Presentazione degli articoli del mese di settembre 2018

0914aAndrea Drigani indica nel magistero di Paolo VI il punto di riferimento fondamentale ed essenziale per l’ermeneutica del Concilio Ecumenico Vaticano II. Dario Chiapetti presenta la traduzione italiana di un’ampia raccolta di saggi del teologo greco-ortodosso Ioannis Zizioulas dalla quale emergono due grandi riferimenti: il ricorso costante e continuo ai Padri della Chiesa e il primato dell’ambito comunitario-sacramentale. Gianni Cioli richiama le catechesi di Paolo VI sul sacramento del Battesimo, dalle quali si evince che l’esercizio del sacerdozio comune investe tutte le dimensioni della vita cristiana, trovando nell’Eucaristia il luogo della sua massima espressione. Francesco Vermigli nel 30° anniversario della morte ricorda Hans Urs von Balthasar il teologo che ha contribuito a studiare, a riflettere e a pregare sul mistero dello «svuotamento» di Cristo (la gloria della croce) proiettato nell’eternità. Giovanni Campanella recensisce una raccolta di racconti di Dario Fertilio sul ricordo e l’esempio di particolari sante all’interno della vita ordinaria dei protagonisti. Alessandro Clemenzia con il volume del monaco benedettino Ghislain Lafont riflette ancora sulla sinodalità cristiana, da intendersi non soltanto come discussione e confronti, ma ascolto della Parola attraverso i carismi personali. Francesco Romano dalla sua biblioteca di libri antichi, reperiti con attenzione e passione, ritrova il «Dizionario dell’omo salvatico» di Giovanni Papini e Domenico Giuliotti, per osservare che le schermaglie letterarie e religiose non smettono di interessarci anche se lontano da noi. Leonardo Salutati annota sulla questione migratoria alla luce del «Catechismo della Chiesa Cattolica» e del «Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa» che da molto tempo hanno dato indicazioni precise per la promozione di diritti e doveri. Stefano Tarocchi attraverso una digressione filologica e teologica sulla parola «ponte», ne evoca il senso del percorso tra profano e sacro, e il luogo ineludibile di avvicinare l’umano al divino. Antonio Lovascio commenta, anche attraverso una panoramica internazionale, la decisione di Papa Francesco di introdurre nel «Catechismo della Chiesa Cattolica» l’inammissibilità della pena di morte, preparata pure dalla riflessione di San Giovanni Paolo II e dagli studi del teologo francescano Gino Concetti. Giovanni Pallanti nell’intento di comprendere delle questioni odierne ripercorre una pagina della storia economica italiana: quella delle imprese pubbliche all’insegna dell’«economia sociale di mercato». Mario Alexis Portella si sofferma sulla pace tra Etiopia ed Eritrea, sottoscritta lo scorso 8 luglio, che pone fine ad una guerra durata venti anni, auspicando che questo accordo possa essere di esempio per tutto il continente africano che vede ancora la presenza di molti conflitti. Per Stefano Liccioli dalla visita di Papa Francesco in Irlanda, oltre al dramma della pedofilia, emerge l’esortazione alle famiglie cristiane, riunite a Dublino per l’incontro mondiale, circa l’impegno primario all’educazione alla fede. Carlo Nardi con l’aiuto degli antichi scrittori cristiani e del Concilio Tridentino ci rammenta la missione profetica di Adamo, il protogenitore, anche in ordine al matrimonio.




«L’Uno e i Molti» di Ioannis Zizioulas

John Zizioulas, Metrodi Dario Chiapetti • È offerto nelle mani del lettore L’Uno e i Molti. Saggi su Dio, l’uomo, la Chiesa e il mondo di oggi (Lipa, Roma 2018, 457 pp.), la traduzione in lingua italiana dall’originale inglese – ad opera di Maria Campatelli – di The One and the Many (2010), la più recente grande pubblicazione del teologo greco ortodosso Ioannis Zizioulas (1931), metropolita di Pergamo, che sia da parte ortodossa (Kallistos Ware) che cattolica (Yves Congar) che anglicana (Henry Chadwick) e non solo è considerato come uno dei più originali teologi del nostro tempo e di cui già mi sono occupato su queste pagine, presentando un altro importante volume, del 2016, Comunione e alterità link
Il presente testo si distingue per corposità, per varietà di argomenti trattati e per la forte unitarietà teologica che li tiene insieme. Quanto al primo aspetto, esso raccoglie ben trentadue scritti – articoli apparsi in riviste, conferenze e discorsi pronunciati in occasioni varie – che vanno dal ‘68 (la sua tesi dottorale è del ‘65) al 2010 (tra i suoi ultimi). Ciò offre al lettore sia la possibilità di poter disporre di così tanti testi, molti dei quali difficili da reperire, sia elementi importanti per ricostruire lo sviluppo interno, e teologicamente significativo, del pensiero che l’Autore è andato precisando col tempo (sui cui particolari punti non posso soffermarmi qui). Quanto al secondo aspetto, il testo ha una chiara strutturazione tripartita: nella parte iniziale si trovano tre saggi di teologia trinitaria, nella seconda venti saggi di ecclesiologia, nella terza dieci saggi sul movimento ecumenico. La sequenza tematica rivela già il “come” del pensare di Zizioulas: dalla dottrina, ampiamente approfondita, su Dio e su Dio Trinità («La dottrina del Dio Trinità oggi», «L’essere di Dio e l’essere dell’uomo», ecc.), si passa alla riflessione teologica sulla Chiesa («La Chiesa come comunione», «Il primato nella Chiesa», ecc.) e, da questa, alle questioni concernenti il suo attuarsi, ovvero, la sua natura ecumenica («Uniformità, diversità e unità della Chiesa», «Colloqui bilaterali tra ortodossi e protestanti», ecc.). Come si sarà intuito dai pochi titoli che ho riportato, la riflessione ziziouliana, è tematicamente ampia anche all’interno delle singole parti. L’Autore è capace di muoversi da piani teoretici-speculativi alla trattazione di singole e specifiche questioni riguardanti, come nel campo ecclesiologico e ecumenico, particolari problemi inerenti alla dimensione istituzionale della Chiesa. E, sebbene, vi sia questo ampio spettro di analisi, ci si accorge come nell’Autore tutto scaturisca – e di ciò tutto sia impregnato – dalla riflessione teologica trinitaria, la quale – aspetto fondamentale – è portata fin sul piano ontologico.

Mi pare giusto dire innanzitutto qualcosa su due aspetti – per così dire, premesse metodologiche – che caratterizzano l’incedere del pensiero di Zizioulas e presenti nel presente testo.

Il primo. Speciale punto di riferimento teologico, così come del resto avviene in tutta la tradizione orientale, sono i Padri della Chiesa. Ma lo studio di essi è condotto in modo – come scrive Atanasije Jevtić, Vescovo Emerito di Zachum-Herzegovina e Litorale, nella Prefazione – «olistico e sintetico», oltre che approfondito, dato che Zizioulas ha studiato a lungo la patristica. Sperando di interpretare bene Jevtić, ma seguendo le sue parole, oltre che quelle di Zizioulas in altre occasioni, «olistico» pare indicare qui proprio quell’occhio che sempre guarda alla comprensione teologica patristica considerando al contempo i problemi e i contesti attuali, tenendo presente che questi ultimi possono essere elementi che i Padri non si erano proposti di affrontare e che quindi spingono la teologia a «esplicitare» ancor più certi suoi aspetti fondamentali. È proprio ciò che Zizioulas dice di aver imparato dal considerare come, per primi, i Padri procedettero nell’assunzione di tale atteggiamento dialogico con l’altro – l’ellenismo – facendo delle prospettive di quest’ultimo occasione di istanza di creatività, filosofica e teologica, per comprendere sempre più il proprio depositum e favorire al massimo la fecondità di ogni incontro. E poi «sintetico», vale a dire quanto più possibilmente comprensivo di tutto il pensiero di ogni Autore e di questo nel solco della storia del pensiero, passando così dalla filologia, facilmente riducibile a archeologia, a una vera e propria ermeneutica, compito della teologia.

Se nel pensiero dei Padri Zizioulas riconosce fondamenti teologici fondamentali, la seconda premessa è la seguente: l’importanza della teologia per la vita della Chiesa e l’importanza dell’ambito comunitario-sacramentale – soprattutto dell’azione eucaristica – per la teologia. Zizioulas non si arresta alla riflessione trinitaria ma esamina molti nodi teologici problematici, come quelli legati alle strutture istituzionali ecclesiali, richiamandosi costantemente, per impostarne la trattazione, all’ontologia che la teologia coglie della Rivelazione. Ma è questa una teologia che prende seriamente in esame le testimonianze patristiche che vogliono attestare l’avvicinarsi del conoscere l’Ontologico da parte della comunità cristiana in quanto esso è dischiuso nell’evento assemblea-eucaristica per il carattere escatologico di quest’ultimo – così come i Padri affermano a partire dalla Scrittura – di emergenza del regno di Dio in quanto realizzazione, nella creazione, del principio ontologico dell’essere divino.

Ecco che tale principio ontologico, l’Uno e i Molti, attraversa e conduce tutte le riflessioni di Zizioulas, attestandosi essenzialmente su almeno tre piani: ontologico, gnoseologico-epistemologico e dell’economia, cristologico-pneumatologico-ecclesiologico-antropologico-cosmologico.

Quanto al primo livello, dell’attestazione patristica e soprattutto dei Cappadoci, Zizioulas porta in luce l’ontologia dell’alterità, e quindi della persona come comunione, per cui l’Uno non è più, come per Platone (cf. Parmenide), precedente ai Molti – come è avvenuto nella teologia che ha attribuito la precedenza ontologica alla sostanza, sia pure essa “sostanza relazionale”, anziché alla persona – ma l’Uno è simultaneo ai Molti. E questo perché – è ciò che l’Autore cerca di chiarire nei primi tre saggi – la causa ontologica di tale simultaneità non è una sostanza impersonale ma una persona, il Padre, ossia una libertà ontologica, cioè una libertà-per-l’altro. Tale costituzione ontologica di Uno e Molti si ritrova anche a livello cristologico: Cristo è persona, cioè Uno e Molti, perciò Egli va «disindividualizzato»: è per questo che l’ecclesiologia deve essere un capitolo della cristologia. E Cristo è persona in virtù dello Spirito Santo – il nome, l’“Unto”, dice che l’identità di Cristo è tale in relazione allo Spirito -: ecco perché la pneumatologia deve intervenire sin da subito, sia in cristologia che in ecclesiologia, mostrando il carattere ontologico che lo Spirito conferisce alla persona come alterità, fornendo così la prospettiva teologica fondamentale. In tale visione la Chiesa, come realtà dell’Uno e Molti che è Cristo, e da Questi principiata, è quell’alterità – l’Altro per eccellenza, nella creazione, è Cristo – che genera alterità, a partire dalla comunione. È da qui che Zizioulas fa seguire le sue considerazioni su Chiesa locale, Chiesa particolare, primato, ministerialità, ecumenismo, ecc. Se la Chiesa è alterità che genera alterità assolve a tale esercizio a livello antropologico, aprendo quest’ultimo all’ambito cosmologico: è così che – mostra Zizioulas – la riflessione sul creato ha come suo ambito l’antropologia e l’antropologia l’ecclesiologia.

Concludo questa presentazione dell’Uno e dei Molti, con una parola sul secondo livello su cui emerge l’ontologia di Zizioulas e il ruolo che esso gioca nel suo pensiero. Sul piano gnoseologico-epistemologico, ho accennato al ruolo dell’azione eucaristica – e del pensare che ne nasce – e alla possibilità che essa dischiude di conoscere – in quanto in essa vi si realizza – un costitutivo ontologico, l’Uno e i Molti, come esistenza-personale. E ciò in quanto l’azione eucaristica realizza tale costitutivo nella persona e così costituisce la persona. È per tale carattere escatologico, e quindi teleologico, dell’essere ecclesiale, che Zizioulas non si ferma, sul piano ecumenico, a una “diversità riconciliata” – che può divenire cara quando ognuno si attacca troppo alle proprie (fissate) idee – ma, in quell’attento ascolto della Tradizione che scopre tesori sepolti e delle sfide che i tempi attuali pongono alla Chiesa, intende mantenere aperta la teologia a quell’approfondimento del mistero dell’Uno e i Molti che solo dall’Eschatos può venire: la memoria del futuro, l’evento di comunione, l’evento della persona.




Il profeta Adamo nel Concilio di Trento con nozze umane e divine

concilio-trentodi Carlo Nardi • Adamo profeta? Non è tra i profeti dell’Antico testamento. Lo è però per gli antichi scrittori cristiani, perché, secondo loro, tutta l’Antica alleanza, in fatti e parole, è in funzione della Nuova. A maggior ragione è che Adamo sia in vista di Cristo, l’Adamo nuovo e definitivo, l’uomo assoluto. Già san Paolo, specialmente nella Lettera agli Efesini (5,25.32), insegnava in tal senso. Dopo di lui e in ascolto di lui ecco Tertulliano, Clemente di Alessandria, Metodio di Olimpo, Ilario, la patristica insomma (il mio L’eros nei Padri della Chiesa …, Montespertoli 2000), ma anche la scolastica e la sensibilità teologica recente di cose umane e divine. E tale sensibilità in merito piaceva anche Ernst Bloch (Il principio speranza …, Milano 2005, pp. 336-338).

Anche il Concilio di Trento, parlando del matrimonio con essenziale dottrina – tante cose con poche parole -, illustrava Adamo come fosse profeta di Cristo. Lo fu quando, nel sonnacchioso risveglio, si trovò con stupore davanti a una donna, bell’è fatta, Eva la donna. Eva la bella. Era tenera come la Venere del Botticelli o tutta darwinianamente pelosa? A lui, Adamo, non sarebbe importato. Con lei e lui c’era lei e gli bastava.

E disse: «Questa sì che è osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne […], perciò l’uomo si unirà alla sua donna» (Gen 2,23.24) – una «carne sola» (Gen 2,24) di loro due «nudi senza provare vergogna» (Gen 2,25) -, era profeta di Cristo e della Chiesa «che nel suo sangue Cristo fece sposa», per dirla con Dante (Paradiso xxxi,3). Sicché in riferimento a Cristo e alla Chiesa è ogni lui e ogni lei, come Adamo ed Eva, i progenitori.

E lo sono appieno per il battesimo in virtù dello stesso Gesù. Lo insegna appunto il Concilio tridentino: il padre Adamo è profeta «per ispirazione dello Spirito Santo» e con le sue parole «annunciò un legame perpetuo e indissolubile» dei coniugi; e «Cristo con la sua passione ha per noi provveduto alla grazia atta a perfezionare quell’amore inscritto nella natura» umana, «e a rafforzarne l’unità indissolubile e santificare i coniugi» in un «matrimonio che nella legge» nuova «del Vangelo supera le unioni» dell’Antico Testamento e dei tempi pagani «per la grazia» donata «per mezzo di Cristo» (Sessione XXIV: 11 novembre 1563: Denzinger 1797-1800).




Frammenti di sante

BJqqlXsp_400x400di Giovanni Campanella • Nel mese di luglio 2018, la casa editrice La Fontana di Siloe (che appartiene a Il Quadrante, Lindau) ha pubblicato, all’interno della collana “Narrazioni”, un libro di narrativa, appunto, intitolato Le sante dei miracoli. L’autore è il giornalista e scrittore Dario Fertilio, classe 1949.

«Vive a Milano, dove ha lavorato per molti anni al “Corriere della Sera”. È autore eclettico di saggi, romanzi e opere teatrali tradotti in molte lingue. Con il dissidente russo Vladimir Bukovskij ha ideato il “Memento Gulag”, la giornata della memoria per le vittime del totalitarismo. Oggi scrive per l’”Osservatore Romano” e altre testate, anche internazionali» (copertina).

Il libro in questione è una raccolta di brevi racconti, tutti ambientati ai giorni nostri in diverse zone del pianeta. Sono tutti accomunati dal ricordo – direi che si tratta sempre di un ricordo più che di un vero e proprio intervento – di una particolare santa all’interno delle piccole vicende odierne dei vari protagonisti. Grazie al ricordo dell’esempio della santa nella mente dei personaggi coinvolti, la storia volge al bene.

Alcuni racconti sono ispirati a veri fatti di cronaca. Uno, ad esempio, riprende la drammatica vicenda dell’omicidio di Noemi Durini, uccisa nel settembre 2017 in provincia di Lecce. Il racconto di Fertilio ha un finale diverso e non è ambientato nello stesso luogo ma a Bolsena. Qui Fertilio dimostra anche la versatilità del suo stile: la storia è raccontata in prima persona con linguaggio e pensieri propri di un adolescente. Esasperati dall’opposizione delle famiglie, i due fidanzati si recano in macchina di fronte al lago di Bolsena e pensano di porre fine alle proprie vite. Un’opzione è quella di usare il coltello che il ragazzo ha messo nel bagagliaio della macchina (così Fertilio si allaccia a ciò che in parte è effettivamente accaduto nel tragico evento pugliese). L’altra opzione è quella di lanciarsi in macchina a tutta velocità nel lago di Bolsena. Ma il ricordo di santa Cristina da Bolsena – che, pur con una pietra al collo, ritorna a riva sana e salva – fa rinsavire i due ragazzini, che poi tornano a casa.

In un altro racconto, una ex escort dell’Est Europa riesce a riprendersi dalla malinconia ricordandosi la conversione di Maria Egiziaca. In un altro, una ragazzina, grazie al ricordo di sant’Agnese, riesce a vincere la tentazione di cedere alle avances di uno sconosciuto che l’aveva abbordata via internet in una chat. Un professore universitario razionalista riesce a superare la propria malinconia ricordando la figlia Ildegarda, che porta lo stesso nome di Ildegarda di Bingen. Un altro professore universitario razionalista riesce a vincere l’ansia da aeroplano, quando pensa a una lettera di sua madre che accenna a santa Maria Faustina Kowalska e alla Coroncina della Divina Misericordia.

Con questa raccolta di piccole narrazioni, Fertilio ci suggerisce implicitamente che anche il solo pensiero di illuminanti esempi di vite passate trascorse nella pienezza dell’incontro con Dio – anche provenienti dall’umiltà e dalla discrezione più proprie del mondo femminile – ci dà grande forza nella vita di ogni giorno.




Privatizzazioni delle imprese pubbliche nella storia dell’economia italiana.

imagedi Giovanni Pallanti • Privato è bello? Fino a poco tempo fa, tutto ciò che era pubblico doveva essere privatizzato. La proprietà pubblica era vista come incapace per la buona gestione di un servizio o per un’efficace conduzione di un’impresa industriale. Così sono state smantellate, in Italia, le Partecipazioni Statali. L’Alfa Romeo fu venduta per 1.000 lire alla FIAT (si trattava ovviamente di una cessione vera con un prezzo simbolico). La SME era stata promessa a De Benedetti dall’allora presidente dell’IRI Romano Prodi alla metà del prezzo che poi fu ottenuto dalla vendita delle diverse aziende SME così come fu imposto dal governo Craxi. Certamente i manager pubblici che hanno gestito le Partecipazioni Statali non sempre sono stati amministratori rigorosi ed onesti. Come sono invece coloro che amministrano le aziende private? Il crollo del Ponte Morandi a Genova ha posto dei seri interrogativi: la Società Atlantia ha distribuito in dieci anni fra i propri soci un utile di circa 9 miliardi e mezzo di Euro. Un bottino record che difficilmente qualsiasi altro imprenditore potrebbe mettere insieme in dieci anni. Ora domandiamoci chi ha costruito l’autostrada A-10: gli italiani con le loro tasse e il Governo italiano tramite alcune società dell’IRI. Per questa ragione, oggi si apre un dibattito pubblico su che cosa è necessario fare delle grandi infrastrutture di servizio (autostrade, rete telefonica, ferrovie, aeroporti, industrie strategiche ecc.). Una riflessione storica è necessaria a questo punto: l’Italia è entrata fra i primi cinque paesi industriali del mondo grazie alle Partecipazioni Statali, alle grandi industrie finanziate dallo Stato che, a loro volta, hanno generato tante piccole e medie imprese private che servivano alla produzione delle grandi imprese industriali e che, successivamente, hanno trovato un loro autonomo mercato. Se non ci fosse stata la scelta, nel secondo dopoguerra, delle Partecipazioni Statali e del mantenimento in vita dell’IRI che fu creato negli anni Trenta del secolo scorso, lo sviluppo industriale dell’Italia non ci sarebbe stato. La grande industria privata ebbe un ruolo passivo. Gli unici che hanno dovuto lottare nel libero mercato, assumendosene i rischi e la fatica, sono stati i piccoli e medi imprenditori che ancora oggi sono l’ossatura portante dell’economia italiana. Allora cosa fare? La presenza della mano pubblica negli asset strategici del Paese deve essere posta a garanzia della loro salvaguardia e delle inevitabili esigenze di rinnovamento strutturale e tecnologico. È necessaria quindi una grande rivoluzione che salvi del passato le cose positive per rafforzare, anche in Italia, la piccola e media impresa privata. Nella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento i cristiani democratici sostennero lo sviluppo economico dell’Italia fondato sulla Economia Sociale di Mercato (diventata poi una delle proposte più interessanti della Teologia Morale cattolica). Il Codice di Camaldoli scritto da intellettuali cristiani e antifascisti quando ancora non si erano spenti i fuochi del Secondo conflitto mondiale è all’origine delle scelte economiche sopra ricordate che oggi possono essere riprese dopo una recente stagione di privatizzazioni dissennate.




Il viaggio del Papa in Irlanda: non solo il problema della pedofilia, ma soprattutto la ricchezza della famiglia.

1510052282-0-erice-nascere-gruppo-famiglia-parrocchia-incontro-seminariodi Stefano Liccioli • Durante il viaggio apostolico del Santo Padre in Irlanda per il IX incontro mondiale delle famiglie che si è svolto dal 25 al 26 agosto 2018 l’attenzione dei media è stata catalizzata dai riferimenti che il Papa ha fatto alla tremenda piaga della pedofilia di cui in passato, in quel Paese, si sono macchiati anche diversi uomini di Chiesa. Ma il Papa durante gli incontri del viaggio apostolico ha parlato soprattutto di famiglia. Ho trovato particolarmente interessanti le riflessioni che Papa Francesco ha fatto per la festa delle famiglie a Dublino. Alcuni temi, per la verità, non sono nuovi, il Santo Padre li aveva già trattati in altre circostanze, ma credo sia opportuno metterli nuovamente in evidenza perché colpiscono nel segno, soprattutto quando si parla di giovani coppie.

Non importa scomodare recenti ricerche sociologiche per notare come la “cultura del provvisorio”, così come la definisce il Papa, che caratterizza il mondo giovanile venga trasposta anche nelle dinamiche di coppia per cui oggi più che mai “l’amore è eterno finché dura”. Anzi, per essere più precisi, l’amore viene ridotto a passione, ad un entusiasmo, che per natura sono stati d’animo passeggeri. Ma l’amore è altra cosa, è qualcosa di più profondo, che non riguarda solo le emozioni, ma anche la ragione e la volontà: cosa non facile, questa, a spiegarla alle nuove generazioni. Esse sovente cercano nelle relazioni una gratificazione personale e quando questa viene a mancare, il rapporto va in crisi. Per tali situazioni Papa Francesco fornisce alle coppie alcuni indicazioni molto concrete: avere l’umiltà di usare parole come “per favore”, “grazie” e “scusa”, saper perdonare le offese ricevute, imparare a far pace prima che finisca la giornata in modo da non scatenare una “guerra fredda” fra coniugi. Ma c’è altro, a mio parere. Una società come la nostra che tende a crescere ragazzi e ragazze rifuggendo un aspetto come il sacrificio (ad esempio carriera facile, soldi facili, raggiungere traguardi negli studi senza troppa fatica), rende difficile far capire ai nostri giovani come in una coppia si debba sopportarsi (nel senso paolino del termine) a vicenda, dare e non solo ricevere, sacrificarsi l’uno per l’altra.

Il Santo Padre in visita alla protocattedrale di Santa Maria a Dublino ha precisato come sia importante la famiglia in ordine alla trasmissione della fede e, in generale, ad uno stile di vita veramente cristiano.

Sempre più l’educazione alla fede viene visto, in seno alla famiglia, come qualcosa da delegare a specifiche “agenzie catechetiche ed evangelizzatrici” come la parrocchia. In realtà la famiglia è la Chiesa domestica:«Il primo e più importante luogo per far passare la fede è la casa: si impara a credere a casa, attraverso il calmo e quotidiano esempio di genitori che amano il Signore e confidano nella sua parola. Lì, nella casa, che possiamo chiamare la “Chiesa domestica”, i figli imparano il significato della fedeltà, dell’onestà e del sacrificio. Vedono come mamma e papà si comportano tra di loro, come si prendono cura l’uno dell’altro e degli altri, come amano Dio e la Chiesa. Così i figli possono respirare l’aria fresca del Vangelo e imparare a comprendere, giudicare e agire in modo degno della fede che hanno ereditato. La fede, fratelli e sorelle, viene trasmessa intorno alla tavola domestica, a casa, nella conversazione ordinaria, attraverso il linguaggio che solo l’amore perseverante sa parlare».

Sono solo alcune delle considerazioni, quelle che ho trovato più significative, che Papa Francesco ha fatto sulla famiglia durante il viaggio in Irlanda. Ho ritenuto doveroso riprenderle per far emergere la luce, quella del matrimonio appunto, e non solo le ombre, lo scandalo della pedofilia. E’ solo se crediamo al Bene e vogliamo il Bene che il Male verrà sconfitto.




La pace tra l’Etiopia e l’Eritrea: una prospettiva per la pace mondiale

primopiano_6198di Mario Alexis Portella L’8 luglio 2018 nella città di Asmara, capitale dell’Eritrea, è avvenuto un “miracolo”: la fine di una ventennale violenta e sanguinosa guerra tra Eritrea ed Etiopia. Per iniziativa del nuovo Primo Ministro etiope Abiy Ahmed si è tenuto un incontro per risolvere le complicate relazioni tra i due paesi, ufficialmente in guerra dal 1998. Il clima di ritrovata amicizia e la volontà ferma di pacificazione si sono manifestati sin dall’abbraccio all’aeroporto di Asmara tra Ahmed ed il dittatore eritreo Isaias Afwerki e nell’affermazione solenne del leader etiope: << L’inimicizia si conclude con questa generazione: che inizi l’era dell’amore e della riconciliazione >>.

La guerra era scoppiata a seguito dell’annessione unilaterale dell’Eritrea all’Etiopia – sotto il regno di Haile Selassié – per giungere a conclusione nel 1991 con la vittoria eritrea e la proclamazione dell’indipendenza nel 1993. Il conflitto tra le due nazioni si riaprì tra il 1998 e il 2000 per questioni relative alla definizione dei confini a caro prezzo di vite umane: oltre 70.000 morti ad operazioni belliche terminate. Formalmente il conflitto poteva dirsi concluso con la firma dell’accordo di pace di Algeri, il 12 dicembre del 2000, che sanciva l’istituzione di una commissione il cui compito era di stabilire definitivamente i confini tra i due Paesi. Tuttavia le tensioni s’aggravarono nel marzo 2012 quanto le forze armate etiopi lanciarono un assalto ad alcune postazioni in territorio eritreo, come reazione al presunto addestramento in Eritrea di “gruppi sovversivi” che avrebbero dovuto effettuare attacchi contro Etiopia.

Nella consapevolezza che molte sfide dovranno essere affrontate – radicate ostilità etniche e miseria, ad esempio – non si può negare che si siano aperte promettenti prospettive di collaborazione tese a favorire lo sviluppo sociale ed economico, ed anche la libertà per le Chiese Cattolica e Ortodosse di ambo i Paesi che molto hanno sofferto. Indubbiamente restano vari problemi di natura giuridica che abbisognano di un effettivo chiarimento, specie da parte dell’eritreo Isaias che continua in un atteggiamento di ambiguità riguardo alle clausole dell’accordo. Né minori sono le difficoltà che deve superare l’etiope Ahmed il quale, per le sue aperture, ha già subito un attentato a cui è riuscito a sfuggire. Esponente degli Oromo all’interno del Fronte Democratico Rivoluzionario Etiope (la coalizione di forze al potere dal 1991, anno della deposizione del dittatore comunista Menghistu) ha stretto un patto con i rivali tigrini. Di lui non va passata sotto silenzio la lezione appresa dai genitori, musulmano il padre e convertita al cristianesimo la madre, che egli si sforza di porre in essere: è possibile la concordia tra persone di diversa ideologia e religione soltanto nel pieno rispetto reciproco.

Comunque, come racconta il sacerdote Mussie Zerai dell’Eparchia di Asmara, Ahmed si sta adoprando con energia per raggiungere una pace << che non sia solo tra questi due paesi ma che coinvolga anche altri stati vicini, come Sudan, Gibuti e Somalia, quindi in tutto il Corno d’Africa >>. In questa prospettiva una pace duratura e diffusa può diventare << un esempio per tutto il continente perché ad oggi ci sono più di venti conflitti, latenti e non, diffusi in tutta l’Africa >>.




Perché la pena di morte «è sempre inammissibile»

P. Gino Concettidi Antonio Lovascio Mentre tutti eravamo in vacanza, è stato un agosto di intenso lavoro per Papa Francesco. Che ha offerto tanti spunti di stimolo e di dibattito dentro e fuori la Chiesa. I Media, come al solito, hanno dato risalto ai temi più pruriginosi, come quello dei preti pedofili, con le scuse a tutte le vittime di abusi sessuali, chieste ripetutamente da Bergoglio durante il viaggio apostolico in Irlanda accompagnato da velenosi dossier. Oppure alle dissertazioni dei nostri Vescovi sulla correzione suggerita dal Santo Padre alla traduzione italiana del “Padre nostro” (E’ meglio dire: «Non lasciarmi cadere nella tentazione», per non dare a Dio una responsabilità che non è teologicamente fondata). Giornali e televisioni hanno invece dato meno evidenza ad un’importante modifica apportata al Catechismo (pubblicato nel 1992 in francese e nella “editio typica” latina nel 1997) per dichiarare “sempre inammissibile la pena di morte, perché attenta all’inviolabilità della persona”.

Così la Chiesa, ispirata dalla luce del Vangelo, si impegna con fermezza per la sua abolizione in tutto il mondo. La nuova versione approvata da papa Francesco fa un ulteriore passo in avanti, in continuità con il Magistero precedente; sulla spinta dei pronunciamenti di Benedetto XVI, ma soprattutto di Giovanni Paolo II. Non a caso nella Lettera esplicativa ai vescovi, la Congregazione per la dottrina della fede cita l’influsso che ha avuto l’Enciclica Evangelium vitae (1995). Noi ci permettiamo di ricordare altresì le battaglie condotte in quegli anni sull’Osservatore Romano dal teologo francescano P. Gino Concetti, che nel 1993 scrisse un libro per la Piemme sulla pena di morte, per il quale ebbe diversi attacchi: con coraggio e senza tentennamenti lo difese proprio Papa Wojtyla, oggi Santo.  Quindi si deve anche a loro se nel Terzo Millennio la posizione della Chiesa su questo tema si è ulteriormente sviluppata, tenendo conto dei mezzi che possiede la società odierna per difendersi dal criminale; si deve appunto al Pontefice polacco ed al frate marchigiano (per trent’anni professore alla prestigiosa Facoltà dell’Antonianum ed allora considerato tra i teologi più preparati del Vaticano), se la nuova formulazione del Catechismo può “costituire una spinta a un deciso impegno, anche attraverso un rispettoso dialogo con le autorità politiche, affinché sia favorita una mentalità che riconosca la dignità di ogni vita umana e vengano create le condizioni che consentono di eliminare oggi l’istituto giuridico della pena di morte laddove è ancora in vigore”.

Lo stesso Papa Francesco si rende conto che il compito è arduo, anche se nel 2017 nel mondo sono dominuite le condanne a morte. Stando al Rapporto di Amnesty Internationallo scorso anno ci sono state 993 esecuzioni in 23 stati, il 4 per cento in meno rispetto alle 1032 del 2016 e il 39 per cento in meno rispetto alle 1634 del 2015, il più alto numero dal 1989. La maggior parte delle uccisioni ha avuto luogo inCina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan. È nella più grande Repubblica popolare dell’Asia Orientale che si esegue la maggior parte delle condanne a morte, ma la reale dimensione dell’uso della pena capitale non è conosciuta perché questi dati sono considerati un segreto di Stato. Sicuramente il totale delle 993 esecuzioni rese note nel 2017 non comprende le migliaia che si ritiene abbiano avuto luogo nel Paese.

Negli Stati Uniti il numero delle esecuzioni (23) e delle condanne a morte (41) del 2017 è lievemente aumentato rispetto al 2016, ma è rimasto in linea con le tendenze, storicamente basse, degli ultimi anni. Il numero degli Stati americani che si sono “macchiati” è salito da cinque a otto. Dopo un periodo d’interruzione, sono infatti riprese le esecuzioni in Arkansas, Ohio e Virginia. Quattro Stati (Idaho, Mississippi, Missouri e Nebraska), così come le corti federali, sono tornati a emettere condanne a morte facendo aumentare a 15 (rispetto alle 13 del 2016) le giurisdizioni che hanno imposto la pena capitale. Carolina del Nord, Kansas e Oregon non hanno emesso condanne a morte, a differenza del 2016. Nel 2017 a far progredire la lotta globale per abolire la pena capitale è stata l’Africa sub sahariana.  Sempre in questa regione, la Guinea  è diventata il 20° stato abolizionista per tutti i reati, il Kenya ha cancellato l’obbligo di imporre la pena di morte per omicidio; Burkina Faso e Ciad si stanno avviando a introdurre nuove leggi o a modificare quelle in vigore.

Si è acceso dunque un nuovo faro di speranza: i progressi registrati fanno auspicare che anche in altri Paesi si possa presto veder eliminata questa estrema, crudele, inumana e degradante sanzione, incalzando ed isolando i governi o regimi che ancora la tengono in vita. L’aggiornamento del Catechismo può trasformarsi in un costante appello alla coerenza, virtù molto declamata e poco praticata. Come ci ha insegnato Cesare Beccaria, è un assurdo che le leggi, espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime: per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinano uno pubblico.




Battesimo e dimensione pasquale della vita cristiana negli insegnamenti di Paolo VI

SexYjPPESfiP_s4-mbdi Gianni Cioli • Nell’imminenza della canonizzazione di Paolo VI può essere opportuno riconsiderare uno degli aspetti peculiari del suo insegnamento spirituale e morale, ovvero quello della dimensione pasquale della vita cristiana fondata nel mistero del battesimo.

Il tema del battesimo quale partecipazione al mistero pasquale appare uno dei motivi guida della riflessione di Papa Montini.

Già nell’Ecclesiam suam egli auspicava una profonda riscoperta della coscienza battesimiale da parte di ogni cristiano (AAS 56[1964], 625-626). Nel medesimo documento, cercando di mettere a fuoco i presupposti teologici del dialogo, egli presenta il battesimo come fondamento della singolarità della vita cristiana. In tale contesto emerge quella che si potrebbe definire la chiave di volta dell’interpretazione montiniana circa il primo sacramento: la teologia presentata da San Paolo nel sesto capitolo della Lettera ai Romani. (cf. Rm 6,3-10).

La prospettiva del battesimo quale vitale inserimento nel mistero pasquale viene approfondita nella Paenitemini, là dove si ricorda che il primo sacramento configura il cristiano «alla passione, alla morte e alla risurrezione del Signore, e sotto il sigillo di questo mistero pone tutta la vita futura del battezzato». In forza di questo fondamentale presupposto Paolo VI rammenta che il fedele, seguendo il Maestro, «dovrà non vivere più per sé stesso ma per colui che lo amò e diede sé stesso per lui, e dovrà vivere per i fratelli, dando compimento ‘nella sua carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo… a pro del suo corpo che è la Chiesa’» (AAS 58[1966], 180).

Nelle sue catechesi Papa Montini ha sottolineato a più riprese l’intimo legame esistente fra il primo sacramento e l’agire morale. Egli paragona la fede battesimale, «il lumen Christi acceso nella notte della vita terrena», a una luce superiore, di fronte alla quale tutto il contenuto della realtà concreta della vita vissuta «prende forma, colore, misura, posizione, definizione». In questa fede il cristiano ha «tutto ciò che gli è indispensabile sapere per avere una visione sufficiente (anche se tuttora limitata e provvisoria) sul mondo, sulla vita, sul destino dell’uomo, e, in pratica, su ciò che è bene e ciò che è male» (Udienza generale, 12 maggio 1976).

Il battesimo, compreso nella sua pienezza di significato, «dà il senso della vera dignità della vita, distende allo sguardo dell’uomo la scala dei valori autentici, non lascia senza risposta, almeno nella vera speranza, alcun problema della vita». Esso conferendo alla vita la «gioia d’essere così interpretata» (Udienza Generale, 16 aprile 1975), «comporta un impegno morale: un forte nuovo e stupendo impegno morale» (Udienza generale, 8 maggio 1974).

La stessa realtà delle rinunzie e delle promesse poste come condizione al conferimento del primo sacramento fa chiaramente apparire tutta l’esistenza cristiana come segnata alla radice dal problema della scelta.

Una chiave interpretativa del significato teologico del sacramento la si può desumere secondo Paolo VI dal duplice simbolismo del rito: «il battesimo è un lavacro» ed è una «partecipazione mistica alla morte e alla risurrezione del Signore».

Esso, appare innanzitutto come lavacro: simbolo che rimanda alla misteriosa realtà del peccato originale da intendersi «come stato personale e proprio di ogni figlio di Adamo, impotente a redimersi da sé dalle conseguenze fatali del peccato del primo uomo» (Udienza generale, 13 aprile 1977).

La consapevolezza di tale realtà risulta di capitale importanza in ordine all’acquisizione di un corretto modo di pensare e quindi di agire. L’antropologia teologica non può ignorare il fatto che «l’uomo è un essere in cui è entrato un disordine, che possiamo dire disturbatore del suo disegno costituzionale». La scienza cristiana sull’uomo ha pure chiaro l’altro ordine di verità, «quello che ci prospetta una specie di duplicazione della nostra natura umana, sulla quale il pensiero ineffabile di Dio, a noi comunicato dalla fede, ha per così dire sovrapposto una ‘sopra-natura’, un ‘uomo nuovo’» ( Udienza generale, 20 aprile 1977).

Il secondo simbolismo del battesimo consiste nella «partecipazione mistica alla morte e risurrezione del Signore». Riconoscere tale partecipazione significa affermare un influsso del dramma di Cristo morto e risorto sulla concezione della nostra esistenza e sopra la conseguente moralità della nostra vita. Nel mistero di comunione che ci collega a Cristo, «non solo la nostra spiritualità, ma anche la nostra mentalità, la nostra concezione di vita, il nostro calcolo circa la nostra sorte futura sono trasferiti al di là del tempo, al di là dell’orizzonte presente; siamo polarizzati verso Cristo risorto, nel suo stato di gloria». Dobbiamo perciò, afferma Paolo VI, «vivere ‘escatologicamente’, cioè tesi verso il fine ultraterreno» (Udienza generale, 28 aprile 1971). È questo «uno dei canoni fondamentali della vita cristiana», che non svaluta, ma anzi valorizza il tempo presente.

Proprio perché polarizzata verso Cristo risorto, la vita cristiana non potrà mai prescindere dalla sequela di Gesù sulla via della croce: «se davvero siamo cristiani dobbiamo partecipare alla passione del Signore, e dobbiamo portare dietro i passi di Gesù, ogni giorno la nostra croce» (Udienza generale, 15 settembre 1971).

«Il fulcro della vita cristiana è la croce» (Udienza generale, 19 giugno 1974). Essa va vista «non solo come causa in Cristo della nostra redenzione; ma altresì come forma esemplare della nostra fedeltà […]. La passione di Cristo è comunicativa ai suoi seguaci» (Udienza Generale, 18 giugno 1975).

Per Paolo VI il tema della croce trova la sua concretizzazione pratica nell’ambito delle rinunzie che scaturiscono dalla coscienza battesimale del cristiano: «bisogna imporsi delle rinunzie, accettare una disciplina, scegliere una norma per essere forti, per essere fedeli, per essere cristiani. La croce segna la nostra vita».

La rinuncia cristiana, sottolinea Papa Montini, non è arbitraria, è stile autentico di vita cristiana: «primo perché comporta una classifica gerarchica dei suoi beni; secondo, perché stimola alla opzione della ‘parte migliore’; terzo, perché esercita l’uomo alla padronanza di sé; e finalmente perché istaura quella misteriosa economia della espiazione, che ci fa partecipi della redenzione di Cristo» (Udienza generale, 11 marzo 1970).

Il mistero pasquale «realizza in Cristo la sintesi della giustizia e della misericordia, dell’espiazione e del riscatto, della morte e della vita. Dolore e gioia non sono più irriducibili nemici. La legge sovrana del morire per vivere è la chiave per comprendere Cristo sacerdote e vittima, cioè nella sua essenziale funzione di salvatore» (Udienza generale, 19 aprile 1972).

In forza della sua Pasqua, Cristo ha fatto «dell’amore che così si dà fino al sacrificio, il principio fondamentale e fecondo della legge universale della moralità umana» (Udienza generale, 8 maggio 1974). Conseguentemente per il cristiano, associato per il battesimo a tale mistero di redenzione, trovare la vita morendo, o meglio diventando esistenzialmente partecipi della passione e della morte del Signore appare, per così dire, la legge sovrana dell’esistere: «Il compito di portare nel corpo e nell’anima la morte del Signore investe tutta la vita del battezzato, in ogni istante, in ogni sua espressione» (Paenitemini, ASS 58[1966], 180). Infatti «per il cristiano, è perdendosi in Dio che lo libera, che l’uomo trova la sua vera libertà, rinnovata nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo» (Octogesima adveniens, AAS 63[1971], 437). Seguendo Lui, «il Maestro, ogni cristiano deve rinnegare sé stesso, prendere la propria croce, partecipare ai patimenti di Cristo; trasformato in tal modo in una immagine della sua morte, egli è reso capace di meritare la gloria della risurrezione» (Paenitemini, ASS 58[1966], 180).

Per il cristiano la vita morale non può configurarsi altrimenti che come partecipazione al sacrificio di Cristo. Il rinnovamento morale è, secondo Papa Montini, «condizione dispositiva, che prepara l’incontro coi misteri della croce e della risurrezione di Cristo Signore, ed è conseguenza operativa per chi a tali misteri è stato associato» (Udienza Generale, 16 aprile 1975). Si può dire che tale rinnovamento morale consiste nell’esercizio del sacerdozio comune proprio di tutti i fedeli i quali, nel battesimo e nella cresima, hanno ricevuto «l’impronta di Cristo» (Udienza generale, 23 agosto 1967). L’esercizio del sacerdozio comune investe tutte le dimensioni dell’esistenza cristiana, trovando nell’Eucaristia il luogo della sua massima espressione.




Paolo VI: il primo ermeneuta del Concilio Vaticano II

Vaticano-II-3di Andrea Drigani • Come si sa l’ermeneutica è l’arte di interpretare gli antichi testi ed i documenti, e l’ermeneuta è l’interprete di testi e documenti. Il Concilio Ecumenico Vaticano II con i sui Atti (quattro Costituzioni, nove Decreti, tre Dichiarazioni) è stato oggetto, come peraltro i precedenti Concili Ecumenici, di commenti, studi, ricerche. Ma questa attività ha visto pure delle divergenze, dei contrasti nonché delle divagazioni. Da qui l’esigenza, ribadita anche di recente, di ritrovare delle regole per esercitare l’arte di un’autentica ermeneutica dei documenti del Vaticano II. Ritengo che il punto di riferimento essenziale e fondamentale per comprendere il Vaticano II sia il magistero di Paolo VI. Il Concilio era stato indetto ed inaugurato, nel 1962, da San Giovanni XXIII, ma alla sua morte, nel 1963, per il diritto canonico, il Concilio era ipso iure sospeso e solo il nuovo Romano Pontefice poteva ordinare di proseguirlo o di scioglierlo. Paolo VI, il giorno stesso della sua elezione, ne decretò la continuazione. Sempre secondo il diritto canonico Paolo VI è stato il Pontefice che ha dato forza obbligante agli atti del Vaticano II, con la sottoscrizione insieme agli altri Padri Conciliari, con la conferma e per suo comando la promulgazione. Tra i molteplici interventi di Papa Montini sul Concilio ne vorrei presentare due: uno è l’allocuzione del 7 dicembre 1965 al termine dell’ultima sessione pubblica, l’altro è l’omelia dell’8 dicembre 1966, nel primo anniversario della conclusione del Vaticano II. Nell’allocuzione del 7 dicembre 1965 Paolo VI si chiedeva quale fosse il valore «religioso» del Concilio, intendendo per «religioso» il rapporto diretto col Dio vivente, rapporto che è la ragion d’essere della Chiesa e di quanto la Chiesa crede, spera, ama, è e fa. Dinanzi al laicismo – proseguiva Papa Montini – che sembra la conseguenza del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società, il Concilio nel nome di Cristo e con l’impeto dello Spirito Santo, ha dato una visione profonda e panoramica della vita e del mondo. «La concezione teocentrica e teologica dell’uomo e dell’universo – aggiungeva Paolo VI – quasi sfidando l’accusa di anacronismo e di estraneità, si è sollevata con questo Concilio in mezzo all’umanità, con delle pretese, che il giudizio del mondo qualificherà dapprima come folli, poi, Noi lo speriamo, vorrà riconoscere come veramente umane, come sagge, come salutari». Paolo VI ricordava ancora come i documenti conciliari principalmente quelli sulla Divina Rivelazione, sulla Liturgia, sulla Chiesa, sui Sacerdoti, sui Religiosi, sui Laici, lasciano chiaramente trasparire questa diretta e primaria intenzione «religiosa». La Chiesa del Concilio – continuava Papa Montini- si è occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che la unisce a Dio, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta, per giungere a rammentare che per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio, come diceva Santa Caterina da Siena: «nella tua natura, Deità eterna, conoscerò la natura mia». Tutto il Concilio – concludeva l’allocuzione – si risolve nel suo conclusivo significato «religioso», altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio «dal Quale – per Sant’Agostino – allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è necessario, nel Quale abitare è vivere». Il tema della fedeltà al Concilio è l’oggetto principale dell’omelia pronunciata da Paolo VI l’8 dicembre 1966, nel primo anniversario della conclusione del Concilio. Nel ribadire il dovere di comprendere e seguire il Concilio per quanto insegna e prescrive, Papa Montini affermava che era necessario evitare due errori: il primo «quello di supporre che il Concilio Ecumenico Vaticano II rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch’esso sia una novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseudo-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato…il Concilio tanto vale quanto continua la vita della Chiesa; esso non la interrompe, non la deforma, non la inventa; ma la conferma, la sviluppa, la perfeziona». Il secondo errore, per Paolo VI, contrario alla fedeltà al Vaticano II «sarebbe quello di disconoscere l’immensa ricchezza di insegnamenti e la provvidenziale fecondità rinnovatrice che dal Concilio stesso ci viene. Volentieri dobbiamo attribuire ad essa virtù di principio, piuttosto che compito di conclusione». L’ormai prossima canonizzazione di Paolo VI, oltre che ad avere uno nuovo intercessore in cielo, sia di aiuto per favorire nel popolo di Dio una recezione del Vaticano II seguendo i suoi insegnamenti.




Balthasar. La kenosi, il dramma, la gloria

Lubathazar2di Francesco Vermigli • Trent’anni fa moriva Hans Urs von Balthasar, germanista, teologo, prete. Ha qualcosa di simbolico la sua morte: nominato cardinale da Giovanni Paolo II, morì a Basilea nel giugno del 1988, due giorni prima dell’imposizione della berretta. In fondo, come nei film più intricati e appassionanti, anche nella vita degli uomini è dalla fine che si può capire il tratto di tempo che essi hanno trascorso su questa terra. Ed è dunque alla vita di questo uomo di Chiesa che vorremmo ora indirizzare il nostro sguardo, a partire da quel momento finale; dopo che in questa stessa rivista abbiamo già affrontato un punto specifico, ma dirimente della sua teologia (La riforma del Triduo pasquale e la teologia di Balthasar, nel numero del maggio 2015).

Su Balthasar si riporta di frequente l’opinione di de Lubac, che ebbe a definirlo come «l’uomo più colto della nostra epoca»: se vera, questa affermazione serve come messa in guardia dalla presunzione di poter abbracciare in poco spazio un pensiero eccezionalmente articolato, complesso ed erudito. Come si diceva sopra, ha un che di simbolico la morte di Balthasar, perché appare coerente con uno dei pilastri del suo pensiero. La teologia del gesuita originario di Lucerna – divenuto poi prete secolare – è innanzitutto teologia della kenosi. Come noto, il termine è nella Scrittura un apax che compare nella forma verbale solo a Fil 2,7, e indica lo “svuotamento” che Cristo ha compiuto entrando in questo mondo. Tale svuotamento – quel medesimo svuotamento che pare segnare proprio la conclusione della vita di Balthasar – il teologo svizzero lo proietta nell’eternità; come lo “stile” delle persone della Trinità, che reciprocamente si svuotano e si “espropriano”. In questo senso, dunque, la kenosi di Cristo si pone come la manifestazione storica di uno “stile” eterno, che corrisponde alla medesima essenza di Dio.

Quando Dio entra nella storia, si manifesta nella forma di una radicale novità; giacché svela un modo d’essere eterno che mediante la kenosi e l’autoespropriazione rompe lo schema mondano; che è lo schema, piuttosto, dell’appropriazione e del dominio. Quando Dio entra nella storia, la sua presenza si pone come un appello rivolto alla coscienza dell’uomo perché risponda alla rivelazione. Quando Dio entra nella storia è un “caso serio”, che interpella la libertà e che si contrappone ad ogni possibile linea di “cristianesimo anonimo”, dove rispondere o non rispondere ad un’eventuale rivelazione divina sembra quasi indifferente (ci riferiamo ovviamente all’ostilità per l’antropologia trascendentale di Rahner, espressa da Balthasar in Cordula ovverosia il caso serio). Per questo, quando Dio entra nel mondo e, soprattutto, quando muore “fatto peccato” per gli uomini, questi momenti si presentano nella forma di un dramma, che chiede la corrispondenza dell’uomo. Non è da escludere che alla radice dell’accentuazione per la theologia crucis (dove la croce è il luogo del grande svelamento della kenosi cristica, più ancora dell’incarnazione) e più in generale per questo tratto drammatico della rivelazione divina stia una forte influenza del pensiero luterano; influenza favorita dall’ambiente originario di Balthasar (la Svizzera tedesca, dove si incontrano il cattolicesimo e il variegato mondo protestante), dall’amicizia con Karl Barth e – ci pare, ancor di più – dalla simbiosi spirituale con Adrienne von Speyr, passata al cattolicesimo dalla confessione luterana.

Veniamo all’ultima delle tre parole che compaiono nel titolo di questo nostro articolo: gloria. Gloria (Herrlichkeit) compare come prima parola nel titolo della sua celeberrima opera in più volumi dedicata all’estetica teologica. Gloria, soprattutto, è il termine che risente di una forte ispirazione fenomenologica: Herrlichkeit è lo splendore luminoso e abbacinante della Gestalt (forma) di Dio che compare nella storia e si dona all’uomo. Ora nel quadro generale di una teologia fondata sulla kenosi e sul dramma, tale gloria di Dio appare (alla maniera luterana…) sub contrario: è l’essere di Dio che si dà nel mistero salvifico della croce. In breve, la gloria della rivelazione divina secondo von Balthasar ha i tratti di una gloria kenotica.

Proponiamo ora alcune considerazioni conclusive. Balthasar ha vissuto in una stagione felice della teologia cattolica: una stagione di rinnovamento (segnato dalle parole di un suo libro uscito nel 1952: “i bastioni da abbattere”) e di successivo riassestamento (come mostra la fondazione della rivista Communio assieme a de Lubac e Ratzinger). La scontata dialettica con Rahner talvolta ha condotto a creare fazioni. Se questo fatto è accaduto e se accade ancora oggi, forse è perché si pensa malamente la teologia. In fondo il Dio Trino e Uno è così grande da poter sopportare tanto l’estetica teologica di Balthasar, quanto l’antropologia trascendentale di Rahner. Si direbbe, che in Dio vige – per dirla alla maniera di Graziano – la concordantia discordantium e – alla maniera del Cusano – la coincidentia oppositorum.




Ponti e pontefici

 

augustodi Stefano Tarocchi • In questi tempi difficili in cui i ponti crollano, portandosi dietro il loro carico di dolore e di sofferenza, e ponendo interrogativi a non finire – e risposte inadeguate e contraddittorie – , vorrei riflettere sul senso di una parola e delle sue implicazioni. D’altra parte, nella nostra storia, in Italia ed Europa, ci sono ponti costruiti venti secoli fa, che ancora adempiono egregiamente al loro compito, sulle strade di città e paesi, per il passaggio di uomini e di mezzi, e come acquedotti perfettamente funzionanti.

Il termine «ponte» deriva dal vasto mondo del bacino linguistico indoeuropeo. Fra esse spiccano il sanscrito e una lingua liturgica iranica.

Solo verso la fine del ‘700 venne scoperto il collegamento tra il sanscrito e una serie di lingue provenienti di un’origine comune, il protoindoeuropeo, che comprende la maggior parte delle lingue d’Europa, vive ed estinte, che attraverso il Caucaso e il Medio Oriente da un lato, e la Siberia occidentale e parte dell’Asia Centrale dall’altro, sono arrivate a coinvolgere l’Asia meridionale.

Ebbene, il termine del sanscrito da cui nasce la nostra parola «ponte» ha di fatto due significati: il primo significato è “via, sentiero, cammino”; il secondo è invece, inaspettatamente, “mare”.

A nessuno verrebbe in mente di accostare alla parola latina,  da cui deriva il nostro “ponte”, il termine greco pontos, che invece significa “mare”. In realtà il ponte è il collegamento, la congiunzione, tra due strade distanti fra loro, che il ponte unisce, per crearne una nuova. E, come ci insegnano gli eventi recenti, il crollo di un ponte è sicuramente l’interruzione di una strada, un percorso, e quindi della vita di relazione, ad essi legata.

Ma è realmente possibile vedere un legame fra un ponte e il mare? Di fatto, il Mar Nero era chiamato dai greci Ponto Eusino, ossia “mare ospitale” (il termine più antico, tuttavia, era però il più attuale “mare inospitale”). Per di più, abbiamo in Italia il sito archeologico di Metaponto(che significa “Al di là del mare”, e l’eloquente Agro Pontino.

Perché nell’Europa greca e latina la stessa parola può indicare lo “scavalco” di una valle, per esempio quella scavata da un fiume – è la ragione principale per cui costruiamo ponti dalle nostre parti – ed un mare che permette di “scavalcare”, cioè accorciare i percorsi fra due terre, separate da una depressione o da un fiume?

Qui anche i nostri Vangeli ci sono d’aiuto. Ad esempio, così leggiamo nel Vangelo di Matteo: «Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva» (Mt 8,18). Così si dice che Gesù è «giunto all’altra riva, nel paese dei Gadarèni» (Mt 8,28). Al ritorno, lo stesso Gesù «salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città, Cafarnao» (Mt 9,1). Più avanti si narra che «subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla» (Mt 14,22). Ma anche in Marco leggiamo di Gesù che «in quel medesimo giorno, venuta la sera, disse ai discepoli: «Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35), finché «li lasciò, risalì sulla barca e partì per l’altra riva» (Mc 8,13).  E così via.

I Vangeli sono perciò unanimi nel dirci che un tratto di mare è la via più breve fra due terre, due città situate sulle rive del mare di Galilea.

. La creazione di strade, di percorsi, ha anche un valore religioso, e non solo nelle Scritture. Se il “sacro” indica la separazione, il “profano”, che sembra opporvisi, è in realtà ciò che è potenziale in dialogo con il sacro: il termine, è infatti composto  di pro, «davanti» e fanum, «tempio, luogo sacro». Quindi designa ciò che «che sta fuori del sacro recinto» ed ha bisogno di essere collegato con esso: l’umano necessita di entrare in contatto con il divino, attraverso una strada, come dimostra alle nostre latitudini un ponte, oppure, in altre geografie, un tratto di mare. Si presenta cioè un bisogno ineludibile di avvicinare l’umano al divino, con tutte le conseguenze del caso.
Ecco perciò che dal ponte nasce anche il pontefice, il «sacerdote che costruisce la via». Se nell’antichità, evidentemente a Roma, il nome sembra designare coloro che curavano la costruzione del ponte sul Tevere, come sembra dire l’origine del nome, in numero oscillante da 5 a 9, è maggiormente vero che in realtà i pontefici stabilivano in base a quali regole un qualsiasi rito – sacrale, processuale o negoziale che fosse – doveva essere compiuto, perché potesse considerarsi valido, e tali regole erano di volta in volta comunicate a chi lo richiedesse. Quindi, al contrario di altri sacerdoti, i pontefici non assolvevano a precise funzioni di culto, ma ne ponevano le condizioni.

Essi erano presieduti da un pontefice massimo elettivo, finché nel 12 a.C. Augusto fece propria la carica. Essa sarebbe rimasta prerogativa di tutti i successivi imperatori, fino all’era cristiana inoltrata, fin quando nella Chiesa cattolica, il titolo fu presto usato per indicare i vescovi, e in particolare il vescovo di Roma.
Con Tertulliano (155-230), per la prima volta, il vescovo di Roma è chiamato pontefice massimo.

Questa è un’altra storia, ma vediamo bene quanto è difficile per il vescovo di Roma indicare una via, senza che non sorgano frange estreme intenzionate a demolire il suo ruolo, nell’attaccare la persona. Nuovi e devastanti distruttori di ponti, destinati comunque a fallire. Lo impediscono la fede evangelica… e l’eredità delle lingue indoeuropee.