ragione. Atena con il suo voto dirime la parità e fa entrare nel processo il logos, la ragione, la forza argomentativa della dialettica. Si impongono e prevalgono le ragioni dell’accusato per il tradimento e l’uccisione del padre Agamennone commesso dalla moglie Clitennestra e l’istigazione di Apollo che aveva indotto Oreste a compiere la vendetta matricida fornendo poi nella difesa una lettura a lui favorevole dei fatti che gli sono addebitati.

La finalità dell’Orestea, in particolare delle Eumenidi, non è quella di dichiarare la non colpevolezza di Oreste, ma di vedere affermato un nuovo ordine che mette al centro la polis e il ruolo dell’Areopago, la nuova giustizia che diventa esperienza collettiva e non espressione monocratica di una divinità per quanto elevata come lo era Atena, il “giusto” processo dove le parti hanno diritto di essere ascoltate, la parola che argomenta e che realizza la verità processuale.

Questo è il processo con tutti i limiti e le virtù che Atena dona alla polis come strumento di salvezza. L’azione vendicativa delle Erinni viene domata e circoscritta nel processo in una presenza che ora diventa collaborativa e congruente con la sua economia quale confronto dialogico tra accusa e difesa.




«L’uno e l’altro fòro». Il duplice foro giuridico della Chiesa

di Andrea Drigani · Dante nel Canto X del Paradiso incontra, tra gli altri, il monaco Giovanni Graziano, autore di una grande collezione di canoni conciliari e di decretali papali, e dice: «Quell’altro fiammeggiar esce dal riso di Grazian, che l’uno e l’alto fòro aiutò sì che piace in paradiso» (vv.103-105). Alcuni commentatori della Divina Commedia hanno visto il riferimento al foro ecclesiastico e al foro civile, mentre altri in maniera più appropriata hanno inteso il duplice foro della Chiesa, cioè il foro esterno (forum iudici) e il foro interno (forum conscientiae).

La parola forum in latino significa piazza e nel diritto romano, assunse anche il significato di luogo dove si compivano i negozi giuridici e si esercitava la giurisdizione. Pure nel diritto della Chiesa si usò il termine foro per indicare il luogo dei giudizi, ma in due modi, quello pubblico dei tribunali ecclesiastici, e quello segreto inerente il perdono dei peccati. Nel periodo post-tridentino si specificherà meglio la distinzione, nella medesima potestà della Chiesa, tra il foro esterno e il foro interno.

Gli ordinamenti civili non possono accogliere o prendere in considerazione l’esistenza di un foro interno; come potrebbe esserci una piazza, cioè una giurisdizione, segreta, nascosta e sconosciuta? L’antico adagio latino de internis non iudicat praetor, nel diritto canonico deve essere accompagnata dal de internis iudicat Deus. La Chiesa, infatti, è ad un tempo istituzionale e carismatica, visibile e invisibile, terrestre e in possesso dei beni celesti, umana e divina. E’ pertanto, come si suol dire, una societas generis sui. Non può perciò interessarsi soltanto di quello che accade in pubblico, cioè in piazza, ma anche di quello che succede nel segreto dell’anima.

Il Codice latino del 1983 e il Codice orientale del 1990, rispettivamente al can.130 e al can.980, affermano che la potestà ecclesiastica di governo (cioè il potere pubblico della Chiesa di dirigere autoritativamente i fedeli del popolo di Dio verso il fine soprannaturale ad esso proprio, per volontà di Cristo, suo fondatore) può essere esercitata sia nel foro esterno che nel foro interno. La potestas regiminis Ecclesiae è, dunque, unica, ma il suo esercizio avviene in due maniere. Se la potestà è esercitata pubblicamente con la promulgazione di una legge o con un atto giuridico conoscibile dalla comunità, siamo nel foro esterno, mentre se la potestà viene esercitata segretamente e un atto è posto senza fornire prove alla comunità, siamo nel foro interno.

L’eventuale conflitto tra foro esterno e foro interno non è un conflitto tra coscienza e diritto, bensì tra due norme canoniche, delle quale una rimane occulta e quindi ignorata dalla comunità, mentre l’altra è pubblica. Viene in mente la fattispecie illustrata dal cardinale Pietro Gasparri (1852-1934) nel suo trattato De matrimonio, pubblicato nel 1932, e successivamente ripresa da altri canonisti. Il cardinale Gasparri osservava di due coniugi, di cui uno legato ad un precedente matrimonio, nel caso che il primo matrimonio fosse ignorato da tutti coloro che abitavano nel luogo e, certamente a giudizio dell’Ordinario, fosse nullo, i coniugi del secondo matrimonio, in foro interno, non erano da inquietare (non esse inquietandos). E’ possibile la circostanza che un vincolo matrimoniale, ancorchè non dichiarato giudizialmente, sia nullo, e dunque, nel foro interno, il soggetto non è più legato e in presenza di nuovo vincolo potrebbe accostarsi ai sacramenti, tuttavia in una chiesa dove non è assolutamente conosciuto per non creare scandalo; perché se non si è in grado di fornire le prove legittime dell’invalidità del vincolo, non si può pretendere che la comunità riconosca la situazione nascosta e inverificabile del soggetto. D’altronde per la salvezza dell’anima è più importante ricevere la Comunione che farsi vedere di ricevere la Comunione.

Il foro interno (anticamente denominato, come si è visto, forum conscientiae) si caratterizza per la sua segretezza, ne è prova il can. 1388 § 1 il quale stabilisce che il confessore che viola direttamente il sigillo sacramentale incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica. Nulla è previsto per le eventuali dichiarazioni pubbliche del penitente sulla personale celebrazione del sacramento della Penitenza. Ritengo, però, che se non si può stricto iure parlare di segretezza da parte del penitente, vi sia almeno riservatezza. Le esternazioni del penitente circa le conclusioni della confessione, infatti, non sono provabili e possono, inoltre, generare confusione e pericolosi equivoci all’interno del popolo di Dio, rischiando di inficiare la distinzione tra foro esterno (pubblico) e foro interno (segreto).

Il verso di Dante, citato all’inizio, rettamente inteso, possiamo leggerlo come un preludio al 2° principio, approvato nel 1967, che ha guidato la redazione del Codex che invitava un coordinamento (coordinatio) tra foro esterno e foro interno, che è proprio della Chiesa e che da secoli ha vigore.