Presentazione degli articoli del mese di settembre 2019

ob_0e4448_beata-vergine-8-settembreAndrea Drigani ripercorre brevemente la storia dello IOR dal 1942 ad oggi, che con i rinnovati Statuti potrà continuare la sua azione in conformità alle specifiche norme vaticane ed internazionali, nella fedeltà agli scopi originari ed ai principi dell’etica cattolica. Giovanni Campanella recensisce il volume di Paolo Muniz, che riporta la cronaca di un viaggio nei monasteri benedettini d’Europa, dal quale emerge l’opera di San Benedetto per resistere alla dissoluzione, che un millennio e mezzo fa era più grave di quella dei nostri giorni. Leonardo Salutati, in questi attuali frangenti, richiama la dottrina cattolica tradizionale sulla politica, la sua necessità e i suoi fondamenti, contenuta nella Costituzione conciliare «Gaudium et Spes» e nella Lettera Apostolica «Octagesima adveniens» di San Paolo VI. Mario Alexis Portella dopo aver compiuto, nel mese scorso, una visita in Nigeria, in particolare nella diocesi di Maiduguri, relaziona sulla persecuzione dei cristiani in quelle terre ad opera degli islamisti, che violano grandemente l’esercizio del diritto alla libertà religiosa. Antonio Lovascio svolge una rigorosa disamina della situazione dei giovani in ordine al precariato ed alla disoccupazione, con dei risvolti preoccupanti anche in ambito sociale e morale, indicando nella formazione la possibilità di risolvere le questione. Francesco Vermigli ci guida alla lettura del romanzo «Un grande divorzio. Un sogno» di Clive Staples Lewis, che esorta a pensare la vita che si colloca nel tempo e nello spazio come vita che può essere già fuori del tempo e dello spazio. Gianni Cioli dalla pubblicazione degli atti di un seminario promosso dall’ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale) rileva che il dialogo interdisciplinare con le scienze empiriche è imprescindibile per una teologia morale interessata alle problematiche dell’umanità. Alessandro Clemenzia presenta l’ultimo libro di Massimo Recalcati sulla tremenda e misteriosa notte del Getsemani, nella quale, tra l’altro vi è la preghiera di Gesù, che forse non è da intendersi come il recupero di forze da parte dell’Io, ma un atto di offerta senza condizioni al di là dell’Io. Giovanni Pallanti con il volume «La patria europea» di Bruno Forte rammenta l’opera di De Gasperi, Adenauer, Schuman e Monnet, esponenti della cultura cattolica, che operarono, tra numerose difficoltà, per una nuova Europa, iniziando un cammino che necessita ancora di essere proseguito. Stefano Tarocchi invita ad un’attenta considerazione, alla luce della Lettera agli Ebrei, circa la figura di Abramo come lo straniero che si fida totalmente di Dio, partendo senza sapere dove andare, segno dell’avventura di ogni cristiano. Dario Chiapetti coglie l’occasione dal libro di Giorgio Karembelas, per ripresentare la «repubblica monastica» del Monte Athos con i suoi 1500 monaci-cittadini, con l’esperienza di uscire dal modo di esistere umano e andare verso il modo d’essere di Dio. Francesco Romano, a completamento di quanto già scritto su questa Rivista riguardo al Motu Proprio «Communis vita», osserva che la dimissione «ipso facto» per coloro che abbandonano la casa religiosa, non va ritenuta una pena, bensì una salvaguardia per la vita e lo spirito degli istituti di vita consacrata. Stefano Liccioli annota sul discernimento, con l’aiuto del saggio di Luigi Maria Epicoco, con le categorie del «decidere» (lasciare qualcosa per scommettere la propria vita) e «perseverare» (mantenere la scommessa). Carlo Nardi rammenta il ruolo avuto nella storia dell’esegesi biblica dell’allegoria, cioè quel dire altro rispetto alla lettura e oltre il testo.




ll genocidio contro i cristiani in Nigeria

Rifugio temporaneo per i cristiani - L’autore con le vedove e orfani cristiani - molti di loro erano imprigionati e abusati da Boko Haram (Foto: collezione personale dell'autore)

Rifugio temporaneo per i cristiani – L’autore con le vedove e orfani cristiani – molti di loro erano imprigionati e abusati da Boko Haram (Foto: collezione personale dell’autore)

di Mario Alexis Portella La maggior parte di noi in Occidente ha sentito parlare del rapimento di 276 studentesse della scuola secondaria del governo nella città di Chibok, nello Stato di Borno (nordest), in Nigeria, nel 2014 da parte di Boko Haram. Uno degli obiettivi di Boko Haram – che ha rapito migliaia di ragazze, ragazzi e donne, costringendo alcuni di loro a farsi espodere, uccidendo migliaia di altri e sfollati milioni – è quello di impedire ai bambini di ricevere ciò che percepisce come un’istruzione di tipo occidentale. Ciò che generalmente è mancato a tali rapporti è la loro fine generale, come con altri islamisti, di sradicare i cristiani al fine di imporre una società basata sulla sharia.

La persecuzione cristiana in Nigeria, che può essere fatta risalire al califfato di Sokoto (1804-1903), è aumentata dal 2015 quando Muhammadu Buhari è stato eletto presidente. Il vescovo (defunto) cattolico Joseph Bagobiri della diocesi di Kafanchan (Nigeria nordoccidentale che ha avuto la sharia dal 1999) aveva dichiarato: “Alla persecuzione dei cristiani in Nigeria non è stato dato lo stesso livello di attenzione internazionale dei cristiani perseguitati in Medio Oriente”. Un esempio più recente di questo – non segnalato dai media mainstream occidentali – è stato l’uccisione di padre Paul Offu (Nigeria meridionale) per mano dei pastori islamici Fulani il 1 ° del mese. Ciò ha permesso all’ex presidente nigeriano, Olusegun Obasanjo, di scrivere una lettera aperta al presidente Muhammadu Buhari, avvertendolo del rischio di un “genocidio in stile ruandese” dei cristiani in Nigeria se il governo non prendesse misure immediate per fermare la violenza – Buhari non ha ancora condannato i militanti Fulani come terroristi poiché proviene dalla stessa tribù. Ciò che si può supporre è che tutto ciò faccia parte di un’operazione ben organizzata per sterminare del tutto i cristiani.

Il mese scorso ho avuto l’opportunità di visitare i cristiani perseguitati dai fondamentalisti musulmani, in particolare Boko Haram, nella diocesi cattolica di Maiduguri (Nigeria nord-orientale). Mentre viaggiavo attraverso il terreno per lo più di 51.000 miglia quadrate – nella periferia della città di Maiduguri – ho trascorso un po ‘di tempo con una donna il cui marito, Yohanna, era stato rapito da Boko Haram solo due giorni prima. Fu molto confortata dai parrocchiani della sua parrocchia di Sant’Agostino, che pregavano e speravano contro la speranza che fosse liberato. Purtroppo, poche ore dopo aver trascorso un po ‘di tempo con lei, fu trovato il cadavere di Yohanna. Come l’omicidio di Offu, questa è solo una delle tante storie tragiche che non vengono riportate. Mentre l’Occidente guidato dagli Stati Uniti e le ONG sostengono di poter scacciare il terrorismo islamico con le armi – proprio come con l’ISIS – non riescono ad arrivare alla radice del problema, e questa è l’ideologia della sharia che continua ad essere indottrinata nella gioventù, come con i ragazzi di Almajiri.

Derivati dalla parola “hajarah” (fuggire dal proprio paese, migrare, emigrare), si suppone che questi ragazzi siano “ricercatori” della conoscenza come comandato da Allah nel Corano: “E chiunque emigra per la causa di Allah troverà sulla terra molte località [alternative] e abbondanza. E chiunque lasci la sua casa come emigrante di Allah e del suo Messaggero e poi la morte lo superi – la sua ricompensa è già diventata incombente su Allah”. – Sura 4, 100

Per molte famiglie, il sistema Almajiri è un’alternativa all’invio in una scuola statale che costa denaro. La maggior parte delle scuole religiose offre lezioni gratuite. Ma gli alunni di Almajiri devono prendersi cura dei propri bisogni quotidiani, motivo per cui molti di loro chiedono l’elemosina quando non devono essere in classe. Secondo il rapporto del Consiglio nazionale per il benessere delle indigenti nel 2017, circa 7 milioni di Almajiri vagano per le strade del nord della Nigeria ogni giorno. Molti di loro concedono al vento più forte che soffia: violenza di strada, traffico di bambini, malattie o fame. Coloro che riescono a resistere alla loro vulnerabilità e alle lamentele all’interno della società rimangono non qualificati e alla fine intraprendono lavori umili con prospettive future molto limitate. I critici, sia dalla Nigeria che dall’estero, affermano che i giovani allievi di Almajiri – e ne ho incontrati numerosi – che vagano per le strade e cercano un orientamento religioso sono reclute ideali per gli estremisti.

Un ragazzo Almajiri nello Stato del Borno (foto: collezione personale dell’autore)

Un ragazzo Almajiri nello Stato del Borno (foto: collezione personale dell’autore)

Naturalmente, negli ultimi anni, alcune delle vittime di Boko Haram e dei nomadi Fulani sono state musulmane. Tuttavia, quando viene compiuta la distruzione di vite e proprietà e si tratta di riabilitazione / ricostruzione e ricostruzione di vite, i fondi del governo vengono utilizzati per riabilitare le comunità musulmane e compensare i musulmani, nel frattempo i cristiani vengono esclusi e discriminati. Alcune delle forme visibili e pratiche di persecuzione e sfide che i cristiani hanno imparato a convivere per decenni includono:

  • negazione della terra per costruire luoghi di culto (chiese). L’ultima volta che è stato rilasciato un certificato di occupazione per un edificio di chiesa all’interno della diocesi di Maiduguri è stato nel 1979;

  • negazione dei curricula religiosi cristiani nei livelli primario e secondario; invece sono costretti a studiare l’Islam.

  • diniego di posti di lavoro e promozione nei parastatali governativi;

  • esclusione politica e diniego della carica politica;

  • rapimento e matrimonio forzati di ragazze cristiane;

  • corsi riservati ai musulmani nelle istituzioni superiori di apprendimento.

Come mi ha detto padre John Bakeni, sacerdote di Maiduguri, la persecuzione dei cristiani è prevalente. “Circa quattro anni fa sono venuti da noi. Non c’era posto dove stare. Nessuno voleva accoglierli, nemmeno le comunità abitative. La diocesi è stata la sola responsabile del loro benessere e della loro manutenzione. Come altri centri di sfollamento, hanno ricevuto poca o nessuna attenzione da parte del governo. Nemmeno le ONG di origini e origini cristiane. La gente non vuole che lo diciamo in pubblico, ma questo è il fatto.”

Il vescovo di Maiduguri, il più. Il Rev. Oliver Dashe Doeme, oltre ad accogliere le vittime dell’islamismo, ha anche acquistato terreni per creare cliniche, non solo per i propri fedeli, ma per chiunque abbia un disperato bisogno di cure mediche, oltre a ricostruire chiese e scuole parrocchiali per educare i giovani. I bisogni sono costosi, ma lo spirito dei cristiani nigeriani è forte, non solo per perseverare nella loro fede ma per aiutare a ripristinare la pace e la stabilità in Nigeria.

Nonostante il genocidio in corso dei nostri fratelli e sorelle nigeriani, la loro fede non è solo forte, ma esemplare. Ovunque andassi non incontrai un singolo cattolico nigeriano senza un sorriso. Eppure, mentre i bambini vanno a scuola in scuole all’aperto e in terra battuta, adorano in chiese di ricostruzione bombardate e in fase di ricostruzione, e senza un posto sicuro e stabile in cui vivere, continuano a portare un’incredibile testimonianza della fede cattolica. Nella cattedrale di nuova costruzione di Maiduguri – recentemente consacrata lo scorso luglio – nel canto delle parti di massa latine, c’erano 2.500 fedeli alla messa delle 7 del mattino che celebravo per loro. Preghiamo non solo per loro, ma cerchiamo anche di aiutarli in tutti i loro bisogni.

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Per favore, si chiede la cortesia di fare una donazione per aiutare i cristiani nel nord-est della Nigeria! La diocesi di Maiduguri copre tre stati: Adamawa, Borno e Gombe.

Banca: Diamond Bank Plc, Maiduguri Branch Nigeria.
Nome del conto:
Catholic Diocese of Maiduguri: Pastoral Centre Account
Numero di conto: 0004900097
IBAN
 – GB18CITI18500808761124

N. B. Tutte le Transazioni con la banca Diamond dall’Europa passano attraverso la loro banca agente (Citi Bank) con i seguenti dettagli: Citibank NA – Main Operation Center, Lewisham House 25, Molesworth Street, Lewisham – Londra SE1 37EX




Il futuro dei giovani? Dipende dalla scuola

terzamissionedi Antonio Lovascio • Abbiamo vissuto l’estate con una crisi politica surreale, grottesca, accompagnata da un’ulteriore frenata della nostra economia. Niente crescita all’orizzonte. I numeri parlano chiaro ormai da tempo e la risposta delle classi dirigenti, quella politica per prima, sono state finora del tutto inadeguate: 10 milioni di italiani non hanno lavoro o l’hanno precario , almeno 5 milioni di posti potrebbero essere a rischio per l’impatto delle nuove tecnologie. Abbiamo perso quasi 2 milioni di posti di lavoro rispetto a 10 anni fa tra le persone sotto i 35 anni. E poi registriamo il 35% di disoccupati giovanili e 25% di NEET (giovani che non studiano né lavorano, ndr). Sono numeri terribili. che ci mettono tra i peggiori Paesi in assoluto. E non a caso siamo tra gli ultimi in Europa come investimenti in istruzione.

Non c’è quindi da stupirsi se tante famiglie hanno letteralmente paura del futuro ed esprimono avvilimento e a volte rabbia, alimentate in parte anche da chi strumentalizza queste situazioni di disagio a fini elettorali . Da chi semina panico dopo aver fatto tante promesse e messo in atto politiche (pensioni a quota 100, reddito di cittadinanza) che, alle luce dei fatti, si sono rivelate invece autentici flop non avendo favorito l’atteso ricambio generazionale nel mondo del lavoro: solo tre ingressi di fronte a dieci che hanno lasciato anticipatamente!.

Occorre quindi cambiare rotta, con misure adeguate e concrete che facciano ripartire la crescita e insieme contrastino le varie forme di populismo ed estremismo che abbiamo davanti agli occhi in Italia ed in tutto il mondo sviluppato e ancora libero: la storia dice che situazioni di questo genere possono mettere a rischio addirittura la democrazia. Il futuro dei nostri giovani, il futuro del nostro Paese, passa attraverso la scuola, per cui non dobbiamo prima di tutto permettere che essa perda la sua funzione educativa e formativa. È necessario ridarle quella linfa vitale, trasmetterle quella speranza che deve sempre essere l’ultima a morire, come ricorda Papa Francesco orientando la missione della Chiesa. Le Istituzioni, il mondo della Cultura, i docenti, i genitori, gli alunni sono chiamati – ciascuno nel proprio ruolo – a mettere il loro mattone in quest’opera di ricostruzione che deve partire anche dal basso, per correggere scelte sbagliate imposte dall’alto, dalla politica.bollettino-excelsior-intestazione

Non vorremmo essere nei panni dei nostri diplomati che devono decidere se proporsi subito sul mercato del lavoro sempre più condizionato dalla globalizzazione o proseguire il percorso di studi. Mai come in questo momento sono necessarie scelte oculate, ben soppesate, cercando di conciliare le proprie attitudini ed i propri interessi culturali con la realtà produttiva e lavorativa, per evitare di avere poi domani cocenti delusioni. Qualche suggerimento può venire dall’indagine appena sfornata da Unioncamere e Anpal, da cui si rileva che, a livello di tendenza, i contratti offerti dalle imprese ai diplomati nel 2018 erano il triplo di quelli per cui era richiesto il possesso di laurea.

Tra i diplomi più richiesti dalle imprese spiccano quelli ad indirizzo finanziario e marketing, seguiti dal meccanico e meccatronico, dal settore turistico ed enogastronomico, dall’elettronica ed elettrotecnica e dall’informatica e telecomunicazioni. Tra le professioni di sbocco per i diplomati, il 51,8% dei disegnatori industriali è difficile da reperire; difficoltà anche superiori si registrano per i tecnici elettronici (57,7%) e per gli elettrotecnici (71,5%).

Per quanto riguarda i laureati, la richiesta da parte delle imprese interessa principalmente gli indirizzi economico, ingegneria, insegnamento, comparto sanitario e paramedico. Anche in questo caso le difficoltà di reperimento per i profili di sbocco dei laureati sono spesso elevate: 48,4% per gli specialisti nei rapporti con il mercato, il 52,5% per gli ingegneri energetici e meccanici e il 64,8% per gli analisti e progettisti di software.

Scienza e tecnologia hanno indubbiamente sviluppato nuove opportunità, ma allo stesso tempo hanno reso obsoleti numerosi lavori. Molti nuovi mestieri stanno emergendo, ma altrettanti posti di lavoro attuali – ci sono indagini che parlano addirittura del 50 per cento – sono a rischio: non solo quelli manuali o amministrativi, ma pure quelli più professionali. Ecco perché la sfida da cogliere è ridisegnare il sistema educativo, con un grande investimento nella Scuola tecnica secondaria. Tenendo appunto presente che la disoccupazione giovanile si batte solo con la formazione.




Natura ed effetti della dimissione ipso facto dall’Istituto religioso (can. 694)

maxresdefaultdi Francesco Romano • Con il motu proprio Communis vita pubblicato il 19 marzo 2019, di cui ci siamo occupati su questa Rivista lo scorso maggio, il can. 694 si è accresciuto di una nuova fattispecie, l’assenza illegittima dalla casa religiosa per dodici mesi ininterrotti durante i quali il religioso si rende irreperibile, andando ad aggiungersi all’abbandono notorio della fede cattolica (§1) e all’attentato al matrimonio contratto anche solo civilmente (§2).

Gli effetti previsti dal can. 694 comportano obbligatoriamente la dimissione del religioso dall’Istituto. Si tratta di dimissione a iure ovvero ipso facto, con effetto automatico per il fatto stesso di aver abbandonato in modo notorio la fede cattolica, di aver attentato al matrimonio e di essersi illegittimamente assentato in modo irreperibile dalla casa religiosa per dodici mesi ininterrotti.

La dimissione avviene senza seguire la consueta procedura prevista dai cann. 697-699, cosicché gli effetti che si producono avvengono ipso facto, cioè a partire dalla commissione del fatto stesso, prima ancora che il Superiore la formalizzi con l’atto di dichiarazione perché possa constare anche giuridicamente in foro esterno.

Il Codice di Diritto Canonico, oltre alla dimissione a iure di cui sopra, prevede per altre fattispecie la modalità di dimissione ab homine in cui il superiore competente, in base alle risultanze istruttorie acquisite, decreta la dimissione che potrà essere obbligatoria (can. 695) o facoltativa (can. 696). Pertanto, nella dimissione a iure è la commissione del fatto stesso (ipso facto) a determinarne gli effetti giuridici e non la dichiarazione del superiore competente che deve solo registrare il fatto accaduto e non emanare il giudizio come avviene per la dimissione ab homine.

È evidente che aver incluso le tre fattispecie nella formula di dimissione ipso facto, in forza del fatto stesso commesso, dipende dalla particolare gravità del comportamento tenuto dal religioso, del tutto incompatibile con gli elementi strutturali che caratterizzano gli Istituti di vita consacrata (cf. cann. 597 §1; 598). Gli effetti della dimissione ipso facto, piuttosto che una sanzione, sono una tutela per la comunità religiosa di ascrizione del dimesso. Vogliamo, però, fin da subito fare osservare che la formula usata di dimissione ipso facto non equivale a quella di pena latae sententiae.

La condivisione della fede cattolica è il primo requisito per essere ammessi a un Istituto religioso (cf. can. 597 §1) che rappresenta anche uno dei punti che contrassegnano la piena comunione con la Chiesa cattolica (cf. can. 205). Inoltre, “per fede cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell’unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate dal Magistero solenne della Chiesa e dal suo Magistero ordinario e universale” (can. 750).

Nel presentare i delitti codificati contro la religione e l’unità della Chiesa il Codex inizia con quelli di apostasia, eresia e scisma che prevedono la pena della scomunica latae sententiae (cf. can 1364). Si tratta appunto di delitti contro la fede cattolica che per produrre effetti giuridici in foro esterno deve essere abbandonata in modo notorio. L’ambito di applicazione di questa pena non deve essere confusa con la dimissione ipso facto dall’Istituto religioso prevista dal can. 694 perché questa dimissione non può essere qualificata come pena latae sententiae.DSC_0251

Il delitto di attentato al matrimonio contratto anche solo civilmente può comportare per il religioso due diversi tipi di pena. Infatti, il religioso chierico incorre nella sospensione latae sententiae dall’esercizio del ministero sacro (cf. can. 1394 §1), mentre il religioso laico di voti perpetui, non chierico, incorre nella pena dell’interdetto latae sententiae (can. 1394 §2). Per entrambi i religiosi, chierici e laici, l’attentato al matrimonio comporta anche la dimissione ipso facto dall’Istituto religioso (cf. can. 694), ma si tratta di una sanzione del tutto autonoma rispetto alla pena latae sententiae.

La terza fattispecie inclusa nel can. 694 dal motu proprio Communis vita di assenza ingiustificata e protratta ininterrottamente per oltre un anno dalla casa religiosa (cf. can. 694 §3) segue gli effetti previsti per le altre due comportando la dimissione ipso facto dall’Istituto religioso.

Ciò che contraddistingue la vita religiosa è la coabitazione nella medesima casa legittimamente costituita, la sottomissione al proprio superiore designato secondo il diritto, la condivisione di un regime di vita che include elementi spirituali, materiali e disciplinari (cf. can. 607 §1). Per questo l’assenza dalla comunità è una minaccia per il senso di appartenenza fino a portare allo smarrimento non riconoscendo più il valore del patrimonio che si esprime nel carisma di un istituto e quindi la propria identità.

Le fattispecie esaminate che comportano la dimissione dall’Istituto religioso ipso iure e ipso facto per atti ex delicto, quali l’attentato al matrimonio e l’abbandono notorio della fede cattolica, non sono da mettersi erroneamente in relazione con la pena latae sententiae.

La dimissione ipso facto dall’Istituto religioso disposta dal can. 694 §§1-3 non possiede i requisiti per essere considerata una pena medicinale e non è annoverata tra le sanzioni penali. Anche per le prime due fattispecie del can. 694 la dimissione ipso facto non avviene per effetto della violazione di una legge penale, come ad esempio l’attentato al matrimonio (cf. can. 1394) o la defezione dalla fede cattolica (cf. can. 1364), essa non è sanzionata da una legge penale, ma da una norma disciplinare codificata al can. 694.

La finalità della pena medicinale è l’emendazione del reo attraverso la proibizione dell’esercizio di diritti e doveri che gli sono propri e riconosciuti all’interno della Chiesa. Al contrario, la perdita dello stato di vita consacrata del religioso non è una pena finalizzata all’emendazione e al rientro nell’Istituto, ma si configura piuttosto come sanzione che comporta la dimissione dall’Istituto religioso e quindi la privazione di diritti e doveri che gli sono propri. In tal senso, la formula ipso facto applicata alla dimissione dall’Istituto religioso non equivale a quella di latae sententiae prevista per una pena medicinale. Neppure può essere annoverata tra le pene espiatorie perpetue perché non potrebbe essere irrogata mediante un decreto (cf. can. 1342 §2).

Ritornando agli effetti giuridici del delitto di attentato al matrimonio contratto anche solo civilmente da parte di un religioso professo perpetuo, la dimissione ipso facto tocca soltanto il suo status di vita che gli deriva dalla incorporazione tamquam religiosus, mentre riguardo alla pena canonica si hanno due effetti diversi. Il religioso non chierico, essendo un laico incorre nella pena di interdetto latae sententiae. Se il religioso è un chierico, con la dimissione ipso facto perderà l’incorporazione all’istituto, ma non l’incardinazione in esso tamquam clericus che continuerà a conservare, non essendo previsti chierici acefali o vaghi, fino a quando non troverà un Vescovo benevolo che lo accolga o almeno gli consenta l’esercizio degli ordini sacri (cf. can. 701). Per questo il religioso, in quanto chierico, incorrerà nella pena della sospensione latae sententiae (cf. can. 1394 §1) e pur cessando con la dimissione ipso facto i voti e gli obblighi derivanti dalla professione, rimarrà legato all’Istituto attraverso l’incardinazione, ma sospeso dall’esercizio degli ordini sacri (cf. can. 701).

La dimissione dallo stato religioso non è una pena medicinale, di cui il can. 1312 §1, 1° prevede la scomunica, l’interdetto e la sospensione, ma non è neppure una pena espiatoria in quanto non annoverata tra quelle recensite al can. 1336, tanto più che per irrogare una pena perpetua si richiederebbe un processo giudiziale.

La dimissione ipso facto, di cui al can. 694, abbiamo già evidenziato che nulla ha a che vedere con la formula latae sententiae, perché essa non è una pena anche quando riguarda una fattispecie ex delicto come l’abbandono notorio della fede cattolica (§1) e l’attentato al matrimonio contratto anche solo civilmente da parte di un religioso di voti perpetui (§2). La punizione presuppone la legge cui è annessa una sanzione, ma il suo fondamento ultimo è l’imputabilità e la responsabilità di colui che viola la legge per dolo o colpa, le circostanze attenuanti ed esimenti. La dimissione ipso facto, al contrario, non è una pena soggetta alla discrezionalità del giudice, ma è una sanzione che deve essere obbligatoriamente imposta se il fatto è comprovato, indipendentemente dalle circostanze.

Quindi, la dimissione ipso facto dall’Istituto religioso non è una pena canonica, ma una sanzione genericamente detta che risponde prima di tutto all’esigenza della comunità religiosa di veder tutelata la propria identità strutturale. L’apostasia, l’eresia e lo scisma (can. 1364 §1) come pure il l’attentato al matrimonio (cf. can. 1394 §1) non provocano la dimissione per effetto del delitto commesso. La dimissione ipso facto è una sanzione autonoma rispetto alla pena perché il can. 694 non è una legge penale. Quindi, per il religioso che incorre nelle fattispecie contemplate dal can. 694 §§1-3 scatta la sanzione ipso facto, autonoma rispetto alla pena latae sententiae, perché detto canone non è una legge penale né sono da considerarsi delitti propriamente detti gli atti commessi che comportano la dimissione.

Le stesse fattispecie (cf. can. 694 §§1; 2) assumono anche rilevanza delittuosa dovuta alla pena che ne consegue di scomunica latae sententiae (cf. can. 1364 §1), di sospensione latae sententiae (cf. can. 1394 §1) e di interdetto latae sententiae (cf. can. 1394 §2), ma si tratta di altro ambito rispetto alla dimissione ipso facto dall’Istituto religioso.




«Asceti contemporanei del monte Athos» dell’archimandrita Cherubim. Note sul cammino ascetico della Chiesa in uscita

41R+79WIasLdi Dario Chiapetti Esce per il pubblico italiano il classico Asceti contemporanei del monte Athos. Ascesi e purificazione sulla via del Paradiso (introduzione e note a cura di padre Michele Di Monte, Edizioni Monasterium, 2019, 193 pp., 20 euro; titolo originale: Contemporary Ascetics of Mount Athos, St. Herman of Alaska Brotherhood, 1992) dell’archimandrita Cherubim, al secolo Giorgio Karembelas (1920-1979), monaco del monte Athos stabilitosi a soli due anni dalla tonsura, a causa di una malattia, ad Atene, dove fondò il monastero del Santo Paraclito in Oropos con una regola athonita.

Il testo riporta le storie e i cammini spirituali degli anziani Joachim della skiti di sant’Anna (confratello dello stesso Cherubim), Atanasio di Grigoriou e Callinico l’esicasata ma anche, connesse a queste, di Daniele di Katounakia, Filarete di Constamonitou e Gerasimo Menagias. Sono queste le figure di grandi asceti vissuti nella prima metà del XX secolo.

In primo luogo, dai racconti si riceve un quadro vivo e preciso di questa secolare realtà (sorta nel IX secolo) che suscita tutt’oggi l’interesse e la curiosità di molti pellegrini e turisti da tutto il mondo: il monte Athos (Aghion Oros).

Repubblica monastica autonoma, penisola che si situa, a sua volta, sulla penisola calcidica (Grecia), l’Athos è soggetto alla giurisdizione ecclesiastica del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, conta circa 1.500 abitanti (monaci ortodossi) distribuiti in 20 monasteri, 12 skiti (comunità di monaci sorte attorno a delle chiese) e circa 250 celle (per l’eremitaggio). Ogni monastero, oltre al proprio abate (igumeno) elegge il proprio rappresentante per la Sacra Comunità, l’organo che esercita, nella città principale (Karyes), il potere legislativo su tutto il monte.

L’Athos è conosciuto in gran parte per la bellezza del suo paesaggio, degli elementi naturali, delle imponenti e suggestive costruzioni medioevali, della qualità artistica degli affreschi che impreziosiscono gli ambienti di queste ultime e gli oggetti religiosi in esse custoditi. Ma sopra tutto ciò, è la vita che sull’Athos si svolge che vale la pena scoprire e che il testo intende far conoscere.DSC_0340full1-e1480874491439

In tutti i racconti dell’Autore emerge con nitidezza l’anelito di ogni protagonista ad una vita compiuta e realizzata che solo in una scelta radicale di cammino ascetico, come quella che propone l’Athos, ha trovato terreno per il suo attuarsi. Senza ripercorrere qui le vite dei monaci presentate da Cherubim mi soffermo brevemente – allacciandomi anche al cammino attuale della Chiesa cattolica – sulla parola chiave per leggere il testo e le figure presentate dal testo: ascetismo.

Con tale termine si intende comunemente il complesso di pratiche con le quali l’uomo, in virtù della grazia di Dio a lui da Questi donata, la accoglie e la fa propria. Ebbene, oggi giorno, soprattutto da parte cattolica, si sta acquisendo rinnovata consapevolezza della necessità per la Chiesa – per essere se stessa – di farsi prossima soprattutto con i più bisognosi, instaurare ponti soprattutto con chi si presenta come “lontano”, ecc. Si sta recuperando la nota di gioia, di propositività e di positività che caratterizzano il volto e l’atteggiamento del cristiano. Il magistero di papa Francesco è maestro in questo. Ma c’è un altro aspetto del vangelo, fortemente richiamato, in pieno stile gesuitico, dallo stesso pontefice, che non va perso di vista: quello, appunto, dell’ascesi, e, a questo connesso, della rinuncia, della penitenza. Ciò che si evince dalle vite di questi Anziani è che una chiesa “in uscita”, cioè che comunica, contagia, illumina, ecc., non è “Adamo”, l’uomo vecchio, che, invece di essere Adamo in sagrestia, è Adamo che sta fuori dalla sagrestia, ma l’uomo nuovo che, in quanto rinnovato, morto e risorto nella morte e risurrezione di Cristo, esce, esiste come annunciatore – direi annuncio – della buona notizia. Questo non vuol dire – si badi bene – che prima si diviene uomini nuovi e poi si esce incontro agli altri. Uscire può rappresentare un’ottima occasione per rinascere, anzi, per morire e rinascere (anche se il luogo fontale della morte e rinascita rimane quello ecclesiale-sacramentale, e quindi per un cristiano adulto, l’eucaristia). Ora, se l’ascesi è – come scrive Di Monte nell’introduzione – la scala di Giacobbe (cfr. Gen 28,12-13), il far nascere l’uomo interiore sulla morte dell’uomo esteriore (cfr. 2Cor 4,18) o – in altri termini – l’entrare in comunione con l’essere di Dio, “uscire” (non innanzitutto in senso fisico) è vero uscire se è cammino ascetico, e viceversa, il vero cammino ascetico è questo “uscire” dal modo d’esistere d’Adamo, autoaffermativo, autocentrato, egoista, verso il modo d’essere di Dio, comunionale. Un’autentica acquisizione del modo d’esistere di Dio è quindi un andare incontro agli altri e ciò non può che essere gioia e dolore, gioia per l’uomo nuovo che sta nascendo, che inizia a gustare in sé l’essere esodale-comunionale di Dio e dolore per l’uomo vecchio che viene portato così alla morte.

Ora, ciò che mette in evidenza il presente testo è che l’ascetismo di questi Anziani – una forma di ascetismo duro, da comprendere nelle sue radici storiche, caratterizzato da incredibili privazioni, abnegazioni e isolamenti che possono urtare la nostra sensibilità non solo di uomini ma anche di fedeli – è ciò che sta alla base del cristiano gioioso.

Come emerge dai racconti tale ascetismo è risposta d’amore all’invito da parte di Dio di accogliere il suo essere, risposta che non può che far andare l’uomo contro la propria natura umana che, in quanto segnata dal peccato, si oppone al modo d’esistere comunionale come è quello divino. Il cammino ascetico comporta dunque il passaggio – che, se avviene realmente, non può non essere indolore – «dallo stato – prosegue Di Monte – “contro natura” allo stato “secondo natura”». Come secondo aspetto, e diretta conseguenza di ciò, il cammino ascetico – e le vite di Joachim, Atanasio e Callinico lo attestano vivissimamente – porta la persona a fiorire nella carità verso gli uomini e la creazione tutta.

La lezione di questi Anziani è chiara: l’ascetismo non consiste nel chiudersi alla vita ma al modo adamitico di viverla, non consiste nell’autopunirsi per i peccati prima che ci pensi Dio ma muovere la propria natura dal modo d’esistere di Adamo a quello di Dio offertoci in Cristo. E così ogni fedele è invitato a riscoprire il significato evangelico dell’ascetismo e il suo valore per una vita veramente gioiosa, veramente in uscita.




Non solo Narnia e Berlicche. Lewis e i novissimi

9788816502659_0_221_0_75di Francesco Vermigli • Tutto inizia su un autobus. La scena è surreale: una fermata, gente litigiosa in attesa che combatte per salire e poi in alcuni casi decide di non salire; l’autobus che arriva, un uomo che vi sale e che vola sopra una città in apparenza sconfinata, in un’atmosfera rarefatta e grigia, sotto un cielo denso. Così comincia Il grande divorzio. Un sogno, opera che Clive Staples Lewis scrisse nel 1946.

Il narratore del libro è un Dante qualunque e anonimo dell’Inghilterra novecentesca: giunge in una prateria immensa e verdeggiante, laddove si imbatte in personaggi a lui perlopiù sconosciuti e che discutono tra di loro. Vi viene condotto dallo spirito di George MacDonald, romanziere scozzese di genere fantastico, morto all’alba del ‘900: qui il narratore viene introdotto da questa sorta di Virgilio dei tempi moderni ai misteri e alla stravaganze di tale landa verde e fiorente, meta surreale di un viaggio surreale. O almeno questa è la prima impressione che si prende, dal momento che lentamente il dialogo tra il narratore e il suo Virgilio – e quelli assai animati tra i personaggi che MacDonald invita il narratore ad ascoltare – svela sempre più del punto da cui tutto è partito e della meta cui giunge l’autobus.

Sulla scena compaiono personaggi che si distinguono per la loro consistenza materiale: da una parte spiriti che spiriti secondo l’immagine consueta non sono, perché sono capaci di attraversare una landa che appare solidissima, di una densità materiale inimmaginabile. Dall’altro lato spettri che si caratterizzano in prima battuta per l’incapacità a stare in questa landa, a sentire la fatica tantalica dell’attraversamento di una radura o del sollevamento di una mera fogliolina. Perché tutto è per loro – in una maniera inimmaginabile – troppo materiale. E si viene a scoprire che gli spettri sono coloro che non hanno ancora compiuto il cammino di purificazione o che non arriveranno mai a compierlo, perché si rifiuteranno di farlo; nonostante le esortazioni degli spiriti raggianti e consistenti che gli si fanno incontro al termine del viaggio e a cui erano legati sulla terra da legami di amicizia, affetti o attività lavorativa.lewis

Con scene rapide e immaginose Lewis ci pone al centro di quale sia il destino dell’uomo oltre la morte, di cosa significhi stare in Paradiso o nell’Inferno, di cosa voglia dire la vita beata. O almeno così sembra ad una prima lettura, lungo il libro. In questi che all’apparenza paiono appartenere ai novissimi, si parla di scelta («tu hai sentito abbastanza per vedere che esiste una scelta», dice MacDonald) e di qualcosa che non si possiede per natura, ma che bisogna volere («Ogni cosa può essere tua. Dio stesso può essere tuo. Ma non in questo modo. Niente può essere tuo per natura», dice uno spirito ad uno spettro). In questo che sembra un luogo oltremondano, si presentano spiriti che sono mandati agli altri per aiutarli alla liberazione: «Io sono qui per invitarla a pentirsi e a credere». Là si professa quello che si potrebbe definire, con una certa forma di paradosso, un ateismo cristologico: «Qui non sappiamo niente di religione: pensiamo soltanto a Cristo»; quel Cristo di cui si ricorda la discesa agli inferi, per predicare a tutti la salvezza («non vi è spirito imprigionato al quale Egli non abbia predicato»). Eppure la frase che chiude la sua Prefazione ci mette in guardia: «L’ultima cosa che io desidero è suscitare una materialistica curiosità sui particolari dell’ultramondo».

Perché alla fine, con una scena risolutiva, che svela la seconda parte del titolo dell’opera, si apprende che tutto è stato solo un sogno; un vaneggiare di qualcuno che si sveglia in una stanza fredda, con un tavolo sporco di inchiostro e ricolmo di libri. Ma subito prima del vero risveglio – come una sorta di dissolvenza tra il sogno e la realtà – un dialogo concitato tra il narratore e la sua guida rivela che i dialoghi tra i personaggi parlavano di scelte che anticipano «la scelta che va fatta alla fine di tutte le cose».

Ed è in questo che consiste la più grande originalità escatologica di Lewis, nascosta sotto le vesti apparentemente dimesse di una fantasticheria letteraria: pensare la vita che si colloca nel tempo e nello spazio come vita che può essere già al di fuori del tempo e dello spazio. Così si legge: «la terra, qualora venga presa al posto del Cielo, rivelerebbe d’essere una regione dell’Inferno, mentre se viene accettata in conformità al Cielo, costituisce fin dal principio una parte del Cielo stesso». Si badi: non si afferma che dalle scelte di carità ricercata o rifiutata, di affidamento alla volontà di Dio o di volontario allontanamento da essa dipende la nostra vita eterna. Si afferma qualcosa di più sottile e decisivo, quasi non si avesse una vera soluzione di continuità tra la vita terrena e quella eterna. Per coloro che vivono il (non in!) Paradiso, voltandosi indietro sembrerà che non abbiano vissuto altro che il Paradiso. Perché –come dice il Nuovo Testamento – se Dio è Amore, ogni vita di carità condotta in questa terra è già ora parte del Paradiso.




Nella notte della vita: fra tradimenti e preghiera

978880624010HIGdi Alessandro Clemenzia • La forza contenuta e irradiata dalla solitudine estrema vissuta da Gesù nella notte del Getsemani può essere affrontata da tanti punti di vista, tanti quante possono essere le differenti modalità di sguardo su questo preciso obiettivo. Il libro di Massimo Recalcati, La notte del Getsemani (Einaudi 2019) è un formidabile e ben riuscito esempio di come quella radicale umanità di Gesù possa essere raccontata anche dalla psicanalisi. Di più: in queste pagine si descrive la divinità del Figlio di Dio, mettendo in evidenza il fascino della sua umanità ferita e abbandonata nella notte del tradimento.

«Non ci sono chiodi, fruste, corone spinate, percosse, ma solo la pesantezza di una notte che non finisce mai, la solitudine inerme e smarrita dell’esistenza che vive l’esperienza del tradimento e dell’abbandono» (p. VII). Ed è proprio questo l’argomento preso in esame da Recalcati: l’uomo che si trova “inchiodato” nella propria solitudine, nella fragilità più acuta, nella sua asfissiante percezione di vivere una condizione “senza Dio”. Ma proprio quella realtà più estrema di dolore è per Gesù il luogo della preghiera, di consegna di sé al proprio destino: «è il punto più sensibile dove la lezione del Getsemani incontra ai miei occhi quella della psicanalisi: coincidere con il proprio destino, decidere di consegnarsi alla propria storia poiché solo in questa consegna possiamo riscriverla in modo unico» (p. IX).

È a partire da queste parole che Recalcati inizia un interessate percorso, frutto di una conferenza presso il Monastero di Bose (tenuta nel 2017), sulle tracce dell’umanità di Gesù in particolari momenti-chiave della sua esistenza, cercando di guardarli e interpretarli con i suoi stessi occhi. Tanti sono stati i movimenti del cuore, provenienti dall’interno e dall’esterno, sperimentati dal Figlio di Dio in quella lunga notte: dalla costante consapevolezza di avere una parola efficace, ma con una forza tale da urtare contro ogni forma di istituzionalizzazione della religione, al ricordo contrastante di quel giorno (vicino nel tempo, ma circostanzialmente molto distante) in cui era stato accolto a Gerusalemme osannato da una popolazione in festa. Ma non c’erano solo questi movimenti che provenivano dall’interno; e qui l’autore introduce il trauma dei tradimenti sperimentati da Gesù. Siamo nelle pagine più belle del libro e, probabilmente, in una delle interpretazioni più profonde e affascinanti di questo evento cristologico. Giuda e Pietro, entrambi prescelti, erano in profonda intimità con il maestro, «il che significa che la più radicale esperienza del tradimento non viene mai dallo sconosciuto, ma da chi ci è prossimo – dal più prossimo –, da colui nel quale riponiamo la nostra piena fiducia» (p. 27).

Il tradimento di Giuda avviene nella familiarità di una cena; egli non è un maligno o Satana, ma è stato prima di tutto un innamorato di Gesù. C’era però, nella sinfonia di questo amore, un stonatura non indifferente: «Forse Giuda attendeva da Gesù qualcosa che non apparteneva all’essere di Gesù» (p. 38). È l’amarezza di questa grande delusione, dettata dall’inaccettabilità di questa alterità, a suscitare in lui il desiderio dell’eliminazione dell’altro.

Diverso, invece, è il tradimento di Pietro: egli, a differenza di Giuda, non complotta contro il maestro, ma si lascia comunque determinare dalla propria precarietà. «Il suo tradimento rivela una contraddizione che appartiene all’umano: non sempre siamo all’altezza del nostro amore, non sempre siamo coerenti con il nostro desiderio» (p. 51). Eppure, proprio la negatività del tradimento, avvenuto per ben tre volte e in poche ore, ha introdotto Gesù in un nuovo significato di “fedeltà”: «Gesù attraverso il tradimento di Pietro sta destituendo ogni idealizzazione eroica della fedeltà. Vuole mostrare che anche l’amore più solido – essendo umano – può cadere, scivolare, tradire la propria causa» (p. 51). Le lacrime di Pietro, quel suo piangere amaramente, sono il grido della propria incoerenza, del proprio fallimento, del proprio tradimento. «Il pianto di Pietro non mostra la fine di un amore, ma la sua ripartenza dopo la caduta» (p. 53).b34f78c9fd2a2d89b300e3b65ec15f7e

Recalcati mette in luce un ultimo tradimento, che fa da sfondo alla drammaticità della circostanza: Gesù è lasciato nell’assoluta solitudine da tutti i suoi compagni. Quegli amici, che un tempo, sulla barca, sbattuta dalle onde del mare e dal vento, lo hanno rimproverato fortemente per essersi addormentato e non essere stato pronto a difenderli dal pericolo imminente, ora, nella notte del Getsemani, nonostante la ripetuta richiesta del loro maestro, non sono stati in grado di resistere al sonno. Un dormire che non è semplicemente segno di stanchezza, ma espressione del loro più intimo desiderio: «Non vogliono vedere l’esperienza inesorabile della perdita che Gesù sta incarnando. Vogliono continuare a sognare il Gesù che entra nella città di Gerusalemme tra gli Osanna festanti del suo popolo» (p. 61).

Nella drammaticità di quella notte, Recalcati presenta il dinamismo crescente della preghiera di Gesù. All’inizio egli si rivolge al Padre implorando la salvezza dal pericolo della morte. Ma a quella supplica, in cui Gesù domanda un’eccezione a un Padre che è comunque capace di cambiare il destino di un uomo, non arriva alcuna risposta. Così, oltre alla straziante quiete dei discepoli presi dal sonno, l’aria diventa più drammatica anche per la risposta del Padre: il silenzio.

Tale esperienza ha portato Gesù ad assumere una postura umana differente da quella precedente, e dunque una nuova forma di preghiera, dove egli si rende disponibile ad assumere il disegno del Padre e a scegliere liberamente di aderire al proprio destino: «La seconda preghiera di Gesù è l’esito di un disarmo assoluto. […] Il colmo della preghiera non è il recupero di forza da parte dell’Io per sostenere una prova difficile, ma un atto di disarmo, di consegna, di offerta senza condizioni al di là dell’Io» (pp. 76-77).




Una riflessione in un tempo di indecisioni

61kkPm2U5aLdi Stefano Liccioli • Ha una pagina Facebook seguita da oltre quarantamila persone, è docente di filosofia alla Pontificia Università Lateranense, preside dell’Istituto Superiore Scienze Religiose dell’Aquila, ma soprattutto ha all’attivo diverse pubblicazioni, tradotte anche in lingua straniera. Sto parlando di don Luigi Maria Epicoco che la casa editrice che ha tradotto in francese il suo libro più famoso “Sale, non miele. Per una Fede che brucia” lo ha definito “il fenomeno sacerdotale in Italia”. Non entro nel merito dei successi editoriali e pastorali di don Epicoco, anche se condivido quello che ha detto di lui Massimo Recalcati e cioé che ha “il dono della parola”, una parola che porta la Fede nella concretezza della vita di ognuno.

In questa sede voglio invece prendere spunto da un breve libro di don Luigi intitolato “L’amore che decide. Due meditazioni in un tempo di indecisioni” (2019) per sviluppare alcune riflessioni sul tema delle decisioni, non le piccole scelte di vita quotidiana, ma quelle esistenziali. Il sinodo del 2018 si è concentrato sul tema del discernimento vocazionale, ma come mai, mi chiedo, certi percorsi di discernimento, anche lunghi, non portano i frutti sperati e si arrestano in dei vicoli ciechi? Certo, esiste il libero arbitrio. Ma come mai si sceglie di non scegliere? Sempre più spesso le persone rimangono a quello che Kierkegaard definiva il punto zero della vita data l’incapacità di scegliere tra le alternative possibili. Questa problematica è riscontrabile non soltanto negli itinerari che possono condurre alla vita consacrata, ma anche nei cammini di tante coppie che magari dopo molti anni di fidanzamento si lasciano o molto più spesso preferiscono la convivenza rispetto al matrimonio. D’altra parte che cos’è la convivenza se non il frutto di quella che papa Francesco chiama la cultura del provvisorio, «che può condurre a vivere “à la carte” e ad essere schiavi delle mode. Questa cultura induce il bisogno di avere sempre delle “porte laterali” aperte su altre possibilità». Invece il decidere, come ci ricorda l’etimologia della parola che richiama il termine latino de- e caedĕre «tagliare», comporta lasciare qualcosa per scommettere la propria vita su quello che si è scelto come quel mercante del Vangelo che vende tutti i suoi averi per comprare la perla di grande valore che ha trovato.

A mio avviso don Epicoco mette bene in luce il motivo per cui si preferisce rimanere paralizzati nell’indecisione:«Non prendiamo delle decisioni perché abbiamo paura del mistero, abbiamo paura di quello che la vita può riservarci, abbiamo paura di quello che si può trovare dall’altra parte del mare». Legata a questa dinamica c’è un’altra problematica, quella della fragilità di certe scelte, la mancanza di perseveranza in alcune decisioni prese. Spesso si ritorna sui propri passi, si rimangia la parola data, non si mantengono le promesse fatte nonostante fosse stato detto “per sempre”. La ragione è che non riusciamo ad accettare la differenza tra ciò che ci aspetteremmo (ideale) e ciò che invece è reale. Invece, amare una persona (o una comunità parrocchiale nel caso di un prete) «significa lasciare che quella persona sia reale e che deluda quello che mi ero disegnato nella testa. Uno è paziente quanto permette all’altro di essere se stesso». Non a caso una delle caratteristiche che San Paolo attribuisce all’amore è la pazienza.

La vita, in quanto reale, ha diritto di essere diversa da come la vorremmo o ce la sogniamo. Occorre accettare, con pazienza, questa diversità che c’è l’ideale e la realtà. La libertà è imparare a scegliere, invece che subire, anche le cose che non abbiamo preventivato, le cose che ci sono, le cose che esistono davanti a noi. Scegliere ciò che non si è scelto» (L. Epicoco).whatsapp_image_2019_03_06_at_105958j

La causa di tanti ripensamenti, di tante rotture di rapporti sta, secondo me, anche nel fatto che «viviamo in un momento storico molto particolare, in cui veniamo educati a concentrarci tantissimo su noi stessi. I miei problemi, i miei bisogni, i miei miei desideri sono i più importanti del mondo. Facciamo di noi stessi un assoluto. Finché non impareremo a decentrarci, non capiremo mai davvero né questa vita né ciò che ci può rendere davvero felici. La maturità della vita umana dovrebbe consistere nell’imparare in maniera sana a decentrarci. In questo egocentrismo è sempre insoddisfazione». (L. Epicoco). Le nostre esistenze sono condizionate dall’idea di sacrificio (ad es. è sacrificio lavorare, è sacrificio rimanere fedele a qualcuno o ad un impegno preso) e siccome nella società odierna c’è un primato delle emozioni, di ciò che sento, che considera vero e giusto solo ciò che ci fa sentire vivi, rifuggiamo quello che ci può far fatica e far soffrire.

Ma che cos’è che fa smettere al sacrificio di avere così tanta importanza nella narrazione delle nostre vite? Vivere per amore di qualcuno. Allora il sacrificio diventa al massimo la fatica dell’amore, ciò che “fa sacro” quello che viviamo, come ci ricorda l’etimologia della parola.




La scappatoia dell’allegoria. Testi ed esigenze della ragione

Allegoria della Fede Jan Vermeer (1671 - 1674)

Allegoria della Fede
Jan Vermeer (1671 – 1674)

di Carlo Nardi • Le origini greche dell’allegoria paiono esprimere il criterio teologico di convenienza, secondo il quale il Padre eterno, a quei tempi alquanto pazzerellone, si trovò in pensamenti degni degli umani; e gli uomini a loro volta pensarono che, riguardo a Dio, si dovesse pensare e dire «ciò che gli si addice»: tò theoprepés, dal greco prépei, che corrisponde al latino decet, «ciò che è degno», in questo caso ovviamente «di Dio». Da quel criterio nacquero, con la filosofia, i presocratici per aprire una lunga storia che raggiunge anche noi.

Perché? Per i greci l’Iliade e l’Odissea, seppur non libri sacri, erano i testi costitutivi della loro identità. Nel sesto secolo a.C. un razionalismo anche morale induceva ad un ripensamento: parevano problematici i comportamenti crudeli e osceni degl’iddei capricciosi d’Omero. Gli esiti del razionalismo furono o l’ateismo – di per sé raro nell’antichità che sembra conoscere un unico ateo, Diagora – ed un enoteismo già implicito nella preminenza esiodea di Zeus riguardo agli altri dei. La filosofia greca sembra tendere – non di più né di meno – al monoteismo. Senofane criticava l’idolatria e il politeismo: «Se bovi, cavalli e leoni avessero le mani e sapessero dipingere e creare come gli uomini, certo si raffigurerebbero immagini di dei a somiglianza del proprio aspetto, ossia di cavalli i cavalli, di bovi i bovi». Invece la divinità, secondo lui, sarebbe puro «intelletto» (Fr. 13).

Eppure i greci non volevano rinunciare a quei canti, ormai fattisi testi. Sui libri omerici ed esiodei, inclusi i miti truculenti, si erano formati i giovani. Pertanto avevano due possibilità. La prima: rifiutare il racconto come tale. Tuttavia neppure Platone arriverà a un rifiuto assoluto. Persino Senofane, che in una elegia conviviale invitava a tralasciare canti di «lotte tra titani, giganti o centauri, tutte favole del tempo che fu, o contese fra città e città», raccomanda invece le tematiche che «rendono migliori» gli uomini (fr.1,19-24).

La seconda possibilità era l’interpretazione allegorica. Intanto miti strani e disumani erano irrinunciabili: per salvare l’affetto ad una tradizione consolidata e insieme rispettare le esigenze della ragione che assumeva il criterio teologico di convenienza (theoprepés), si ricorse all’allegoria. In parole povere Omero dice cose sconcertanti, ma al posto delle parole ‘normali’ se ne devono intendere altre, perché, sotto il senso immediatamente comprensibile, se ne cela uno recondito (hypónoia). Di qui, per esempio, l’interpretazione dell’Odissea, di per sé ritorno alla famiglia e alla patria, diventa una storia dell’anima. Invece di traversie o di un fausto ritorno a casa in carne ed ossa, ci darebbe, per così dire, un approdo a pensieri e intenti, adatti a loro volta per un mondo ulteriore, si direbbe per un aldilà.

I presupposti sono filosofici, quelli di un sistema a due piani. L’allegoria infatti si basa su due livelli, ma il primo è il meno interessante, importante, nobile: il sensibile e corporeo era ritenuto presente anche nella ‘lettera’ del testo così come suona. Il secondo è quello superiore, perché è nell’ambito dell’anima, che si apre alla ‘vera terra’, il mondo celeste e divino da decifrare mediante una interpretazione, detta ‘spirituale’ dei testi. Pertanto i due piani riguardavano l’uomo, il cosmo e il testo. Come l’uomo è corpo ed anima, e il mondo è materia e spirito, il testo è suscettibile di un’interpretazione letterale e di una spirituale. Ora, tra questi due livelli, l’allegoria mirava ad una spiritualità che oltrepassasse la lettera. Non per nulla ‘allegoria’ è appunto un «dire altro» (állo agoreúein), un «altro» rispetto alla lettura ed oltre al testo.

Tra questi è la proposta di Filone di Alessandria. Di formazione platonica, provava sconcerto di fronte a testi dell’Antico Testamento: se ne districava usando proprio quel metodo con cui i filosofi interpretavano i miti, in definitiva l’allegoria. Un esempio. Per Filone la Migrazione di Abramo è il progresso dell’anima. È già un esodo con quella che sarà la pasqua come passaggio, ‘trasferimento’ dal vizio alla virtù. Si capisce che un deciso allegorismo, come quello filoniano, tendeva a sottovalutare alquanto l’importanza del dato storico.

Filone d?Alessandria

Filone d?Alessandria

Invece Marcione – secondo secolo – si scandalizzava di quel che leggeva nell’Antico Testamento. Anche lui mosse dal razionalismo greco. Applicò il criterio di convenienza ai libri santi, ma il Dio del Vecchio Testamento gli risultò passionale, sanguinario, nazionalista. Interpretò il testo come appare. L’Antico Testamento gli risultò indegno del vero Dio, non attivò esegesi allegoriche e levò di mezzo quei libri, secondo lui, non divini: tutto l’Antico Testamento, ma anche quasi tutto il Nuovo. Difatti dalla sua espunzione salvava soltanto san Paolo e san Luca, ovviamente depurato del vangelo dell’infanzia. Figuriamoci se un Dio potesse crescere come tutti i marmocchi!

E mi fa pensare quello che mi raccontava mons. Andrea Drigani di una sua parrocchiana: “Antico Testamento? Ammazzamenti e porcherie!” Mi espressi con un languido sorriso. E invece c’è del vero e non poco. Ancora. Mi ricordo ragazzo. Il priore don Mauro, a Castello, mi chiese di dire insieme un po’ di breviario, quello vecchio. Nel mattutino leggevo sant’Agostino Sulla bugia. L’aulico latino al mysterium non mendacium mi si bloccò. Il mio parroco intervenne: “Bel discorso?” E di quei discorsi ce n’è a iosa. Mi ritrovo nell’assioma Quicquid recipitur, per modum recipientis recipitur «Tutto quello che si riceve, è ricevuto nel modo in cui lo si riceve» (san Tommaso d’Aquino), adatto non solo per l’idraulica, ma anche per l’interpretazione delle sacre Pagine: principio molto fluido, se c’è il padre Iefte uccisore della figlia tra i santi della Lettera agli Ebrei e lo stesso Iefte viene ritenuto folle e omicida. A questo punto però è la consapevolezza di un Vecchio Testamento sconcertante per le sue situazioni truculente, che qualcuno, meno male, ha commentato mediante la verità della ragione e la bontà del cuore: san Tommaso, Dante, Voltaire.

Ma che dico resie? Parce, Domine.

Dante sintetizzerà una lunga storia di interpretazioni, definendo implicitamente l’allegoria Ed anche il detto dantesco «e altro intende» (Paradiso iv,45), mentre tutta la … 

: «Per questo la Scrittura condescende / a vostra facultate e piedi e mano / attribuisce a Dio, e altro intende» (Paradiso iv,43-45); Ripensando su Dante, che parla di “condiscenzenza”, fa pensare a Giovanni Crisostomo, con qualche più che possibilità. Se ne parla perché.

è la decifrazione alessandrina di un senso recondito nella pagina biblica ascoso «sotto il velame de li segni strani», per dirla ancora col poeta (Inferno ix, 63).




La fede di Abramo: (1) la Lettera agli Ebrei

43_il-sacrificio-di-isacco_G67C0262-e1457973038722di Stefano Tarocchi Già in precedenza mi sono occupato della lettera agli Ebrei (Il Cristo, «colui che apre la strada»:http://www.).

Stavolta vorrei affrontare il tema di Abramo e della sua fede, così come viene presentato attraverso la medesima lettera agli Ebrei, che il canone del Nuovo Testamento colloca dopo quelle dell’apostolo Paolo; e, successivamente del medesimo concetto nella lettera ai Romani.

La lettera agli Ebrei, com’è noto, viene definita dagli studiosi come un’omelia, o  un “trattato per i cristiani di origine ebraica ed etnica ora ellenizzati” (Attridge), sul sacerdozio di Cristo, basato sul modello del sacerdozio di Melchisedek (Eb 7,15-17), e quello di tutti i battezzati (Eb 10,24).

Solo la conclusione dello scritto la rendono una vera e propria lettera: «Vi esorto, fratelli, accogliete questa parola di esortazione; proprio per questo vi ho scritto brevemente. Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato rilasciato; se arriva abbastanza presto, vi vedrò insieme a lui. Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano quelli dell’Italia. La grazia sia con tutti voi» (Eb 13,22-25).

Si tratta di una scarna aggiunta, che attraverso Timoteo sembra coinvolgere l’apostolo Paolo – del tutto estraneo allo scritto, come si ritiene fin dall’antichità – e credenti della nostra penisola, probabilmente di Roma, assurti a co-mittenti dello scritto, del resto anonimo.

Nel capitolo 11, contenuto nella sezione esortativa della lettera (Eb 10,19-13,17), si parla della fede, definita il «fondamento di ciò che si spera e la prova di ciò che non si vede» (Eb 11,11).

Abramo è anzitutto descritto come colui che, «chiamato da Dio», gli «obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità»: così dice il testo della lettera. E aggiunge che Abramo «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8). Ecco così espresso il totale affidarsi a Dio di questo straniero, emigrato dalla sua terra lontana, che diventerà, secondo la promessa divina, padre di molti popoli («non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò»: Gen 17,5).

La stessa fede racchiude, e dunque caratterizza, l’abitare nella terra promessa come in una terra straniera nell’attesa della città dalle salde fondamenta, progettata e costruita da Dio medesimo.0acda03247c07474fe25d7f8c7d18269_XL

La fede di Abramo si completa nella fede della moglie Sara, così da far sì che da un «uomo solo, già segnato dalla morte», nasca una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia sulla riva del mare (cf. Eb 11,11.12).

Secondo la lettera agli Ebrei, Abramo e i padri antichi sono morti senza avere ottenuto i beni promessi , «come stranieri e pellegrini sulla terra» (Eb 11,13). È in questo modo che l’affidarsi a Dio raggiunge il suo culmine e il suo compimento.

Ma è più avanti, nel verso 17 del medesimo capitolo, che si completa la definizione della fede di Abramo in maniera decisamente più stringente: «per fede, Abramo, messo alla prova [peirazómenos], offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza.  Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo» (Eb 11,17-19).

L’uomo su cui Dio aveva gettato il suo sguardo, come aveva detto l’apostolo Paolo, «ebbe fede, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rom 4,18).

Peraltro – sia detto incidentalmente, e in conclusione –, la versione CEI usa, a proposito di Abramo, una traduzione dal testo greco («Abramo fu messo alla prova» [peirazomenos]) che avrebbe dovuto ispirare la nuova versione del Padre Nostro, anziché l’infelice soluzione che si prospetta.




Benedetta Europa

9788858834558_0_221_0_75di Giovanni Campanella • Alla fine di marzo 2019, la casa editrice Feltrinelli ha pubblicato, all’interno della collana “I Narratori”, un libro che ha già venduto molte copie, intitolato Il filo infinito. L’autore è Paolo Rumiz, grande viaggiatore triestino, che ha scritto numerosissimi libri riguardanti i suoi tanti giri intorno al mondo, intrecciandoli con temi di storia e attualità. È inviato speciale de Il Piccolo di Trieste ed editorialista de La Repubblica. Dal 1986 si è occupato degli eventi dell’area balcanica e danubiana; negli anni Novanta, durante la dissoluzione della Jugoslavia, fu corrispondente in Croazia e Bosnia-Erzegovina. Nel novembre 2001 fu inviato ad Islamabad, e successivamente a Kabul, per documentare l’attacco degli Stati Uniti d’America all’Afghanistan talebano.

Questa sorta di diario di viaggio è scritto in modo agile e forbito allo stesso tempo. È ricco di agganci storici e puntellato di rimandi a precedenti viaggi fatti nelle zone del mondo più disparate e di richiami a particolari personaggi incontrati in passato. Non sfugge che il mestiere di Rumiz sia appunto la scrittura: simboli e parole sono pesati e ricercati.

È un libro dedicato all’Europa. In una fase in cui il Vecchio Continente è vittima di spinte disgregazioniste, Rumiz vuole ricordare l’opera collante di san Benedetto e dei suoi seguaci, i quali, di fronte a violente orde barbariche, riescono a preservare il prezioso retaggio culturale greco-romano e del cristianesimo e a fondare una comune identità che diverrà la base per un percorso di fratellanza fra popoli anche molto diversi. Lo fa viaggiando, visitando e descrivendo vita e storia di secolari monasteri benedettini sparsi per l’Europa, in Italia, Svizzera, Germania, Francia, Belgio, Ungheria. Il titolo Il filo infinito rimanda appunto al legame tra questi presidi di preghiera e lavoro, a volte diversi nelle sensibilità e nei costumi ma sempre affratellati da una solida fondazione comune cristiana. Alle emergenti divisioni odierne il libro risponde con la memoria di Benedetto, possente baluardo di resistenza alla dissoluzione, minaccia che un millennio e mezzo fa era forse ancora più grave e pericolosa.

L’Europa è sempre stato uno spazio di migrazioni, talora pacifiche, talora violente. Con il loro esempio instancabile, i benedettini sono riusciti ad affascinare ed integrare tra loro persone diverse, rendendo sempre più ricco il bagaglio religioso, culturale e morale di cui sono secolari custodi. Sono sempre riusciti nell’impresa di trasformare il diverso da minaccia, apparente o reale, a vera ricchezza. In ciò sono preziosi e insostituibili maestri per i tempi attuali.

All’inizio del libro, Rumiz insieme ad alcuni compagni compie un viaggio a piedi lungo gli Appennini umbro laziali. Dopo aver attraversato alcuni paesini spettrali, deserti, vittime dei recenti terremoti, raggiungono Norcia. Lì Rumiz è molto colpito dalla statua del patrono d’Europa. L’imponente figura barbuta di san Benedetto si erge austera e indomita tra le rovine, puntando l’indice verso l’orizzonte davanti a sé. Tale visione, oltre a richiamare le difficoltà europee di fronte alle quali i benedettini si resero efficaci risolutori, dà all’autore l’idea di intraprendere il summenzionato viaggio tra varie abbazie del nostro continente. Tale idea viene effettivamente implementata più di un anno dopo, nel 2018.

La prima tappa di Rumiz è il monastero di Praglia, in Veneto. Nei suoi viaggi discute sempre di storia benedettina eiterfestival_rumiz_4.jpeg politica attuale europea con i monaci ed eventuali visitatori come lui di passaggio. Un altro elemento che ricorre spesso nel libro è la produzione della birra, altro glorioso collante tra aree e monasteri anche lontani fra loro. La seconda tappa è Sankt Ottilien, in Baviera, dove conosce un eclettico monaco, appassionato di chitarra elettrica, padrone di undici lingue e a suo agio nei campi più disparati del sapere. Visita poi l’abbazia femminile di Viboldone in Lombardia. In Sud Tirolo, visita sia Muri Gries che Marienberg. Va poi a San Gallo, in Svizzera, dove purtroppo non ci sono più monaci ma rimane gelosamente custodita un’antica e importantissima biblioteca. Si avventura successivamente in Francia e raggiunge Cîteaux, culla dell’ordine benedettino cistercense. Sempre in Francia, arriva a Saint-Wandrille e dintorni. Spostandosi ancora più a nord, sconfina in Belgio e si ferma nel monastero trappista di Orval. Torna poi in Baviera, ad Altötting, dove rimane colpito dalla fervida pietà popolare, che ricorda più il nostro sud che la fredda Germania. Successivamente, sempre in Germania ma più a nord-est, approda alla più austera abbazia di Niederalteich. Si sposta poi più a oriente, in Ungheria, e arriva a Pannonhalma dove è negativamente impressionato dal contorno di emergente xenofobia, alimentata e cavalcata dal primo ministro Viktor Orbán. Torna infine in Italia, dove visita Camerino, nelle Marche, e il monastero benedettino dell’isola di San Giorgio Maggiore, situata di fronte a piazza San Marco a Venezia.




IOR: una storia che continua e si rinnova

Logo_IORdi Andrea Drigani • Pio XII il 27 giugno 1942 con un chirografo, cioè un documento autografo contenente un decreto, erigeva, nella Città del Vaticano, l’«Istituto per le Opere di Religione» (IOR), allo scopo di provvedere alla custodia di capitali e di immobili, trasferiti o affidati ad esso e destinati ad opere di religione e di cristiana pietà. Iniziava in tal modo una storia che, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, si intersecò pure in vicende assai complicate e inquietanti (il caso Sindona, il Banco Ambrosiano di Calvi, il ruolo di Marcinkus). Anche per tali circostanze San Giovanni Paolo II, con suo chirografo del 1 marzo 1990, dette dei nuovi statuti all’IOR, conservandone il nome e le finalità. Continuarono, tuttavia, delle criticità nell’azione dello IOR, probabilmente anche a motivo del mancato inserimento della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano, nel sistema normativo europeo ed internazionale di regolazione delle transazioni finanziarie e di contrasto al riciclaggio, che veniva a costituirsi. Proprio in questa direzione si muove l’opera di Benedetto XVI che istituisce l’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF) per interagire d’intesa con le omologhe Autorità degli Stati, attua la convenzione monetaria tra l’Unione Europea e lo Stato della Città del Vaticano del 1 gennaio 2010, emana le prime disposizioni legislative vaticane sulla trasparenza e per l’antiriciclaggio. In particolare Benedetto XVI stabilì che la Santa Sede e lo Stato della Città del Vaticano si sottoponessero alla valutazione del Consiglio d’Europa, attraverso l’apposito Comitato, circa la prevenzione del riciclaggio e la connessa trasparenza. Tale valutazione concerneva tutti i dicasteri della Curia Romana, nonché lo IOR. Sembra che Benedetto XVI per queste decisioni abbia incontrato delle notevoli resistenze, e vi è chi ipotizza che forse ciò ha contribuito, in qualche modo, alla sua rinuncia all’ufficio di Romano Pontefice. In effetti durante le congregazioni cardinalizie antecedenti al conclave del 2013, vennero affrontate le questioni inerenti lo IOR e vi fu anche chi ne propose la soppressione. Francesco ha proseguito le determinazioni di Benedetto XVI emanando ulteriori disposizioni legislative per lo Stato della Città del Vaticano in materia di trasparenza delle operazioni finanziarie e favorendo la promozione e nell’adesione agli accordi internazionali in tale ambito. Il 1 aprile 2015 è stata sottoscritta la Convenzione tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede in materiapapa-pio-XII-ansa--258x258 fiscale che riguarda anche le attività dello IOR. Le decisioni prima di Benedetto XVI e poi di Francesco concernenti una più precisa regolarizzazione giuridica vaticana, e l’ottemperanza alla specifica normativa europea ed internazionale, hanno provocato la chiusura di molti conti correnti dell’IOR, sia per volontà dell’Istituto stesso, sia per l’abbandono spontaneo di diversi correntisti. Lo IOR ha subito pertanto un ridimensionamento, basti pensare che nel 2017 l’utile era stato di 31,9 milioni di euro, mentre nel 2018 è stato di 17, 5 milioni. Lo scorso 8 agosto Francesco con suo chirografo ha rinnovato gli Statuti dello IOR. Viene innanzitutto riaffermata la personalità giuridica canonica pubblica dello IOR e quindi la sottomissione al Codice di Diritto Canonico, vengono altresì confermate le finalità stabilite dagli Statuti del 1942 e ribadite in quelli del 1990. Le modifiche più rilevanti attengono al rafforzamento del ruolo della Commissione cardinalizia di vigilanza, già istituita con gli Statuti del 1990, composta da cinque cardinali nominati dal Romano Pontefice per cinque anni, con possibilità di una sola riconferma. Tra i compiti della Commissione cardinalizia vi sono quelli di nominare e revocare i membri del Consilio di Sovrintendenza, di deliberare sulla devoluzione degli utili, di approvare e revocare la nomina del Direttore e del Vicedirettore fatta dal Consiglio di Sovrintendenza. Circa il Prelato, un ufficio già presente negli Statuti del 1990, è confermato come Segretario della Commissione cardinalizia di vigilanza, inoltre assume la nuova VaticanBank-300x187funzione di assistere in loco amministratori e dipendenti a governare e operare secondo i principi fondanti dell’etica cattolica ed in coerenza con la missione dell’Istituto. La revisione legale dei conti, secondo gli Statuti rinnovati, sarà esercitata da un revisore esterno (persona fisica o società) nominato dalla Commissione cardinalizia, su proposta del Consiglio di Sovrintendenza, per un periodo di tre esercizi consecutivi, rinnovabile una sola volta. Lo IOR continuerà, poi, a rimanere soggetto all’attenta vigilanza dell’Autorità di Informazione Finanziaria dello Stato della Città del Vaticano. Con questi nuovi Statuti lo IOR potrà proseguire, dunque, la sua attività, iniziata nel 1942, nel rispetto delle normative canoniche, vaticane ed internazionali e nella fedeltà agli scopi originari ed ai principi dell’etica cattolica.