Ottorino Orlandini: una vita per la giustizia e la libertà

di Giovanni Pallanti · Chi era Ottorino Orlandini? Nato nel 1896 a Lorenzana, nella campagna pisana, pochi mesi dopo si trasferì a Mosciano, oggi comune di Scandicci. Fino al 1971, anno della sua morte, si è battuto ininterrottamente per la giustizia e la libertà. Il Comune di Scandicci, il 7 novembre 2021, al Castello dell’Acciaiolo, presenta la sua biografia scritta da Mauro Bagni, con il sindaco Sandro Fallani, il professor Zeffiro Ciuffoletti, Antonella Coli, Renato Romei, Giuseppe Matulli, presidente dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e l’assessore Claudia Sereni. Ottorino Orlandini ha avuto una vita straordinariamente avventurosa. Figlio di poveri contadini, studiò nel seminario della Calza, vicino a Porta Romana. Dopo sette anni prese la maturità classica e andò volontario in guerra nel 1916, come sottotenente. Furono, infatti, diversi i cattolici interventisti democratici del primo conflitto mondiale, tra cui don Luigi Sturzo e Giovanni Gronchi, che divenne amico per tutta la vita di Ottorino.
Nel primo dopoguerra, iscritto al Partito popolare italiano, Orlandini fu a capo delle leghe bianche dei contadini del Mugello e guidò la protesta contro la contessa Marianna Cambray Digny proprietaria di Villa Schifanoia e di una grande fattoria estesa fra Scarperia e San Piero a Sieve. Perseguitato dai fascisti nel 1926, espatriò in Francia. Nel 1936 si schierò con la Repubblica spagnola contro il generale Franco e combatté nella Guerra civile nel battaglione <Garibaldi>, comandato dal repubblicano Randolfo Pacciardi. E qui c’è il colpo di scena: gli anarchici e i comunisti che combattevano per la Repubblica, mal tolleravano la presenza di un cattolico popolare fra le loro fila, e Luigi Longo, con il capo comunista francese Marty, ordinarono l’uccisione di Orlandini, che si salvò in modo rocambolesco grazie all’intervento del servizio segreto dell’esercito regolare repubblicano. Rientrato in Italia, prese parte alla Resistenza e fu arrestato e torturato a Villa Triste, in via Bolognese, dalla banda Carità. Amico di Carlo Rosselli, in Spagna aderì a Giustizia e Libertà. Nel 1946 entrò nella Democrazia cristiana, di cui fu dirigente e consigliere comunale di Scandicci. Bagni, ha scritto un libro su Orlandini (pubblicato da Centrolibro) di straordinaria importanza storica. La figura di Orlandini sollecita tre specificazioni importanti sulla vicenda dei cattolici italiani nel Novecento, primo: dopo la presa di Roma da parte del Regno d’Italia, il Papa Pio IX dichiarò il popolo cattolico fuori dalla politica dello Stato italiano. I cattolici non potevano nè votare per il Parlamento, nè essere eletti. Nei primi anni del Novecento, molti giovani cattolici, preti e laici, decisero di contestare il non expedit. Una delle occasioni che videro i giovani cattolici italiani contestare la politica vaticana fu l’ingresso in guerra nel 1915. Aderirono all’interventismo democratico tra gli altri Don Luigi Sturzo, Giuseppe Donati, Don Giulio Facibeni, Don Primo Mazzolari, Don Giovanni Minzoni, Padre Giovanni Semeria, Giovanni Gronchi e Ottorino Orlandini. Molti di questi furono decorati al valor militare e la loro partecipazione alla guerra fu concepita come guerra di indipendenza nazionale. I cattolici in questo modo rientrarono nella storia unitaria dell’Italia. Secondo: la storia di Ottorino Orlandini smaschera il settarismo anarchico e comunista nella guerra civile spagnola che fu all’origine della sconfitta inflitta alla Repubblica dal Generalissimo Franco. I comunisti non sopportavano che i capi della lotta antifascista fossero appartenenti a partiti diversi dal loro. L’amicizia di Orlandini con Carlo Rosselli è la prova che molti uomini liberi si ritrovarono negli ideali di Giustizia e Libertà. Terzo: il Comune di Scandicci guidato attualmente da una Giunta di sinistra  e dal 1946 roccaforte del partito comunista, ritrovandosi intorno alla biorafia di Ottorino Orlandini scritta da Mauro Bagni, compie un atto di grande rottura perchè, Bagni racconta che Luigi Longo, comandante delle brigate internazionali in Spagna, aveva ordinato l’uccisione di Orlandini come sabotatore e spia del Vaticano. Ovviamente un’accusa falsa, come è dimostrato dall’intera vita di Orlandini.




«I governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono» 

di Stefano Tarocchi · Sulla strada per Gerusalemme, dopo il terzo annuncio della passione, due dei Dodici, Giacomo e Giovanni, chiedono a Gesù di avere «nella sua gloria» un posto alla destra e uno alla sinistra. Dopo aver replicato prospettando il suo stesso calice e il suo battesimo – ossia la croce –, Gesù pronuncia queste parole: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,42). 

Ora, risulta strano che il solo Marco, definisce i detentori del potere come «coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni». Evidentemente qui è in discussione il senso stesso del potere, che il testo greco del Vangelo rende con l’idea di un dominio che si impone dall’alto, così da schiacciare e opprimere. Ma da dove l’evangelista trae questa immagine?

Sembra strano a diversi interpreti che nel testo di Marco (e anche di Matteo) solo i re e i governanti delle nazioni pagane, ma non esplicitamente quelli ebrei, siano identificati come oppressori, a dispetto del fatto che anche questi ultimi negli ultimi due secoli a.C. e nel primo secolo d.C. erano spesso sfruttatori e corrotti come le loro controparti pagane.

Per spiegare l’enigma si fa ricorso ad un testo in particolare della letteratura apocalittica giudaica, la grandiosa visione del capitolo 7 del libro di Daniele, poi ripresa nel libro dell’Apocalisse (Ap 13). In sostanza si legge: «quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mare Grande e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare (Dan 7,2-3)». È ciò che prelude alla visione del «figlio d’uomo» (Dan 7,13).

Ora, a Daniele viene data l’interpretazione di quanto ha veduto: «le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra» (Dan 7,17). Il che è come dire che i governanti terreni non regnano realmente, ma solo sembrano esserlo. Dietro di loro, infatti, o si trovano forze angeliche e demoniache. Ma è in definitiva Dio a domina sulle vicende umane.

Anche nell’apocrifo quarto libro dei Maccabei, che è da collocare a cavallo fra il l secolo e il II all’interno della Bibbia greca, troviamo un’immagine altrettanto significativa: «non temiamo colui che pensa di ucciderci» (4 Mac 13,14).

Quest’ultimo testo sembra riprendere il detto evangelico riportato dal Vangelo di Luca: «non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla. Vi mostrerò invece di chi dovete aver paura: temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geènna» (Lc 12,4-5).

Ma se il rischio del dominio appartiene al potere civile, esso può attraversare anche i tratti dell’azione pastorale. E questo con modalità ancora più sottili. È così che la prima lettera di Pietro scrive: «Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge (1 Pt 5,1-3).  

Anche Paolo aveva capito tutto questo quando scrive ai cristiani di Corinto: «noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi» (2 Cor 1,24). 

È il vocabolario stesso che viene impiegato, sia nel vangelo che negli altri scritti, a darcene conferma: quando l’autorità perde il suo ruolo originale e diventa oppressione e dominio senza scrupoli di alcun genere, allora questa è lontana totalmente dal Vangelo, che si muove su altre dimensioni: «tra voi non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,43-45). 




«Camminare insieme» per una Chiesa dal volto nuovo

di Antonio Lovascio · La Chiesa, dopo questa interminabile pandemia, ha bisogno di ripensare se stessa, per mettere in pratica quello che manca ancora all’attuazione del Concilio Vaticano II. Una sfida epocale di cambiamento quella che ha lanciato Papa Francesco. Una mobilitazione universale. Si è partiti dal basso, in tutte le Diocesi del mondo, per un percorso in successive fasi che durerà fino al Giubileo del 2025, che in Italia farà andare a braccetto il Sinodo dei Vescovi (ottobre 2023) ed il Cammino sinodale nazionale promosso dalla Cei. In pratica tre Cammini in uno, perché alcune Comunità locali (tra queste l’Arcidiocesi di Firenze, partita nell’aprile del 2017 raccogliendo il vibrante, storico appello pronunciato dal Pontefice nel novembre 2015 nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore) riprendono l’esperienza di “Chiesa in uscita” interrotta a causa del lockdown.

Con la semplicità di un antico maestro, Bergoglio – invitando a non sprecare questa opportunità e sollecitando a “camminare insieme” ed a mettersi “in ascolto” in particolare dei più fragili e lontani, di coloro che sono scartati ed emarginati – ha indicato tre parole chiave: “comunione, partecipazione, missione”. Parole spesso ricorrenti nel suo Magistero, che riconducono ad un unico filo conduttore: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”. L’itinerario avrà dunque al centro un “trinomio”: Vangelo, fraternità, mondo. L’evangelizzazione è stato il riferimento che ha guidato gli orientamenti Pastorali che, dal Concilio in poi, la Conferenza episcopale italiana ha offerto alle nostre Chiese. Ora – come hanno sottolineato i Vescovi – si tratta di marciare sempre in questa direzione, ma dando una connotazione sinodale all’impegno dei singoli e delle Comunità, tutti protesi all’ascolto ed alla cura delle relazioni.

Sulla sinodalità Papa Francesco è categorico, non fa sconti: <Non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o strumentalizzare nei nostri incontri. No! La sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione. E quindi parliamo di Chiesa sinodale, evitando, però, di considerare che sia un titolo tra altri, un modo di pensarla che preveda alternative. Non lo dico sulla base di un’opinione teologica, neanche come un pensiero personale, ma seguendo quello che possiamo considerare il primo e il più importante “manuale” di ecclesiologia, che è il libro degli Atti degli Apostoli>.

La ricca documentazione fornita dalla Cei precisa che la prima tappa (2021-22), “dal basso”, si integrerà con la prima fase del processo sinodale del Sinodo dei vescovi e vedrà protagoniste diocesi, parrocchie, associazioni, famiglie religiose. Questo percorso denominato “narrativo” durerà due anni: nel primo (2021-22) saranno formulate le proposte per la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Nel secondo anno (2022-23) si terrà la consultazione del Popolo di Dio su alcune priorità individuate dall’Assemblea Generale Cei prevista per il maggio 2022.

La seconda tappa (2023-24) sarà “sapienziale”: utile insomma per una lettura spirituale delle narrazioni emerse nel biennio precedente. Impegnerà soprattutto i vescovi, gli operatori pastorali, le Conferenze episcopali regionali, ma anche le facoltà e gli istituti teologici, l’Università Cattolica e la Lumsa, le realtà culturali presenti nel Paese. La terza e ultima tappa avrà come orizzonte il Giubileo del 2025, con l’obiettivo di tenere una grande assemblea nazionale. In questo convenire “profetico” verranno assunte alcune scelte evangeliche, che le nostre Chiese saranno chiamate a riconsegnare al popolo di Dio, incarnandole nella vita delle comunità nella seconda parte del decennio (2025-30).

Nel dialogo con il mondo dovranno trovare risposta gli interrogativi che oggi vengono posti alla Chiesa nella sua missione. Uno è fondamentale e campeggia nel Documento preparatorio al Sinodo dei Vescovi. Come si realizza oggi, a diversi livelli (da quello locale a quello universale) quel “camminare insieme” che permette alla Chiesa di annunciare il Vangelo, conformemente alla missione che le è stata affidata? E quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere come Chiesa sinodale? E la prima traccia di riflessione e di lavoro che daranno le “equipes” elettive, incaricate nelle varie Diocesi di guidare il lavoro degli Animatori, che, secondo le raccomandazioni della Cei, “dovranno favorire la costituzione di gruppi sinodali non solo nelle strutture ecclesiali e negli organismi di partecipazione (consigli presbiterali e pastorali) ma anche nelle case, negli ambienti di ritrovo, lavoro, formazione, cura, assistenza, recupero, cultura e comunicazione”. Attenzione verso tutte le persone, “perché lo Spirito opera anche in coloro che noi riterremmo lontani e distratti, indifferenti e persino ostili”. Imparando l’uno dall’altro, proprio attraverso l’ascolto e la vicinanza, sarà possibile risuscitare un’alba di speranza.




Andare da Elia a catechismo. Una lettera pastorale di Dalla Costa

di Francesco Vermigli · Ad un lettore del solo titolo dell’articolo parrà cosa da antiquariato catechistico tornare ad una vecchia lettera pastorale, che il cardinale arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa inviò alla diocesi in data 20 gennaio 1937, in vista dell’imminente Quaresima. Mi riferisco a quella lettera che va sotto il titolo di Andiamo agli uomini. Certo, sembrerebbe aver tutto il diritto di sorprendersi per la nostra scelta di affidarci ad un testo vecchio di quasi 90 anni per parlare di catechesi, se egli guardasse anche solo allo stile in cui tale testo è redatto, il linguaggio che viene utilizzato, il tono vibrante che scuote la pagina. Non sono stili, né linguaggi, né toni a cui la Chiesa di oggi sia più avvezza. Dunque, cosa mai potrebbe dire alla nostra epoca e alla nostra Chiesa un testo come questo?

Eppure, si sbaglierebbe chi si fermasse al solo riferimento ad un intervento forte e chiarificatore di una figura veneranda come quella di colui che è “giusto tra le nazioni” e di cui si è intrapreso il processo di beatificazione. Perché il contenuto e ancor prima l’obbiettivo a cui mira quel testo così accorato e deciso, possono essere di insegnamento e di stimolo per la catechesi di oggi.

Innanzitutto, volgiamo il nostro sguardo al contesto ecclesiale e storico a cui si indirizza la lettera, e conseguentemente all’obbiettivo a cui essa mira. Non vogliamo entrare nelle questioni sociologiche (di eziologia storica più precisamente) che hanno attratto negli ultimi decenni il nostro mondo ecclesiale: quei dibattiti cioè dedicati a individuare il momento storico in cui si possa dire terminata l’epoca della Cristianità in Italia (il Dopoguerra? il ’68 delle cosiddette liberazioni? gli anni ’80 e ’90, sazi e disperati per dirla con il cardinal Biffi?). Ma il quadro che viene tratteggiato dal Dalla Costa in quell’anno 1937 (anno ancora distante, almeno nella percezione che se ne aveva, dalla catastrofe della guerra) è impietoso. E non basterà dire che il tono è quello di un “quaresimale” camuffato nella forma di una lettera pastorale. La situazione che viene presentata è quello di una lontananza in alcuni casi pressoché totale del mondo dalla fede e dalla dottrina cristiane. Donde l’invito appassionato di “andare agli uomini”, come si legge nel titolo della lettera pastorale. Perché erano quegli gli uomini – dice Dalla Costa – che avevano bisogno di sentire un’istruzione densa e solida. Erano quegli gli uomini la cui mancanza o almeno la debolezza nella conoscenza della fede conduceva ad una vita morale disordinata e viziosa. Erano però proprio quegli gli uomini, che nella nostra immagine un po’ approssimativa della vita ecclesiale tra le due guerre sarebbero invece dovuti appartenere ad una societas christiana, con tutti i crismi del caso.

Cosa concretamente il cardinal Dalla Costa propone alla sua diocesi per venire incontro alle lande sconsolanti dell’ignoranza religiosa del suo tempo? Propone qualcosa che potrà essere accolto con facilità anche ai nostri tempi, e qualcosa che potrebbe essere apprezzato con maggior difficoltà; ma che, a pensarci bene, non dovrebbe ancora oggi esser meno considerato.

Innanzitutto, un invito ad abbandonare ogni facile devozionalismo, che inganna l’anima e illude l’uomo d’esser religioso e pio. Per combattere questa tendenza che affatica e snerva la coscienza, solo si può passare attraverso una presentazione solida della fede cristiana; attraverso l’invito alla formazione, alla conoscenza della Bibbia e della storia della Chiesa; attraverso la partecipazione consapevole alla liturgia. Sono poi altre le linee percorse dal cardinale: l’invito alla carità operosa, alla testimonianza di vita, alla soggezione all’autorità costituita.

C’è qualcosa che sorprende in tutto questo e che mostra una capacità inattesa di questo testo a parlare al nostro tempo. L’appello, innanzitutto, al tornare agli uomini; che è un appello e un’invocazione che anche la nostra Chiesa sente in questi tempi come un imperativo e un dovere crescente. Il panorama a cui rivolge lo sguardo il cardinale, è quello di gente lontana dalla fede e dalla Chiesa; panorama assai simile a quello che dovrebbe colpire e scuotere anche noi, oggi: «Mentre sfila la processione solennissima, non dimentichiamo che le piazze brulicano di gente, che i bar, i caffè, i cinema, i teatri sono affollati», dice Dalla Costa. Vi è poi l’appello costante, ripetuto con perseveranza a ritornare ad una formazione solida, chiara dei cristiani, di tutti i cristiani, dei genitori, degli adulti più in generale. Chiediamoci: oggi si sente come un’impellenza questa formazione solida e forte? Oppure la catechesi deve volgersi semplicemente a promuovere e ad esortare, senza proporre istruzioni e insegnamenti? Che catechesi abbiamo in testa?

In fondo, questo punto è un punto dirimente. L’intento a cui mira Dalla Costa è quello di un cambiamento di vita, di una trasformazione dello stile del cristiano: per far questo ritiene decisivo e assolutamente necessario che l’uomo sia istruito, sia condotto a conoscere i grandi comandamenti di Gesù, di crescere nella conoscenza della storia della salvezza. Questo è quello che egli propone, e questo è anche quello che interpella la catechesi oggi.




I cambiamenti culturali e generazionali non incidono sull’identità della Chiesa, la cui forma giuridica è segno esteriore della sua vita interna

di Francesco Romano • Il nuovo Israele, costituito in nuovo Popolo di Dio per fondersi in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, nasce dal nuovo patto istituito nel sangue di Cristo. Un tempo non era neppure popolo, ma ora è il Popolo di Dio perché è stato rigenerato di un seme incorruttibile. Questo popolo, che è la Chiesa, è caratterizzato dalla sua stessa origine avendo per capo Cristo, per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, per legge il precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati, per fine il Regno di Dio. La Chiesa, pur apparendo talora piccolo gregge, è stata costituita come sacramento visibile di questa unità salvifica per tutti e per i singoli.

La Chiesa, pertanto, ha origine dalla volontà fondazionale di Cristo. Il popolo messianico, infatti, ha per capo Cristo, ha per legge il precetto di amare, è costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità, e di verità come pure è da Lui assunto per essere strumento di redenzione per tutti (LG, 9). La Chiesa, a differenza delle società naturali, non risponde alle istanze del diritto naturale dei giusnaturalisti. Essa è un’emanazione non della società naturale, bensì della volontà fondazionale di Cristo.

Il Concilio Vaticano II molto diffusamente ha applicato il termine “società” alla Chiesa. Essa è definita società visibile e comunità spirituale (GS 40, 2). La Chiesa nella sua dimensione sociale ha un aspetto istituzionale che le viene dalla sua organizzazione giuridica che struttura la società e la organizza.

Tuttavia, la Chiesa, considerata nella totalità del suo essere realtà sociale, trascende l’aspetto meramente giuridico del suo ordinamento per completarsi ed essere identificata con la componente pneumatica. Essa, sottolinea la Lumen Gentium, insieme alla Chiesa che è “ormai in possesso dei beni celesti, forma una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per una non debole analogia, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato” (LG 8, 1).

La Chiesa, quindi, è una vera società che nasce da un atto di amore di Dio-Cristo, ma non come esigenza della natura sociale degli uomini. Essa persegue il fine che le è proprio, il bene comune soprannaturale, la salus animarum di ogni battezzato nella totalità del suo essere persona nella Chiesa.

Pio XII nell’enciclica Mystici Corporis delinea i tre momenti della fondazione della Chiesa: Cristo con la predicazione cominciò l’istituzione della Chiesa, nel sacrificio della croce la consumò, il giorno di Pentecoste la manifestò (AAS 35 (1943) 204-207).

La Chiesa è visibile nella sua struttura sociale, “l’organismo sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica, per la crescita del corpo” (LG 8 n.1). Divenuti christifideles per il battesimo, i membri della Chiesa entrano a far parte del suo corpo sociale, acquistano lo stato giuridico di cittadino, cioè soggetto di diritti e di doveri.

Illuminanti, a questo proposito, sono le parole di Paolo VI: “Tutti gli elementi istituzionali e giuridici sono sacri e spirituali, perché vivificati dallo Spirito Santo. In realtà lo “Spirito” e il “Diritto” nella loro stessa fonte formano un’unione, in cui l’elemento spirituale è determinante; la Chiesa del “diritto” e la Chiesa della “carità” sono una sola realtà, della cui vita interna è segno esteriore la forma giuridica” (Discorso al Congresso Internazionale di Diritto Canonico in Communicationes 5(1973)126-130)

La visibilità della Chiesa nei suoi elementi esteriori ci interroga sulla sua immutabile identità ontologica. Passano le generazioni di fedeli come pure le situazioni storiche. I cambiamenti culturali e generazionali non incidono sull’identità della Chiesa. Il concetto giuridico di “istituzione” applicato alla Chiesa soddisfa il senso della domanda. Cristo è il capo della Chiesa, la presenza divina e immutabile. L’atto fondazionale della Chiesa è unico ed esclusivo di Cristo. L’ordinamento giuridico che si concretizza nell’organizzazione della Chiesa proviene dal suo Fondatore. La struttura istituzionale è l’oggettivazione dell’atto istituzionale di Cristo; essa garantisce l’immutabilità dell’identità nonostante il succedersi degli individui e delle generazioni.

La società – i fedeli organizzati in corpo sociale – è la forma che la Chiesa assume come istituzione. Essa possiede come nota peculiare di essere transpersonale e di avere una struttura organica, “Questa Chiesa, in questo modo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui” (LG 8 n.2).

La sua struttura societaria è dovuta a vincoli di unione istituzionalizzati che realizzano la comunione ecclesiastica e creano relazioni giuridiche. Si pensi alla partecipazione ai beni salvifici, alla comunione di fede, agli uffici e alle funzioni di insegnare, di santificare e di governare che perpetuano l’opera salvifica di Cristo, all’organizzazione ecclesiastica. Sono questi gli elementi sostanziali immutabili dell’ordinamento giuridico, cioè della Chiesa-istituzione, corrispondenti alla volontà fondazionale di Cristo.

La Chiesa-istituzione riceve dal suo Fondatore un ordinamento giuridico primario e originario. Gli elementi essenziali dell’ordinamento giuridico manifestano permanentemente l’opera salvifica di Cristo, sono costitutivi e connaturati con il progetto fondazionale, rappresentano le coordinate permanenti della Chiesa-istituzione: il popolo adunato dalla Parola, la professione di fede, i sacramenti, i carismi, il culto divino, i “tria munera”, la custodia del deposito rivelato, il governo ecclesiastico. È questo l’ordinamento sostanziale, l’insieme degli elementi costitutivi immutabili voluti da Gesù Cristo quando ha fondato la Chiesa-istituzione.

Vi sono, poi, nella Chiesa-istituzione, elementi variabili che costituiscono l’ordinamento formale, detto anche materiale, cioè la realizzazione storica del popolo di Dio, il modo concreto con cui nel suo divenire si configura all’immutabile volontà di fondazione, la struttura che si attua, l’incarnazione dell’ordinamento sostanziale, l’insieme delle norme e il sistema di rapporti che reggono il corpo sociale. Nella concezione della Chiesa come sacramento, il dono invisibile di Dio – il carisma – si manifesta attraverso il segno visibile dell’istituzione. La Chiesa è nello stesso tempo carismatica e istituzionale. La Chiesa è un’unica realtà di ordine pneumatico e spirituale (cf. PIO XII, encicl. Mystici Corporis, in AAS 35 (1943) 224).

In questo modo il rapporto tra carisma e istituzione viene sottratto a una lettura spesso riduttiva quando i due termini sono presentati in conflitto tra di loro. La Chiesa-istituzione nei suoi elementi essenziali è irriformabile. Può essere riformabile, invece, solo a livello di ordinamento formale. Anzi, è necessario che ciò avvenga perché la Chiesa sia segno sacramentale di salvezza sempre più autentico e fedele alla volontà del suo Fondatore, quel perfezionamento costante della relazione tra la Chiesa del diritto e la Chiesa della carità che sono una sola realtà, della cui vita interna è segno esteriore la forma giuridica.




Le scuole religiose nel mondo mussulmano e il loro ruolo nei conflitti in Asia Centrale e nel terrorismo.

di Carlo Parenti · Negli anni passato ho compito numerosi viaggi in Asia centrale. Ho visitato bene Turkmenistan, Tagikistan, Kirghizistan, Kazakistan, Uzbekistan. I confini geografici dell’Asia centrale sono stati soggetti nel tempo a varie definizioni, anche se l’accezione più diffusa rimane quella che include le cinque citate repubbliche ex-sovietiche, ora indipendenti.

l’’UNESCO definisce invece i confini della regione in base a criteri storico-culturali includendo così anche altri Stati: la Mongolia, la Cina occidentale (incluso il Tibet), il nord-est dell’Iran, l’Afghanistan, parte della Russia e le parti settentrionali di India e Pakistan.

Ho comunque visitato il Pakistan in particolare il suo nord fino al confine con la Cina (e qui non ho potuto entrare nella cinese Regione autonoma Uigura dello Xinjiang), la Mongolia, l’india e il suo settentrione, l’Iran, la Russia in molte sue repubbliche. Ho anche provato a entrare in Afghanistan, ma al Khyber Pass non mi hanno fatto passare. Diciamo che ho “visto” i poverissimi villaggi del lungo confine afgano con il Tagikistan.

Dovunque è fortemente presente l’Islam. Infatti, la religione più diffusa in Asia centrale è l’Islam sunnita, in particolare la scuola Hanafi; gruppi sciiti sono presenti in scarso numero in tutte le repubbliche, in particolare tra la minoranza azera. Il cristianesimo è la seconda religione più diffusa, perlopiù con la Chiesa ortodossa russa. Piccolissime sono le sparse minoranze zoroastriane, ebree -specie bukhariane-, buddiste.

Mi soffermerò qui sulla presenza mussulmana e in particolare sul ruolo delle madrase e l’influenza dell’estremismo religioso nei violenti conflitti della regione e nelle azioni terroristiche. Negli ultimi anni, infatti, si è molto discusso delle connessioni tra estremismo islamico e terrorismo transnazionale. Uno degli elementi più controversi del problema è quello della diffusione del fondamentalismo in una parte delle scuole islamiche. Il fatto che molti leader del terrore, operativi di Al-Qa’ida e talebani, i militanti dell’Isis siano stati istruiti in sistemi scolastici religiosi ha focalizzato su di questi l’attenzione (si veda l’analisi storica di Carlo Centoducati) da cui colgo alcuni spunti e citazioni.

Iniziamo dal ruolo delle madrase: “In linea generale nel mondo musulmano accanto alla scuola pubblica esistono due tipologie di scuole islamiche: le maktab, o scuole coraniche, dedicate all’istruzione religiosa di base, e le madrase, centri di studio avanzato. Le maktab sono scuole di piccole dimensioni, spesso improvvisate, in cui si insegnano la lettura e la recitazione del Corano. Il termine madrasah indica invece istituzioni più organizzate, spesso anche in grado di ospitare gratuitamente gli studenti. Madrasah costituisce senza dubbio il termine più conosciuto in riferimento al sistema di istruzione -solo per i maschi- in vigore nei Paesi islamici. Da sottolineare che non esiste un modello generale di madrasa, infatti, finalità e strutture variano da Paese a Paese. In alcuni Stati, questi organismi sono però fonte di preoccupazione, principalmente a causa di infiltrazioni fondamentaliste”. In Pakistan -il paese più attenzionato sul piano del fondamentalismo e il quinto più popoloso nel mondo, con una popolazione superiore ai 224 milioni di persone – alcune stime riportano più di 45.000 madrase e una percentuale dei frequentanti pari al 33% della popolazione studentesca totale. Altri dati invece riferiscono che le scuole religiose oggi sono circa 35.000 ed accolgono tra i due milioni e mezzo e i tre milioni di studenti. Erano poco più di duecento tali scuole nel momento dell’indipendenza nel ’47. L’assenza di criteri di selezione e di rette scolastiche per gli studenti ha portato le madrase ad accogliere per lo più bambini e giovani studenti provenienti dalle aree rurali del Paese e da famiglie sotto la soglia di povertà o appartenenti alle fasce meno abbienti della popolazione. Le madrase, dunque, svolgono non solo un ruolo formativo ma anche socio-assistenziale nei confronti della popolazione, agendo talvolta come organizzazioni non governative e colmando quelle lacune del sistema di welfare nazionale a cui il governo non riesce a far fronte. A seconda dei fondi a disposizione, infatti, le madrase offrono ai propri studenti vitto e alloggio oltre alla partecipazione ai corsi scolastici. (si veda Francesca Manenti, Il Pakistan alla prova della deradicalizzazione. )

Circa il 97,0% dei pakistani sono musulmani.Circa il 75% di essi sono sunniti ed è presente una corposa minoranza di circa il 25% di sciiti. L’attività politica delle madrase pakistane è notevole. “A preoccupare maggiormente è il dato relativo al gran numero di studenti provenienti da quasi tutte le aree di crisi, dai Balcani alla Cecenia, alle Filippine, alle Repubbliche centroasiatiche, al medio oriente e la tendenza di alcune madrase ad interrompere la propria attività nei periodi in cui le crisi internazionali raggiungono il punto di massima asprezza, che hanno condotto alcune autorevoli istituzioni a temere che gli studenti siano inviati all’estero per combattere la jihad islamica”. L’autoreferenzialità e la forte componente ideologica integralista che caratterizza l’indottrinamento impartito talvolta hanno reso alcuni di questi istituti incubatrici ideali di radicalizzazione.

Nel corso degli ultimi anni si è verificato un cospicuo aumento delle iscrizioni alle madrase, accompagnato da un’ampia opera di espansione infrastrutturale che ha sollevato non poche perplessità. Sebbene vi sia un certo malcontento per la facilità con cui le autorità concedono appezzamenti ed infrastrutture ai leader religiosi, l’attenzione degli analisti va concentrandosi soprattutto sui metodi e sull’entità dei finanziamenti, spesso occulti, destinati alle madrase. In questo contesto, una fonte non trascurabile è costituita dalla filantropia religiosa della sadiqa e della khairat (Donazioni caritatevoli” volontarie), di origine sia estera -proveniente soprattutto dal Golfo Persico e in particolare dall’Arabia Saudita- che interna”.

Per approfondire il tema della devoluzione di ingenti finanziamenti alle scuole religiose con cui facoltosi protettori, interni o esterni al Paese, cercano di sponsorizzare un’interpretazione wahabita o salafita dell’Islam, tipica della Arabia saudita e dei paesi del golfo, si veda : Soldi, madrasa e jihad: il segreto di Pulcinella del Pakistan su Limes.

Negli ultimi 30 anni “il Pakistan è stato il Paese in cui le sette religiose sono state maggiormente strumentalizzate nello scontro politico interno ed internazionale. Come internazionalmente riconosciuto, il fondamentalismo che flagella il Paese è in buona parte il risultato della continua strumentalizzazione degli ulamā nella storia di questo Paese e del mancato riassorbimento dei mujaheddin formati lungo il confine afghano-pakistano ai tempi della jihad antisovietica. In quel particolare momento storico, una radicalizzazione religiosa fu, per varie ragioni, considerata utile e col supporto di altri fattori si rivelò vincente. L’instaurazione del regime talebano in Afghanistan, il peso crescente del fondamentalismo nella politica pakistana, il proliferare di forze antioccidentali che professano l’unità della nazione islamica, l’emergere di organizzazioni criminali e terroristiche attive in ogni dove, costituiscono gli effetti più evidenti non solo della sopravvivenza degli ideali professati dai mujaheddin e di un’offensiva portata ai vecchi partner, ma anche del radicamento degli ex-guerriglieri negli ambienti più influenti di molti Paesi e della loro capacità di produrre consenso”

Venendo alle recenti vicende afgane dobbiamo inoltre ricordare che le scuole dove si impara il Corano, solo per maschi, per la maggioranza delle famiglie sono l’unica via per avere cibo e istruzione. Ora, con i talebani –che letteralmente vuol dire studenti coranici, inizia una nuova era fondamentalista e penalizzante le donne.

Tutto quanto premesso non tutte le madrase, ma solo una minoranza non solo pakistana purtroppo sono incubatrici di un terrorismo internazionale.

Concludo con le parole di papa Francesco pronunciate durante la sua visita nel marzo 2021 a Mosul in Irak e nella zona di Nassiriya, devastate da attentati terroristici: «Dio è misericordioso e l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione»

Nel novembre 2020, Papa Francesco aveva condannato attentati sanguinosi, pur guardandosi bene dall’etichettarli islamici. «I gravi attentati che hanno insanguinato l’Europa da Nizza a Vienna e la popolazione che li ha subiti sono nel pensiero e nella preghiera del Papa e sono deprecabili eventi che cercano di compromettere con la violenza e l’odio la collaborazione fraterna tra le religioni».

Nell’enciclica “Fratelli tutti” il papa autorevolmente scrive (n. 283) che: «Il culto a Dio, sincero e umile, porta non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà degli altri e all’amorevole impegno per il benessere di tutti. In realtà, “chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”» (1Gv 4,8)”




Ripartire dai giovani e con i giovani. Il messaggio di Papa Francesco per la XXXVI GMG

di Stefano Liccioli · Da quest’anno, per la prima volta, la celebrazione diocesana della Giornata Mondiale della Gioventù si terrà la Domenica di Cristo Re e non più quella delle Palme, così com’era stato fin dal 1985, anno della sua istituzione. Un cambiamento di data che però non altera l’elemento fondante di questa iniziativa e cioé il Mistero di Gesù Cristo Redentore dell’uomo, come ha sempre sottolineato San Giovanni Paolo II, iniziatore e patrono delle GMG.

Il titolo della Giornata Mondiale della Gioventù 2021 fa riferimento al versetto degli Atti degli Apostoli:«Alzati! Ti costituisco testimone di quel che hai visto!» (cfr. At 26,16), tratto dalla testimonianza di Paolo di fronte al re Agrippa, mentre si trova detenuto in prigione. Si potrebbe dire che il Papa nel messaggio per questa ricorrenza usi la figura di San Paolo per una catechesi ai giovani, breve, ma densa di significato.

Il Santo Padre ricorda innanzitutto come la fede in Gesù non sia frutto di un ragionamento, ma di un incontro personale con Lui perché solo un incontro di questo tipo è in grado di cambiare la vita: «Non basta aver sentito parlare di Cristo da altri, è necessario parlare con Lui personalmente. Questo, in fondo, è pregare. È un parlare direttamente a Gesù, anche se magari abbiamo il cuore ancora in disordine, la mente piena di dubbi o addirittura di disprezzo verso Cristo e i cristiani».

Se si sta accanto ai giovani si percepisce che molti di loro hanno davvero il cuore in disordine, la mente affollata da dubbi che aspettano di condividere con qualcuno che li sappia ascoltare. Purtroppo in questi anni abbiamo dovuto registrare troppo spesso l’ “abbandono” delle nuove generazioni da parte degli adulti: questi sovente abdicano al loro ruolo di educatori, rinunciano a confrontarsi con ragazzi e ragazzi, preferendo la delega esclusiva agli specialisti. Il pontefice sembra invece conoscere bene l’animo dei più giovani, agitato da passioni e paure, radicato in convinzioni e certezze che rischiano però di ingabbiarli in delle presunte verità assolute, impedendo loro un incontro autentico con la realtà ed anche con Cristo.

D’altra parte Papa Francesco appare essere consapevole quanto sia necessaria un’ermeneutica dei giovani, interpretare quanto dicono e fanno per andare alle radici delle loro vere intenzioni. Scrive Bergoglio:«Quanti giovani hanno la passione di opporsi e andare controcorrente, ma portano nascosto nel cuore il bisogno di impegnarsi, di amare con tutte le loro forze, di identificarsi con una missione! Gesù, nel giovane Saulo, vede esattamente questo».

Al di là di tutto il Santo Padre richiama ragazzi e ragazze all’autenticità, in un’epoca in cui l’apparenza, il mostrarsi sembra più importante dell’essere:«Oggigiorno tante “storie” condiscono le nostre giornate, specialmente sulle reti sociali, spesso costruite ad arte con tanto di set, telecamere, sfondi vari. Si cercano sempre di più le luci della ribalta, sapientemente orientate, per poter mostrare agli “amici” e followers un’immagine di sé che a volte non rispecchia la propria verità. Cristo, luce meridiana, viene a illuminarci e a restituirci la nostra autenticità, liberandoci da ogni maschera. Ci mostra con nitidezza quello che siamo, perché ci ama così come siamo».

Interessante poi il passaggio del messaggio in cui il Papa ricorda che Saulo in qualche modo – senza saperlo – aveva incontrato Cristo, incontrandolo nei cristiani che perseguitava:«Quante volte abbiamo sentito dire: “Gesù sì, la Chiesa no”, come se l’uno potesse essere alternativo all’altra. Non si può conoscere Gesù se non si conosce la Chiesa. Non si può conoscere Gesù se non attraverso i fratelli e le sorelle della sua comunità. Non ci si può dire pienamente cristiani se non si vive la dimensione ecclesiale della fede».

Mi sento di poter dire che lo slogan “Gesù sì, la Chiesa no” non circola più (o comunque circola molto meno che in passato) sulle labbra dei giovani. Ormai molto di loro sembrano non avere più “antenne per Dio” (tanto per usare un’espressione del teologo Armando Matteo), sono chiusi in un indifferentismo religioso a cui le comunità cristiane, a mio avviso, non riescono in vari casi a dare risposte e proposte adeguate.

Infine ho trovato particolarmente significativa la conclusione del messaggio, una sorta di litania rivolta a ragazzi e ragazze scandita dalle parole “Alzati e testimonia!”. “Alzati” perché troppo spesso essi sono ripiegati su stessi, non hanno speranza che le cose, anche sbagliate, della propria vita possano migliorare:«Ci si può convertire e rinnovare nella vita ordinaria, facendo le cose che siamo soliti fare, ma con il cuore trasformato e motivazioni differenti».

Testimonia” perché occorre vincere nelle nuove generazioni la tentazione del disimpegno, la fuga dalle responsabilità nella consapevolezza che Dio non chiede di compiere miracoli, ma di condividere quello che siamo, quello che abbiamo.




Formazione e lavoro

di Giovanni Campanella · Nel mese di luglio 2021, la casa editrice Edizioni Lavoro ha pubblicato, all’interno della collana “Società Circolare”, una raccolta di piccoli articoli intitolata La fabbrica delle competenze e della dignità – Idee e progetti per il Pnrr: il Next Generation Italia. La prefazione è di Tommaso Nannicini, senatore e professore ordinario di Economia Politica all’Università Bocconi. Gli autori principali sono Luigi Campagna, Marino Lizza, Luciano Pero e Roberto Rossini. Altri articoli sono di Roberto Benaglia (segretario generale della Fim Cisl), Antonella Marsala (dirigente di Anpal Servizi e responsabile territoriale della Regione Lombardia), Paride Saleri (titolare della Omb Saleri di Brescia, fabbrica a gestione di “ispirazione umanistica”) e Paola Vacchina (presidente di Forma – Associazione nazionale enti di formazione professionale).

Luigi Campagna è docente di ingegneria gestionale al MIP (Master in Ingegneria della Produzione) del Politecnico di Milano. Marino Lizza è imprenditore, esperto di economia del lavoro e delle organizzazioni, con incarichi di direzione in programmi EU sui temi dell’innovazione di prodotto e di processo e dello sviluppo delle risorse umane. È managing partner di WeCanJob.it . Luciano Pero è docente di Organizzazione al MIP del Politecnico di Milano. Si interessa di innovazione organizzativa, architetture dei sistemi informativi, relazioni industriali e mercato del lavoro. Roberto Rossini, sociologo, laureato in scienze politiche, è docente di diritto e metodologia della ricerca sociale presso l’istituto bresciano Maddalena di Canossa. È portavoce dell’Alleanza contro la povertà ed è stato presidente nazionale delle Acli e di Enaip.

La crisi pandemica da COVID 19 ha aggravato, e non generato, problemi di lungo corso del mercato del lavoro italiano. È facile intuire che gli effetti nefasti colpiranno soprattutto le fasce più deboli della società: lavoratori, precari, piccoli imprenditori, autonomi, disoccupati. Con un percorso di analisi e proposte concrete utile nella progettazione esecutiva del Next Generation Italia, gli autori del presente volume suggeriscono come realizzare un nuovo mix di “saperi” e “saper fare” di cui in troppi lamentano la carenza: un’autentica “fabbrica delle competenze e della dignità”, una filiera ininterrotta in grado di allineare chi entra e chi opera sul mercato del lavoro con le dinamiche produttive del XXI secolo.

«La scoperta del proprio talento rappresenta il fondamento del cammino virtuoso, che prosegue nei percorsi professionalizzanti che miscelano formazione e lavoro, alimentato infine nei continui processi di apprendimento formale e non formale nelle aziende, ambiti ove costruire e manutenere, e non solo fruire, le competenze critiche. Proprio l’investimento sulle nuove competenze tecnico-professionali costituisce il fattore decisivo per innalzare il tasso di occupabilità individuale, solido argine a sostegno di una dignità sociale oggi in pericoloso appannamento» (quarta di copertina).

Come già accennato, in fondo al libro si trovano alcune esperienze di stakeholder rilevanti del mondo dell’impresa (mi riferisco all’intervento di Saleri), del sindacato (Benaglia), degli operatori della formazione professionale (Vacchina), dell’istituzione pubblica per le politiche del lavoro (Marsala), sollecitando già nel testo un confronto nel merito delle proposte.

PNRR sta per Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e fa parte del programma europeo noto come Next Generation EU, un fondo per la ripresa europea da 750 miliardi di euro. Come il nostro libro indica, il piano punterà molto sul potenziamento della formazione, elemento chiave per ridurre le disparità sociali, la povertà e le situazioni di disagio ed emarginazione. Essere disposti e impegnarsi a essere formati e orientati affina le nostre inclinazioni e i nostri talenti per servire il Signore e i fratelli. Ciò rende la nostra vita piena, partecipativa e fruttuosa.




Ireneo di Lione: «Doctor Unitatis »

di Alessandro Clemenzia · «Il vostro patrono, Sant’Ireneo di Lione, che volentieri dichiarerò Dottore della Chiesa prossimamente con il titolo di Doctor unitatis, è venuto dall’Oriente e ha esercitato il suo ministero episcopale in Occidente, è stato un grande ponte spirituale e teologico tra cristiani orientali e occidentali». Con queste parole, pronunciate da papa Francesco (7 ottobre 2021) al gruppo misto di lavoro ortodosso-cattolico “sant’Ireneo”, viene sinteticamente presentata la figura di Ireneo di Lione, il grande Pastore che, nel terzo secolo d.C., attraverso la sua instancabile attività, non soltanto ha difeso le verità di fede dalle diverse correnti di pensiero a lui contemporanee, ma con la sua stessa presenza ha anche rappresentato il punto d’unità tra Oriente e Occidente.

Tra queste correnti interne alla Chiesa, quella più forte e – per certi aspetti – “di moda” era certamente lo gnosticismo, una sorta di cristianesimo intellettualista (e dunque un’esperienza riservata a pochi eletti) che aveva una visione dualistica e pessimistica della realtà, andando così contro le fondamentali verità di fede. Di fronte a queste interpretazioni, Ireneo ha presentato la vera Tradizione apostolica. In un’udienza generale (28 marzo 2007) incentrata proprio su Ireneo di Lione, Benedetto XVI ha spiegato che «la Tradizione di cui egli parla, ben diversa dal tradizionalismo, è una Tradizione sempre internamente animata dallo Spirito Santo, che la rende viva e la fa essere rettamente compresa dalla Chiesa. Stando al suo insegnamento, la fede della Chiesa va trasmessa in modo che appaia quale deve essere, cioè “pubblica”, “unica”, “pneumatica”, “spirituale”».

Ireneo, attraverso la difesa della dottrina della Chiesa, ha illustrato una organicità dei misteri della fede, tanto da essere considerato uno dei primi grandi teologi della storia.

Al di là della sua figura legata a ciò che egli ha compiuto come Pastore, è importante cogliere il nesso d’unità tra l’Oriente e l’Occidente che egli rappresentava. Il termine “unità” è di decisiva importanza; per comprenderlo possiamo lasciarci guidare da un termine che Papa Francesco stesso ha sottolineato, richiamandosi a quanto aveva precedentemente affermato il cardinale Koch nel suo saluto: «È stato interessante quello che Lei ha detto dell’interpretazione come Gegensatz: mi è piaciuto, grazie». Gegensatz è una parola che, dal tedesco, può essere tradotta con “opposizione”: essa è un contrario di “contrapposizione” (Widerspruch) più che di “unità”. La differenza tra questi due termini, apparentemente sinonimici, è stata ben espressa da Romano Guardini, nella sua opera filosofica L’opposizione polare (Der Gegensatz, 1925), e un secolo prima dall’ecclesiologo Johann Adam Möhler, nel suo testo L’unità della Chiesa (Die Einheit in der Kirche, 1825). Quest’ultimo ha spiegato la relazione tra unità e distinzione nella Chiesa attraverso l’immagine di un coro polifonico, capace di inverare un’unica armonia dove ognuno conserva la propria individualità; anzi: ritrova se stesso proprio nella relazione di opposizione con gli altri. Chi, invece, nel coro cerca di prevalere sui singoli e di ergersi a unica voce, tendendo addirittura all’eliminazione dell’altro per ovviare a ogni distinzione, ciò «non costituisce un opposto, perché gli opposti non possono esistere che nell’unità; egli dà luogo a una vera contraddizione» (J. A. Möhler, L’unità nella Chiesa, Città Nuova, p. 194). Dunque, il concetto di opposizione è ciò che, favorendo la distinzione (e dunque l’alterità), garantisce l’unità della Chiesa, essendone in qualche modo un motore interno, capace cioè di dinamizzarla dal di dentro. La contraddizione, invece, non ha a che fare con l’unità, dal momento che ha come obiettivo l’eliminazione dell’altro. Per Möhler, inoltre, è proprio nell’unità che emerge la peculiarità di ciascun elemento distinto, come a dire che è nella relazione di opposizione, nel tra loro, che l’io e il tu trovano ciascuno il completamento della propria esistenza. La stessa dinamica, legata alla parola Gegensatz, si può rintracciare, in modo molto più sistematico, nell’opera già menzionata di Romano Guardini.

Il Papa, dunque, ricordando questo vocabolo tedesco, mostra al gruppo misto di lavoro ortodosso-cattolico “sant’Ireneo” a quale unità egli allude. Al di là di una semplice e circostanziale ripetizione di un termine pronunciato precedentemente dal cardinale Koch, si può arrivare a rintracciare nel lemma Gegensatz quella costante che anima, come fondamento filosofico, tutto il pensiero dell’attuale Pontefice. Per un approfondimento su questo tema, rimando agli studi del filosofo Massimo Borghesi, e in particolare ai suoi testi: Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale (Jaca Book 2017); Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo» (Jaca Book, 2021).

In questa luce si possono comprendere meglio queste parole di Papa Francesco: «È bello coltivare un’unità arricchita dalle differenze, che non ceda alla tentazione di un’uniformità omologante […]. Animati da questo spirito, vi confrontate per comprendere come gli aspetti contrastanti presenti nelle nostre tradizioni, anziché alimentare contrapposizioni, possano diventare opportunità legittime per esprimere la comune fede apostolica». L’unità tra Oriente e Occidente, dunque, si gioca proprio nel reciproco riconoscersi l’uno in opposizione all’altro: ogni tentativo di supremazia, generando una contraddizione, porterebbe ciascuno alla perdita della propria identità. Con un termine, Papa Francesco ha illustrato il significato di sant’Ireneo, Doctor unitatis.




La ripartenza dell’Università. Il ritorno alla normalità è una grande e pia illusione?

La riforma della Giustizia, tra qualche luce e molte ombre.

di Gaetano Mercuri · Lo scorso 19 ottobre si è concluso l’iter parlamentare della legge delega sulla riforma del sistema di giustizia penale proposta dal ministro Marta Cartabia.

La delega al governo per l’assunzione dei provvedimenti legislativi in merito presenta termini ben chiari e tassativi della durata di un solo anno.

Di una riforma della giustizia penale in Italia si sente il bisogno da decenni. Il sistema è notorio quanto faccia acqua da tutte le parti. Ma ci voleva un’emergenza delle tragiche proporzioni del Covid 19, per riaccendervi sopra i fari e accelerare i tempi della discussione.

Tra le richieste dell’U.E. da soddisfare e ottenere in cambio i fondi per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, forse la più importante e invasiva è quella che obbliga il nostro Paese a tagliare di almeno il 25% la durata media dei processi siano essi civili o penali.

Le polemiche si sono concentrate in particolare sulle novità che verranno introdotte riguardo quest’ultimi. Si comprende bene il perché, vista l’incidenza maggiore sui diritti e le libertà, almeno dal punto di vista di percezione del cittadino medio.

Non è immaginabile in queste poche righe affrontare una riforma così complessa come quella proposta dal ministro Cartabia. Ciascun singolo punto di essa richiederebbe ben più di un articolo.

Tuttavia, è possibile fare qui qualche breve riflessione sistematica a mo’ d’introduzione al testo, tenendo ben presente che quanto qui detto si basa sulla legge delega approvata negli scorsi giorni dal senato, che comunque dà al governo ampi spazi di manovra. Gli interventi potrebbero alla fine essere almeno in parte ben diversi da quel che ad ora ci si aspetta.

Una delle novità positive e fondamentali è l’introduzione del c.d. «processo telematico», una serie di norme tese a favorire la veloce soluzione dei procedimenti grazie all’estensione dell’uso delle migliori risorse tecnologiche a disposizione.

La riforma punta poi all’istituzione di un «ufficio del processo» i cui dipendenti, preparati e selezionati per via concorsuale, affiancheranno i magistrati proprio per accelerare i tempi di risoluzione delle controversie e di decisione.

Negli ultimi mesi però le critiche di parte della magistratura più attiva nel contrasto alla criminalità organizzata ha però denunciato che un’altra novità introdotta dalla riforma, l’improcedibilità dei processi qualora le indagini non rispettino determinati e molto stringenti termini di tempo a compenso del mantenimento del blocco della prescrizione qualsiasi sia l’esito del processo penale, sia nient’altro che una vera e propria tagliola su oltre il 50% dei procedimenti pendenti di fronte alle corti d’appello.

Timore che a chi scrive, che da sempre sostiene che la vera, unica soluzione sia invece, innanzitutto la messa a disposizione di risorse in particolare per l’aumento dei posti in organico della magistratura, appare ben fondato. L’ufficio del processo non appare essere altro che una foglia di fico che ben poco per di più riuscirà a coprire.




Ancora su I Padrenostri di questi tempi

di Carlo Nardi · Ripropongo con alcune ulteriori considerazioni quanto ho già scritto sull’argomento I Padrenostri di questi tempi, in Il mantello della giustizia in rete, aprile 2021:

Su questo argomento molti hanno scritto e molto è stato scritto. Ecco una mia noterella.

Voglio offrire un pensiero che mi stuzzica la mente. Penso al vecchio Padre nostro con … e non c’indurre in tentazione, modificato adesso nel nuovo messale con … e non abbandonarci alla tentazione.

In verità, questa nuova traduzione non mi sconfinfera. Il salto di resa nelle due versioni è grande: in effetti quei due verbi ‘indurre’ e ‘abbandonare’ sono due cose diverse. Forse vicine, ma non mi sento di dire di più. A questo riguardo rimando al dotto libro di Alberto Maggi (Padre dei poveri: 2. Il Padrenostro. Traduzione commento dal Vangelo di Matteo, Cittadella Editrice – Assisi, terza ristampa, febbraio 2018), il quale presenta un condivisibile studio sui testi della preghiera (pp. 137-151). In particolare, egli traduce il versetto in questione (Matteo 6,13a) col verbo introdurre”, che rende il senso del greco eisférein, “portare/spingere verso”. Al contrario, non appare nel testo originale l’idea di un “abbandono”, per quanto essa possa sembrare a prima vista più consolante. Di fronte all’importanza di questa preghiera per il Cristianesimo, mi pare che si dovrebbe andare assai cauti, anche sulla scorta di Dei Verbum 10: “la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime”. D’altronde, rispetto a questo imbarazzo nei riguardi del Vangelo, mi viene da domandarmi: vogliamo forse essere più cristiani di Cristo?

Fin qui quello che ho scritto, sennonché mi sentivo di dire qualcosa di nuovo.

La nuova versione di quel punto del Padre nostro mi pare che non sia valida, perché si tratta di una parola del Signore, e in questo modo non lo è più.

E’ così che quando ho dovuto usare il nuovo Messale italiano (pag. 445), ho detto ai miei parrocchiani che il nuovo Padre nostro nel punto in questione è diverso dalla vecchia versione e anche dall’antico testo latino che è tuttora rimasto in uso, e meno male, grazie a Dio. Per questo, dopo aver pronunciato obtorto collo il nuovo testo, aggiungiamo il canto del Pater noster in latino, in modo che sia chiara la differenza in quel pezzettino. E d’altra parte la differenza fra i due pezzettini ha il pregio di stimolare la nostra riflessione sul mistero del male, del “cattivo”, con il quale siamo sempre in contesa, una contesa in cui ci affidiamo alla bontà del Signore.

Anche l’antica preghiera dell’Ave Maria ha subito una forzatura quando il fructus ventris tui è stato tradotto con frutto del tuo seno. Per quanto in greco il termine koilìa (seno) abbia un significato estensivo, risulta evidente che in specifica relazione con la maternità il termine venter (ventre) del latino è chiaramente e in tutti i sensi il più preciso e appropriato. A tal proposito mi ritorna alla mente una colorita espressione del dotto padre Ferdinando Batazzi: “O che i figlioli possano nascere dalle mammelle?” … dalle ciocce, dico io.

Tornando al Padrenostro, sarebbe quindi opportuno quanto meno un ulteriore sforzo per ricercare una espressione che volendo superare quella percezione di costrizione, che come osserva il nostro arcivescovo Giuseppe Betori cardinale (in Avvenire, intervista del 10 dicembre 2017) oggi ha assunto il termine introdurre nell’italiano corrente, risulti aderente e coerente appunto con portare o spingere verso.

E il Padreterno sorriderà bonariamente? Se Dio vuole, come dicevano i nostri vecchi.




I «Facebook files»: un caso da non sottovalutare.

di Leonardo Salutati · “Facebook files” è il titolo dato ad una importante inchiesta del Wall Street Journal che ha pubblicato migliaia di documenti che denunciano i rischi delle ricadute sociali della condivisione di contenuti sensibili da parte degli utenti, rivelando il ruolo e i possibili rischi connessi agli algoritmi usati dalle piattaforme digitali quali Facebook e Twitter, o da motori di ricerca come Google e Bing, per gestire i propri contenuti informativi.

Per capire le implicazioni degli algoritmi sulle dinamiche dell’opinione pubblica occorre analizzare la loro interazione con le inclinazioni (bias) comportamentali degli individui. Gli algoritmi usati dai social media, infatti, decidono quali informazioni mostrare e in che ordine mostrarle, selezionando quali informazioni siano più o meno rilevanti per un dato individuo. In concreto gli algoritmi, svolgono un ruolo editoriale che li rende molto diversi dai media tradizionali, più vicino alla statistica che al giornalismo (B. Rieder – G. Sire, 2013).

Nello scegliere quale contenuto proposto dalla piattaforma leggere su un determinato argomento, gli individui sono guidati da una duplice inclinazione. Una che consiste nel volere vedere confermata la propria opinione (“confirmation bias”), che li spinge a scegliere contenuti che avvalorano l’opinione iniziale. L’altra (“attention bias”) è quella di prestare attenzione a pochi contenuti e di scegliere tendenzialmente quei contenuti che sono presentati in posizioni più prominenti nella piattaforma. Ambedue le inclinazioni si basano su un’ampia e verificata evidenza empirica.

Con queste due inclinazioni umane interagiscono due macro-classi di algoritmi: 1) quelli basati sulla popolarità di un dato contenuto web, in cui la prominenza data all’argomento aumenta nel tempo con l’aumento della popolarità del contenuto (per esempio più persone cliccano su un sito web); 2) quelli che personalizzano l’ordine dei contenuti in base ad alcune caratteristiche individuali, come indirizzo Ip o cronologia delle ricerche, con la conseguenza che utenti diversi osservano contenuti in ordine diverso.

Riguardo agli algoritmi basati sulla popolarità che lavorano sul feedback degli utenti, se le opinioni iniziali su un determinato tema sono generalmente poco corrette e gli utenti hanno un forte “confirmation bias” che li porta a scegliere troppo spesso siti web che hanno informazioni sbagliate, tale dinamica favorisce la crescita nel ranking di questi siti permettendogli, quindi, di attrarre più utenti. Diversamente se l’algoritmo utilizzasse come criterio di efficienza informativa al posto della popolarità, per esempio, quello che ordina i contenuti in maniera casuale, la probabilità che un individuo scelga un sito che riporta informazioni corrette, sarebbe più efficiente.

A questo si aggiunga che gli algoritmi basati sulla popolarità generano un effetto tale che, minore è il numero di siti che riporta un dato contenuto informativo, maggiore è l’audience totale che cattureranno, in quanto la più alta concentrazione del traffico verso pochi siti, ne aumenta il ranking. Questo tipo di meccanismo può contribuire a spiegare perché le piattaforme digitali sembrano favorire la diffusione di fake news (F. Germano – F. Sobbrio, 2021).

A loro volta gli algoritmi personalizzati, conducono a polarizzare le opinioni iniziali degli individui creando quindi delle cosiddette “camere dell’eco” algoritmiche, che producono una riduzione dell’efficienza informativa su temi in cui c’è una verità “oggettiva”. In particolar modo, la personalizzazione tende a contrastare i pur possibili effetti positivi degli algoritmi basati sulla popolarità (evitiamo di specificare il meccanismo per motivi di spazio).

In definitiva, le informazioni emerse dai “Facebook Files” evidenziano la rilevanza dell’interazione tra algoritmi e comportamento umano, oltre alle responsabilità dei vertici di Facebook di aver insistito su di un algoritmo che poneva un forte accento sulla popolarità e la personalizzazione, nonostante vi fossero dati che segnalassero gli effetti negativi in termini di disinformazione e polarizzazione.

Tale vicenda pone un grave problema morale, che mina alla base la possibilità di convivenza pacifica e democratica di una società, che consiste nel dominio sulla libertà e sulla coscienza di tanti uomini e donne attraverso sofisticati strumenti tecnici, dettato fondamentalmente dalla logica del potere e/o del profitto.

È quanto aveva già lucidamente intravisto il teologo Enrico Chiavacci negli anni ’80 del secolo scorso, nel descrivere le possibilità aperte dalla “rivoluzione del silicio”, che ha introdotto l’umanità nell’era dei semiconduttori e dei circuiti integrati, caratterizzata da una forte accelerazione tecnica che ha favorito il consolidarsi di “strutture di potere e di dominio culturale” operanti a livello globale, di cui aveva tra l’altro con precisione descritto la genesi e i meccanismi di ulteriore sviluppo. A Chiavacci farà eco Benedetto XVI quando denuncerà le strettoie della mentalità tecnicista che fa «coincidere il vero con il fattibile» assumendo come «unico criterio della verità l’efficienza e l’utilità» (Caritas in veritate n. 70).

Recentemente, nel messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali del 2016 Papa Francesco scriveva: «Non è la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o meno, ma il cuore dell’uomo e la sua capacità di usare bene i mezzi a sua disposizione». Per questo «occorre interrogarsi su ciò che [in Rete e sui social] è buono, facendo riferimento ai valori propri di una visione dell’uomo e del mondo, una visione della persona in tutte le sue dimensioni, soprattutto quella trascendente» (Francesco, discorso all’Università Roma tre, 2017), diversamente la transizione dell’epoca postmoderna non potrà che caratterizzarsi come «cultura del naufragio», in quanto caratterizzata da «mentalità tecnicistica», da «messianismo profano» che porta l’uomo di oggi a fare esperienza «sulla propria pelle un senso di sradicamento e abbandono» (card. Bergoglio, 2006).