Presentazione degli articoli del mese di settembre 2021

Andrea Drigani dalla «Monarchia» dantesca, con l’esortazione di Paolo VI, vede indicate le premesse di un ordinamento sovranazionale per l’unità del genere umano e la pace universale. Giovanni Campanella invita alla lettura del libro della teologa ed economista svizzera Ina Pretorius, dove, tra l’altro, si afferma il primato per la cura dei non autosufficienti, nonché il ruolo dei «social» che ha infranto l’egemonia dei mass-media. Carlo Nardi con un tono elegiaco, da una poesia di Giovanni Pascoli, ci fa riflettere sull’amore materno. Dario Chiapetti recensisce il volume di Luis Esteban Larra Lomas che punta l’attenzione sul carattere escatologico negli scritti di San Francesco d’Assisi. Alessandro Clemenzia con il saggio di Gianfranco Calabrese rileva che la sinodalità non riguarda soltanto le strutture e le istituzioni ecclesiastiche, bensì l’essenza e la vita della Chiesa. Stefano Tarocchi fa memoria di un suo maestro: il cardinale Albert Vanhoye, insigne biblista, che ha studiato e fatto amare un testo fondamentale del Nuovo Testamento: la Lettera agli Ebrei. Mario Alexis Portella constata che la grave situazione in cui è precipitato l’Afghanistan, per il ritiro delle truppe USA, mostra l’incompatibilità tra la legge islamica e il sistema democratico, e rammenta la scelta di Atatürk per la laicità dello Stato. Francesco Romano da un’esposizione di un opera grafica su «Dante e la matematica» osserva come il Poeta aveva anche competenze scientifiche per trasmettere le verità della vita cristiana. Leonardo Salutati illustra l’esperienza delle «Credit Unions» promosse in Bangladesh da padre Giulio Berutti, che si inseriscono nella tradizione sociale cattolica della cooperazione, per rendere i poveri agenti del loro sviluppo. Francesco Vermigli in occasione della festa di San Matteo Apostolo, che si celebra nel mese di settembre, anche con l’aiuto del Caravaggio, svolge alcune considerazioni sulla vocazione intesa come chiamata di Dio per la salvezza personale e di tutti gli uomini. Carlo Parenti richiama l’attenzione sulle guerre dimenticate dai mass-media e in particolare relaziona sul drammatico conflitto nel Tigray etiope. Giovanni Pallanti riferisce sulla lettera del Presidente della Repubblica al professor Arnaldo Nesti, noto studioso di sociologia religiosa, fondatore e direttore della Rivista «Religioni e Società». Gianni Cioli segnala la pubblicazione, a cura di Paolo Carlotti, degli Atti di un convegno tenutosi presso l’Università Pontificia Salesiana, sul rapporto tra le teologia e l’identità e la differenza sessuale. Antonio Lovascio annota sulla crisi afghana che ha fatto riemergere grandi questioni non risolte come la gestione dei flussi migratori, la lotta al terrorismo ed il ruolo dell’Unione Europea nel contesto internazionale. Stefano Liccioli all’inizio di un nuovo anno scolastico ne riscontra le difficoltà esistenti, al di là delle circostanze del momento, quali l’adeguamento degli edifici, il reclutamento e la formazione dei docenti, l’effettivo apprendimento. Nella rubrica «Coscienza universitaria» viene fatta la sintesi del dibattito che è seguito all’intervento degli studenti alla cerimonia di consegna dei diplomi alla Scuola Superiore Normale di Pisa.




Parlare di scuola guardando la Luna e non il dito.

di Stefano Liccioli · Si sta per accendere la “luce verde” per un nuovo anno scolastico in tempo di pandemia. Negli ultimi mesi però l’attenzione dei media è stata sì catalizzata dal verde, ma da quello della certificazione detta anche Green pass (tanto per usare l’ennesimo anglicismo), il lasciapassare che il personale scolastico deve avere dal 1 settembre per accedere agli istituti scolastici. Non entro nel merito di tale questione perché se ne è già parlato molto, forse troppo. Non voglio trattare questo argomento perché mi sembra che ancora una volta l’attenzione della gente, riguardo alla scuola, sia condotta a guardare il dito piuttosto che la Luna che viene indicata. Mi spiego meglio. Ritengo che i temi veramente importanti che concernono l’istruzione rimangano spesso sullo sfondo del dibattito pubblico, mentre in primo piano risalta di volta in volta l’emergenza del momento o qualche notizia di colore. Quando le faccende realmente fondamentali finiscono sotto i riflettori, sovente lo fanno sotto forma di slogan come “occorre investire nella scuola!”, “gli insegnanti devono essere pagati di più!” oppure “basta con il precariato dei docenti”. Slogan che in molti casi purtroppo rimangono tali, utili per intervenire in un talk show o per strappare un applauso in qualche conferenza.

Guardare invece la Luna e non il dito significa, a mio avviso, riflettere sul mondo della scuola in modo diverso e riconoscere, per esempio, che se nelle classi è difficile, per non dire impossibile, il distanziamento tra gli alunni così come richiesto dai protocolli per contenere la diffusione del Covid-19 (da qui l’inevitabile ricorso alla Didattica a distanza) ciò dipende soprattutto dall’insufficienza degli spazi delle aule o dall’eccessiva numerosità delle classi descritta con quella discutibile espressione di “classe pollaio”. Quante volte sono stati annunciati investimenti nell’edilizia scolastica, ma spesso i soldi sono stati spesi solo per riparare o ristrutturare ambienti non più adeguati ad una didattica che voglia essere davvero innovativa? Si ripete che “l’ambiente educa”, ma molti degli ambienti in cui alunni ed alunne trascorrono la propria giornata scolastica non hanno, per loro natura, queste potenzialità educative perché si tratta di edifici storici, non idonei ad ospitare quelle buone pratiche didattiche che da più parti vengono sponsorizzate. A volte faccio cattivi pensieri e mi viene in mente che forse si aspetta che il problema del sovraffollamento delle aule si risolva da solo grazie al drammatico calo demografico che sta caratterizzando l’Italia negli ultimi decenni.

Un altro tema che mi sta particolarmente a cuore è quello del reclutamento dei docenti e della loro formazione. È troppo tempo ormai che si assumono insegnati con concorsi straordinari, sanatorie mascherate da “concorsi non selettivi” (un ossimoro più che un vero progetto di reclutamento): in un settore così strategico come la scelta del personale docente non si può essere guidati dall’emergenza. Occorre programmare una politica di assunzioni con largo respiro e prevedere una seria formazione alla professione d’insegnante che non deve essere mai considerata una scelta di ripiego. Attualmente si conosce il percorso per diventare ingegnere, medico, avvocato, architetto, ma non quello per diventare professori di scuola secondaria di primo e secondo grado.

Riservo un’ultima riflessione agli ultimi risultati delle prove INVALSI che sono stati diffusi lo scorso luglio. Confrontando i risultati degli alunni in italiano, matematica ed inglese conseguiti nel 2019 e nel 2021, la scuola primaria è apparsa sostanzialmente stabile, mentre nella scuola secondaria di primo grado non raggiunge livelli adeguati di competenza il 39% degli studenti per Italiano (5 punti percentuali in più sia rispetto al 2018 sia rispetto al 2019), il 45% degli studenti per Matematica (5 punti percentuali in più rispetto al 2018 e 6 punti percentuali in più rispetto al 2019), il 24% degli studenti per Inglese – lettura (2 punti percentuali in meno rispetto al 2018 e 2 punti percentuali in più rispetto al 2019), il 41% per Inglese – ascolto (3 punti percentuali in meno rispetto al 2018 e 1 punto percentuale in più rispetto al 2019).

Per quel che concerne la scuola secondaria di secondo grado, i risultati del 2021 (confrontati con quelli del 2019) sono più bassi in Italiano e in Matematica, minime le variazioni in Inglese (sia lettura sia ascolto). Non raggiunge livelli soddisfacenti il 44% degli studenti per Italiano (9 punti percentuali in più rispetto al 2019), il 51% per Matematica (9 punti percentuali in più rispetto al 2019), il 51% per Inglese-lettura (3 punti percentuali in più rispetto al 2019), il 63% per Inglese-ascolto (2 punti percentuali in più rispetto al 2019). Il calo è significativo per Italiano e Matematica, più limitato, con oscillazioni poco più che fisiologiche, per Inglese. Qualche osservatore si è subito affrettato a dare la colpa di questi risultati alla didattica a distanza (DAD) che ha contraddistinto il 2020 ed il 2021. Personalmente sono d’accordo con Roberto Ricci, responsabile dell’ Area Prove Invalsi, che a proposito di questi risultati ha così precisato in un’intervista rilasciata all’Osservatorio economico e sociale “Riparte l’Italia”:«È del tutto inappropriato attribuire i risultati presentati alla DaD, non è corretto e non ci permette di capire bene cosa si può fare, anzi, cos’è necessario fare». Ha poi aggiunto:«Sono troppo alte le quote di allievi che al termine delle scuole medie e delle superiori non raggiungono nemmeno lontanamente i traguardi attesi».

In conclusione mi sento di poter dire che la scuola ha bisogno di un patto trasversale tra le forze politiche che non è più rinviabile e che porti ad una riforma condivisa dei vari gradi d’istruzione, che duri nel tempo e che metta realmente al centro i bisogni educativi degli alunni, senza preoccuparsi delle prossime elezioni, ma interessandosi piuttosto delle prossime generazioni.




La caduta di Kabul dimostra l’incompatibilità tra la legge islamica e la democrazia

di Mario Alexis Portella · La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani con la resa statunitense di Kabul ai jihadisti il mese scorso è stato un choc per tutto il mondo. E’ stata paragonabile al ritiro umiliante americano dal Vietnam, nonostante la promessa del presidente Joe Biden che l’Afghanistan non sarebbe mai caduto nello stesso di quello del Vietnam. Così, è stato stravolto organizzativamente e militarmente il significato dell’accordo di Doha tra il presidente Donald Trump e i “moderati” talebani con un ritiro maldestro delle truppe della NATO e dei collaboratori afgani.

Una ragione per la caduta di Kabul è che l’esercito afghano, pur essendo “ufficialmente” più numeroso dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, (così come i talebani si chiamano) — 300.699 soldati rispetto ai 80.000 terroristi talebani — non era all’altezza di combattere militarmente per varie motivi, come la corruzione: i loro soldi venivano intascati dai politici e dai generali afgani corrotti.

Occorre tuttavia, approfondire come mai il governo Usa ha sbagliato fino al punto di perdere il suo predominio di leader del mondo libero.

L’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger ha spiegato:

Gli Stati Uniti si sono rivelati inadeguati nelle azioni di contrasto agli insorti a causa della loro incapacità nel definire quali fossero gli obiettivi raggiungibili e di collegarli tra loro in modo tale da ricevere l’appoggio delle istituzioni politiche americane. Gli obiettivi militari sono stati troppo assoluti e irraggiungibili, quelli politici troppo astratti e sfuggevoli. L’incapacità di collegarli tra loro ha fatto sì che l’America restasse invischiata in conflitti privi di termini ben definiti, e ci ha portati, in patria, a perdere di vista la finalità condivisa, sconfinando in un marasma di diatribe interne.”

La situazione è peggiorata nel momento in cui i talebani hanno lasciato il Paese dopo l’invasine americana dopo 2001 — i talebani stavano ospitando i jihadisti di al-Qaeda, i responsabili per le tragedie dell’11 settembre. Gli americani hanno perso di vista il loro principale obiettivo strategico, dopodiché si sono persuasi che l’unico modo per impedire il ritorno delle basi terroristiche nel Paese era quello di trasformare l’Afghanistan in uno Stato moderno, dotato di istituzioni democratiche e di un governo insediato su base costituzionale. E’ qui gli americani, come ha notato Kissinger, hanno gravemente sbagliato, cercando di imporre una democrazia su un popolo che non è capace né pronto per un sistema politico democratico a causa della religione islamica — come ha detto l’ex re dell’Arabia Saudita Fahd al-Saud nel 1993.

L’incompatibilità della democrazia nel mondo islamico deriva dalla teocrazia islamica che non prevede la separazione tra Stato e religione. Allah è il sovrano assoluto «e non condivide la sua legislazione con nessuno». (Sura 18, 26) Le cui parole devono essere obbedite in modo assoluto, senza discussione, senza dubbi, senza domande; non possiamo patteggiare con Allah, né possiamo ignorare il veto di Allah.

C’è un altro motivo perché la democrazia è inadattabile con l’Islam: la prevalenza della sharia — la legge islamica che cerca di legiferare per ogni singolo aspetto della vita del musulmano — il corpo politico islamico non prevede l’uguaglianza dell’essere umano, particolarmente tra musulmano e non-musulmano, tra uomo e donna e tra uomo libero e schiavo.

Le idee occidentali di individualismo, liberalismo, costituzionalismo, diritti umani, uguaglianza, libertà, stato di diritto, democrazia, libero mercato, separazione tra Stato e chiesa e sono praticamente escluse da gran parte della cultura islamica che pratica la sharia.

Mustafa Kemal Atatürk, il padre fondatore della Repubblica di Turchia, quando ha introdotto la democrazia, ha sottolineato che la fede islamica è una «teologia assurda di un beduino [arabo] immorale, [l’Islam] è un cadavere in putrefazione che avvelena le nostre vite» a causa della disuguaglianza e l’arretratezza della sharia.

Ecco perché nel 1924 Atatürk secolarizzò il suo paese eliminando il califfato, che sostanzialmente lasciò il linguaggio politico del Profeta dell’Islam vuoto. Era l’unico modo di instituire una vera democrazia per il bene del popolo. Una lezione che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan dovrebbe fare propria.

Eppure la professione di fede islamica (la shahada): “Non c’è altro dio all’infuori di Allah, e Maometto è il suo Messaggero”, continua ad essere propagata con violenza dagli islamisti, in questo caso dai talebani. Purtroppo, il mondo civile ha finalmente deciso di riconoscere la realtà della barbarie jihadisti.




Una lettera del Presidente della Repubblica al professor Arnaldo Nesti

di Giovanni Pallanti · Nel 1985 fu fondata la rivista <Religioni e società> da Arnaldo Nesti. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione del centesimo numero, che uscirà fra pochi giorni, ha inviato un significativo messaggio di complimenti, scrivendo: <L’indagine sviluppata dalla rivista – a cavallo fra riflessione filosofica, studi di antropologia culturale, osservazioni degli atteggiamenti delle diverse confessioni religiose, a confronto con le prove della società contemporanea, lungi dal rappresentare esercizio puramente accademico, è stata ricca di richiami e suggestioni anche sul terreno della stessa costruzione in Italia, di una democrazia coesa e feconda. Talvolta, malintese interpretazioni delle fedi religiose le collocano al crocevia tra cooperazione e potenziale conflitto tra popoli, culture, territori>. 

Un messaggio che Mattarella ha voluto non convenzionale, ma ricco di impliciti riferimenti allo sviluppo degli studi delle religioni per una maggiore convivenza civile fra gli uomini e le donne dell’Italia e del mondo. La redazione della rivista ha sede operativa in via Sant’Agostino a Firenze, dove abita l’ottantanovenne fondatore che recentemente ha donato tutta la sua biblioteca al Comune di Peccioli, dove è anche allo studio con il Comune pisano l’istituzione di una fondazione, che erediti la passione per la sociologia e l’antropologia religiosa del professor Nesti. Peccioli è molto interessato a questa importante e nuova iniziativa di uno studioso che ha dedicato la sua vita di cristiano e di intellettuale allo studio delle religioni. 

Sacerdote a 23 anni, laureato in teologia all’Università Lateranense, per molti anni Arnaldo Nesti è stato docente di sociologia delle religioni all’Università di Firenze. 

Già vice assistente nazionale delle Acli, fu conosciuto dal mondo ecclesiale italiano ed europeo, per alcuni saggi e studi, se da un lato irritarono la diocesi di Pistoia a cui egli apparteneva come presbitero, ebbero un notevole successo sul piano internazionale. Un suo lavoro fu recensito positivamente su Temoignage Chretien, da padre Chenu, uno dei maggiori teologi della chiesa cattolica del tempo. Ovviamente in una diocesi di provincia, un giovane e intraprendente sacerdote, già proiettato ai vertici dell’associazionismo operaio cattolico, incuteva rispetto e invidia. Per sottrarsi a questa morsa psicologica, l’allora don Arnaldo Nesti chiese un colloquio al vescovo di Pistoia monsignor Mario Longo Dorni, che miserevolmente gli propose di lasciare il sacerdozio, di trovarsi una moglie e di andare in esilio in Sudamerica. La reazione di Arnaldo Nesti fu durissima e da quel momento, nel reciproco silenzio fra Curia vescovile e lui medesimo, si incamminò nello studio sul ruolo delle religioni nella società umana. 

Diventato docente di sociologia religiosa all’Università di Firenze, nel 1985, come già detto, fondò la rivista <Religioni e società>. La parabola intellettuale e umana di Arnaldo Nesti ha un suo preciso percorso: egli è stato amico e studioso dei cattolici inquieti, ha avuto rapporti importanti anche per il sostegno della rivista con esponenti della politica italiana, come quello del già presidente del Consiglio dei ministri, Giovanni Goria, e Corrado Corghi, segretario della Democrazia cristiana dell’Emilia Romagna, seguace di papa Montini e braccio destro del cardinale Sergio Pignedoli. 

Quindi Nesti è stato un ponte intellettuale nel dialogo fra Chiesa e dissidenza cattolica e, al contempo, uno studioso con una visione ecumenica delle religioni, che anticipava al suo sbocciare l’attuazione delle decisioni del Concilio vaticano secondo. Un ruolo importante e prezioso nella storia della cultura italiana ed europea.




L’altra pandemia: la guerra. E la terribile situazione nel Tigray etiope.

di Carlo Parenti · Nell’omelia della messa a Santa Marta del 14 maggio 2020, Papa Francesco ha ricordato che oltre al dramma del Covid-19 “ci sono tante altre pandemie che fanno morire la gente e noi non ce ne accorgiamo, guardiamo da un’altra parte. Siamo un po’ incoscienti davanti alle tragedie che in questo momento accadono nel mondo. Soltanto vorrei dirvi una statistica ufficiale dei primi quattro mesi di quest’anno, che non parla della pandemia del coronavirus, parla di un’altra. Nei primi quattro mesi di quest’anno sono morte 3 milioni e 700 mila persone di fame. C’è la pandemia della fame[…]quella della guerra, quella dei bambini senza educazione” e tante altre.

Vorrei qui parlare delle guerre. La massima manifestazione “diabolica” della divisione tragica e distruttiva tra gli uomini e i popoli. Oggi nelle guerre sono coinvolti ben 69 stati e addirittura 837 milizie-guerriglieri e gruppi terroristi-separatisti-anarchici.

I conflitti nel mondo sono in piena espansione e i dati disponibili aggiornati al 31 luglio 2021 (vedi) sono difficilmente riassumibili tante sono le nazioni coinvolte. Provo una sintesi rinviando alla fonte che dà un quadro analitico sconvolgente e individua nominativamente tutti gli eserciti statuali e le milizie anche terroristiche coinvolte. Non vi si considerano peraltro le situazioni legate alla criminalità organizzata (si pensi al Messico dove annualmente i cartelli della droga uccidono mediamente 30 mila persone) che pure devastano il mondo. E poi ci sono situazioni legate all’uso privato di armi (in USA circa 30.000 morti annui). Da aggiungersi gli omicidi “normali). Per l’Onu (vedi), nel 2017 – ultimo dato pubblicato -sono stati 464mila. Circa il numero dei morti in guerra, la contabilità è difficile, ma si stima in 2/300.000 secondo gli anni. Nella sola Siria in 10 anni di conflitto civile si contano, secondo le fonti, tra 384-560 mila morti e 12 milioni di profughi.

AFRICA: (31 Stati e 289 tra milizie-guerrigliere, gruppi terroristi-separatisti-anarchici coinvolti) Punti Caldi: Burkina Faso (scontri tra etnici), Egitto (guerra contro militanti islamici ramo Stato Islamico), Libia (guerra civile in corso), Mali (scontri tra esercito e gruppi ribelli), Mozambico (scontri con ribelli Renamo), Nigeria (guerra contro i militanti islamici), Repubblica Centrafricana (spesso avvengono scontri armati tra musulmani e cristiani), Repubblica Democratica del Congo (guerra contro i gruppi ribelli), Somalia (guerra contro i militanti islamici di al-Shabaab), Sudan (guerra contro i gruppi ribelli nel Darfur), Sud Sudan (scontri con gruppi ribelli), Etiopia e Eritrea (conflitto contro la popolazione etiope del Tigray)

ASIA:(16 Stati e 193 tra milizie-guerriglieri, gruppi terroristi-separatisti-anarchici coinvolti). Punti Caldi: Afghanistan (Talebani hanno preso il potere ad agosto 2021), Birmania-Myanmar (guerra contro i gruppi ribelli), Filippine (guerra contro i militanti islamici), Pakistan (guerra contro i militanti islamici), Thailandia (colpo di Stato dell’esercito Maggio 2014)

EUROPA: (9 Stati e 83 tra milizie-guerriglieri, gruppi terroristi-separatisti-anarchici coinvolti) Punti Caldi: Cecenia (guerra contro i militanti islamici), Daghestan (guerra contro i militanti islamici), Ucraina (Secessione dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk e dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Lugansk), Artsakh ex Nagorno-Karabakh (scontri tra esercito Azerbaijan contro esercito Armenia e esercito del Artsakh (ex Nagorno-Karabakh)

MEDIO ORIENTE: (7 Stati e 266 tra milizie-guerriglieri, gruppi terroristi-separatisti-anarchici coinvolti) Punti Caldi: Iraq (guerra contro i militanti islamici dello Stato Islamico), Israele (guerra contro i militanti islamici nella Striscia di Gaza), Siria (guerra civile), Yemen (guerra contro e tra i militanti islamici)

AMERICHE: (7 Stati e 34 tra cartelli della droga, milizie-guerrigliere, gruppi terroristi-separatisti-anarchici coinvolti) Punti Caldi: Colombia (guerra contro i gruppi ribelli), Messico (guerra contro i gruppi del narcotraffico)

TOTALE: Totale degli Stati coinvolti nelle guerre 69; Totale Milizie-guerriglieri e gruppi terroristi-separatisti-anarchici coinvolti 837.

A tutto si devono aggiungere le Regioni e province autonome che lottano per l’Indipendenza: Africa 10; Asia 20; Europa 12; Medio Oriente 2; Oceania 2.

Cosa significhi in spesa per armamenti è intuibile ed inoltre sono cifre che non figurano in quelle militari delle nazioni.

Parlare di tutte è qui impossibile. Voglio però dire di un conflitto che resta ‘invisibile’ agli occhi della comunità internazionale: quello in Tigray.

Sono particolarmente vicino alla popolazione della regione del Tigray, in Etiopia, colpita da una grave crisi umanitaria che espone i più poveri alla carestia. C’è oggi la carestia, c’è la fame lì. Preghiamo insieme affinché cessino immediatamente le violenze, sia garantita a tutti l’assistenza alimentare e sanitaria, e si ripristini al più presto l’armonia sociale”: così al termine della recita dell’Angelus di domenica 13 giugno Papa Francesco ha ricordato la terribile situazione nel Tigray. (Si veda la scheda dell’ISPI) da cui traggo le seguenti notizie.

Migliaia di donne, ragazze e bambine sono vittime di stupri di guerra nella regione del Tigray, in Etiopia settentrionale al confine con l’Eritrea, teatro da mesi di un conflitto che vede l’esercito di Addis Abeba, a cui si sono unite le truppe della vicina Eritrea, in lotta contro il Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf). Il conflitto ha provocato lo sfollamento interno di migliaia di persone e la fuga di oltre 63mila tigrini nelle regioni confinanti del Sudan orientale, mentre l’Onu ha confermato che i militari bloccano l’accesso alle vie di comunicazione impedendo la distribuzione di cibo e aiuti nella regione dove ormai l’80% della popolazione (6 milioni di persone) rischia di morire di fame. Come se non bastasse, a denunciare il ricorso agli stupri come arma di guerra sono diverse associazioni sul territorio, mentre nella capitale proseguono gli arresti ai danni di giornalisti. Le testimonianze riferiscono di violenze sessuali “diffuse e sistematiche” perpetrate da uomini in uniforme. Nel suo briefing al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 15 aprile, Mark Lowcock, coordinatore dei soccorsi di emergenza delle Nazioni Unite, ha dichiarato che “non c’è dubbio che la violenza sessuale sia usata in questo conflitto come arma di guerra, come mezzo per umiliare, terrorizzare e traumatizzare un’intera popolazione oggi e una generazione successiva domani”. La gravità e la dimensione di questi reati sessuali sono spaventose, al punto da costituire crimini di guerra e forse anche crimini contro l’umanità.

Secondo l’Onu poi almeno 4,5 milioni di tigrini hanno bisogno urgente di aiuti umanitari e, come denunciato dalla Croce Rossa, mancano farmaci e cure mediche perché l’80% degli ospedali è stato distrutto o saccheggiato.

Diverse testimonianze (vedi) confermano massacri di preti copti ortodossi, suore e fedeli nei luoghi sacri. Mentre chiese e monasteri anche dei primi secoli della cristianità sono stati colpiti, rasi al suolo e saccheggiati e testi sacri millenari trafugati o bruciati.

Le ragioni dello scontro tra il primo ministro etiope Abiy Ahmed (peraltro – ironia della sorte e ennesima “svista” del Comitato per il Nobel norvegese- insignito del premio Nobel per la pace nel 2019), vero responsabile del conflitto, e l’élite tigrina hanno radici ancor più profonde e affondano in una lotta di potere e legittimità tra il governo federale e il Tplf, che si accompagna a odi tribali tra etnie diverse (Amhara, Tigrini, Oromo). La guerra civile è iniziata il 4 novembre 2020, dopo che il governo di Addis Abeba ha accusato il Tplf di aver perpetrato un attacco contro una base militare federale. Inoltre, di fatto l’Eritrea sta approfittando della situazione e interviene nel conflitto per assestare un colpo definitivo ai tigrini, avamposto delle truppe etiopi nei lunghi anni di guerra tra i due paesi. Fino ad ora la comunità internazionale è sostanzialmente rimasta a guardare questa guerra civile. Evitare che l’Etiopia si trasformi in un “nuovo Ruanda” dovrebbe essere una priorità da parte di tutti gli attori coinvolti e della silente comunità internazionale. Preghiamo con Papa Francesco.




La chiamata di Matteo. Metafora di ogni vocazione

di Francesco Vermigli · Il 21 settembre la Chiesa celebra la festa liturgica di san Matteo apostolo. Pensi alla figura di Matteo, pensi alla sua chiamata che viene raccontata nei Vangeli sinottici (Mt 9,9; Mc 2,14; Lc 5,27-28) e subito – si direbbe, quasi inevitabilmente – ti torna alla mente il dipinto del Caravaggio; realizzato con buona probabilità entro il primo decennio del XVII secolo e ancor oggi esposto in una cappella laterale, la Cappella Contarelli, della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Non è nostra intenzione presentare un’analisi storico-artistica di questo dipinto: cosa che supererebbe ampiamente le competenze di chi scrive. Qui basti accennare come sia significativo quanto l’immaginario che trova origine nel testo biblico, nella nostra storia occidentale sia intessuto di riferimenti iconografici; quei riferimenti iconografici che rendono conto di come proprio questo sia il proprio della Scrittura: suscitare immagini, ispirare l’arte ma anche la letteratura, essere vita e carne di ogni giorno. La Vocazione di san Matteo di Michelangelo Merisi insegna innanzitutto questo.

Ma insegna anche altro e non meno importante. Insegna, almeno così mi pare, alcuni aspetti fondamentali della dinamica vocazionale: di ogni dinamica vocazionale. Lo sviluppo del racconto evangelico e qualche altra considerazione a latere ci saranno di aiuto.

Gesù passa. In tutti e tre i racconti evangelici dei Sinottici, Gesù passa. Quello che Gesù compie in questo episodio, corrisponde ad un aspetto fondamentale dell’identità di Dio: in Cristo infatti Dio passa nel mondo, Dio si muove sulla terra; perché è di Dio, della sua natura più profonda essere dinamico. Dinamico è infatti l’Amore. Dinamico è Dio nelle tre persone. Dinamiche sono le tre persone divine che si comunicano l’unica natura divina, che esse sono. Quando dunque Gesù si muove nel mondo, quando egli passa beneficando e risanando tutti (cf. At 10,38) rende visibile l’identità dinamica del Dio Amore. Gesù passa e cammina nella sua umanità, perché cerca l’uomo per salvarlo: i passi di Gesù sono come la restituzione corporea del movimento che nasce dalle profondità dell’infinito mistero d’Amore di Dio.

Gesù vede. Passa Gesù e vede Matteo-Levi. Matteo non si accorge di Gesù: è Gesù che si accorge di lui. Perché è dell’uomo non tanto vedere Dio, ma, prima ancora, è dell’uomo essere visto da Dio: essere guardato, essere scorto, essere scoperto. Come è dell’Amore: fare sempre la prima mossa, vedere prima di essere visti. Gesù vede Matteo, perché, si direbbe, ha gli occhi per vederlo. Perché Gesù, come si diceva sopra, cerca l’uomo, lo vuole trovare, perché lo vuole salvare.

Gesù chiama. Come noto, il motto sullo stemma di papa Francesco (miserando atque eligendo) fa riferimento a questo episodio evangelico, ma riletto attraverso l’interpretazione che di esso aveva dato Beda il Venerabile in una sua omelia: «Vidit ergo Iesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi Sequere me» (Corpus Christianorum Series Latina, 122, pp. 149-151). Questa citazione dal grande autore britannico ci aiuta a capire come l’invito che Gesù fa a seguirlo, nasce da quello sguardo di misericordia e di compassione che è all’origine di tutto. Anzi, Beda ci ricorda che Matteo viene scelto e dunque viene chiamato, proprio perché Gesù lo ha guardato con sguardo di misericordia e di compassione.

Matteo risponde. La risposta di Matteo si direbbe immediata, almeno da come ci viene presentata dai Sinottici. Quel che conta è che i gesti che Matteo compie sono assolutamente decisivi, per comprendere ogni dinamica vocazionale: Matteo lascia tutto (secondo il solo Mc), si alza e segue Gesù (in tutti i Sinottici). La vocazione dunque si innesta su una dinamica di abbandono / sequela. Ogni accoglienza necessariamente passa attraverso qualche abbandono. Chi sceglie di accogliere la chiamata a qualcosa – tanto più se si tratta della chiamata a seguire Gesù – passa attraverso un abbandono, anche sofferente, di qualcosa che aveva in precedenza. Ed è la sofferenza dell’abbandono che rende vero e autentico questo passo così importante.

La chiamata è una salvezza. La chiamata di Matteo è seguita sempre dal racconto in cui Gesù è a casa sua e interloquisce con i farisei e i loro scribi, dichiarando una verità fondamentale: che egli è venuto a salvare e questo significa che sono salvati coloro che hanno bisogno di salvezza. Come solo chi è malato, ha bisogno del medico. Così facendo Gesù rivela che ogni vocazione, ogni chiamata è la concreta via di salvezza e di guarigione offerta a ciascuno da Dio.

All’inizio di questo articolo abbiamo confessato di non essere in grado di presentare il dipinto del Caravaggio. Ne siamo ovviamente ancora convinti. Ma notiamo quanto grande sia la fedeltà del pittore al messaggio che viene espresso dal racconto evangelico. Nel dipinto si vede Gesù che agisce per primo: passando, vedendo, chiamando. La luce viene da Lui, non dalla finestra aperta: è la luce che viene da quella prima mossa di grazia e di misericordia che ha la sua origine in Dio. Questa è la salvezza in cui consiste la vocazione: Matteo è sorpreso da Dio che per primo volge il suo sguardo e per primo lo chiama.




Profughi e terrorismo, l’Europa dopo la disfatta di Kabul

di Antonio Lovascio · Prima le tragedie e le odissee del Mediterraneo, la disperata fuga da Libia e Tunisia verso le coste italiane. Ora Il crollo dell’Afghanistan,dopo il precipitoso ritiro delle truppe americane ed alleate che sono riuscite ad evacuare le ambasciate, a portare in salvo centomila fedeli collboratori lasciandone molte di più in balia degli assalitori islamici. Questo scenario risveglia in tutto l’Occidente ma specialmente in Europa vecchi fantasmi legati alle emergenze migratorie del 2015/2016. Fantasmi riemersi sull’onda delle nuove stragi consumate dall’Isis, delle violenze e violazioni dei diritte delle donne, degli attacchi alla società civile ed ai media operate dagli stessi Talebani, ritornati al potere in meno di dieci giorni, per il dileguarsi di un governo e di un esercito corrotti e inadeguati.

Il disastro umanitario che ne deriva – oltre ai massacri, alle vendette sugli afghani più “emancipati”, all’escalation del terrorismo jihadista – rischia di avere effetti immediati sull’Unione, in termini sociali e politici. Si calcola infatti siano almeno cinquecentomila gli afghani che avranno bisogno di protezione, mentre altrettanti già da tempo si trovano in Europa senza però alcun riconoscimento dello “status” di rifugiati. I leader europei, già molto distanti tra loro sul superamento del Regolamento di Dublino e l’adozione di una politica migratoria comune, temono il proliferare dei populismi di destra, soprattutto in vista delle elezioni in Germania e Francia e presumibilmente nel 2023, se non prima, anche in Italia.

Dopo i soprusi, le scie di sangue per gli attentati di Kabul, la pressione è già visibile in alcuni Paesi confinanti con l’Afghanistan. Sebbene non si manifesti ancora una situazione simile a quella siriana nel 2015, ci sono comunque gravi conseguenze da valutare. Il peggio dell’emergenza-rifugiati potrebbe essere evitato o almeno rallentato, ma sono immaginabili nuove tensioni e conflitti con corridoi di transito, come il Pakistan, la Turchia, l’Iran e la Grecia. L’Occidente, dopo il fallimento dell’operazione bellica e dei ventennali tentativi per far germogliare la democrazia a Kabul, deve ritrovare il bandolo di una solida e condivisa azione diplomatica: un approccio di dialogo con i Talebani – certo non il riconoscimento! – sembra purtroppo un passo obbligato. Ed è perciò positivo lo sforzo di Draghi per un summit straordinario dei G20 (quest’anno l’Italia ha la presidenza) dove Cina e Russia siedono insieme agli Stati Uniti, ai Paesi europei, all’India, alla Turchia e all’Arabia Saudita, ma ora vogliono contare di più. In questa sede di confronto tutti dovranno ricordarsi che dal 2005 le Nazioni Unite hanno previsto nei loro statuti il principio della “responsabilità di proteggere”, che pone in testa alla comunità internazionale il dovere di difendere i popoli quando i loro governi non vogliono o non possono farlo, usando ogni mezzo diplomatico e umanitario. Principio basato sul fatto che tutte le donne e tutti gli uomini – non si stanca di ripeterlo Papa Francesco nei suoi appelli sempre più forti e frequenti – nascono liberi e uguali. Quindi hanno tutti gli stessi universali diritti, qualsiasi sia la loro lingua, cultura o religione, anche se il loro stesso governo li nega. Certo i nostri governanti dovranno cercare di non ripetere gli errori del passato e del presente; continuare a fare processi l’uno all’altro anche per le decisioni più recenti e alcune improvvide dichiarazioni di Biden, definito “anatra zoppa”. La catastrofe della strategia Usa è stata ampiamente e lucidamente analizzata da quella vecchia volpe della diplomazia statunitense che corrisponde al 97enne Henry Kissinger: la trasformazione dell’Afghanistan in un Paese moderno richiedeva tempi non conciliabili con i processi politici americani. Ha sbagliato Biden, ma ancor più i suoi predecessori; e non di meno gli Alleati silenti. Tesi sviluppata, in un pungente editoriale sul “Corriere della Sera”, dallo storico Paolo Mieli. Secondo il quale non è giusto far ricadere interamente sull’attuale presidente Usa “qualcosa di più di una responsabilità oggettiva”. Nella lunga stagione in cui fu vice di Obama, Biden maneggiò con grandissima cautela il dossier Afghanistan. Fu poi Donald Trump ad impostare, con i negoziati di Doha, le modalità di uscita dal conflitto. Tutto ciò sulla base di un’esplicita trattativa con quello che nei documenti ufficiali viene tuttora definito “Emirato islamico afghano”, che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è noto come i Talebani.

Quei colloqui andarono avanti un anno e mezzo e si conclusero con un accordo, il 29 febbraio del 2020, che prefigurava l’evoluzione odierna. Senza alcuna sostanziale obiezione da parte di quel che siamo soliti definire Occidente. “All’epoca – ha evidenziato lo storico – non c’era atto di Trump (neanche un tweet) che non provocasse polemiche interminabili. Curiosamente, però, nessuno o quasi ebbe alcunché da ridire sui patteggiamenti Usa di Doha. Neanche sul documento con cui si annunciava che i poteri sarebbero tornati nelle mani dei Talebani. Anzi, tutto avrebbe dovuto realizzarsi in maggio, poche settimane dopo l’insediamento di Biden, se non con una dilazione di qualche mese”. Giustamente Mieli ha fatto notare che, “se a giugno nel G7 in Cornovaglia qualcuno avesse suonato l’allerta, avremmo avuto un centinaio di giorni per procedere ad un’evacuazione dall’Afghanistan assai più ordinata. Magari protetta da uomini armati rimasti sul territorio. Invece tutti, anche gli europei, hanno programmato di riportare in patria i militari lasciando sostanzialmente a quel che restava dell’esercito statunitense l’incombenza di proteggere l’esodo degli afghani”.

Ora che la più importante missione della storia della Nato si è conclusa con una debacle e l’Alleanza atlantica guidata da Washington si è frantumata prima di ridisegnare il suo futuro (urge una rifondazione!), il Vecchio Continente deve cercare di non indebolirsi ulteriormente nei confronti di potenze come Russia e Cina, che vorrebbero aumentare la loro influenza in Asia e in altre parti del mondo, dopo quella acquisita in Medio Oriente. Nonostante il Covid, l’Ue ha una ripresa economica che va al di là delle più ottimistiche previsioni e che sarà rafforzata dai Recovery. Deve quindi fare uno scatto per non perdere l’ultima occasione che ha di recitare un ruolo non marginale. Serve naturalmente, come ha chiesto Mattarella, maggior coraggio e,soprattutto, un salto in avanti nell’autonomia geopolitica e nella capacità di difesa europea, per attuare finalmente una politica seria ed equa di accoglienza e distribuzione dei rifugiati. Ben diversa dalle continue risse cui abbiamo assistito in questi anni e negli ultimi mesi di fronte all’emergenza profughi del Mediterraneo. Gli egoismi ed i populismi hanno purtroppo prevalso sul dramma della guerra, dello sfruttamento, della corruzione, della mancanza di libertà, della tratta di donne e bambini. E se ne vedono i risultati.




Diritto internazionale o sovranazionale? Un invito dalla «Monarchia» di Dante

di Andrea Drigani · Questo Anno Dantesco, nel VII centenario della morte del Poeta, ha tra l’altro posto in evidenza, con numerosi scritti e studi (anche su questa Rivista), come gli interessi culturali di Dante si rivolgessero all’intero scibile umano, dunque anche in ordine alle dottrine giuridiche e politiche.

San Paolo VI nella Lettera Apostolica «Altissimi Cantus» del 7 dicembre 1965, l’unica opera di Dante che cita, oltre alla Divina Commedia, è la «Monarchia». Papa Montini osserva che la monarchia universale, tratteggiata in termini medievali, esige una potestà sovranazionale, che faccia vigere un’unica legge a tutela della pace e della concordia dei popoli. Il presagio del divino poeta – concludeva San Paolo VI – non è affatto utopistico, come ad alcuni potrebbe sembrare, dal momento che ha trovata nella nostra epoca una certa attuazione nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, con estensione e beneficio che tendono a riguardare i popoli del mondo intero.

La formazione dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite), avvenuta nel 1945 da parte della coalizione degli Stati vincenti sulla Germania e sul Giappone, avrebbe dovuto avere lo scopo di impedire nuove guerre e di creare un ordinamento internazionale basato sul rispetto di alcune, sia pur minime, norme giuridiche; in questo senso vanno la Carta dell’ONU del 1945, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e lo Statuto della Corte Internazionale di Giustizia del 1946.

Non v’è dubbio che alcuni risultati si sono ottenuti (i Patti internazionali sui diritti economici, sociali, e culturali e sui diritti civili e politici sottoscritti nel 1966), ma permangono ancora ampie e pericolose lacune sia di natura pratica che teorica.

La regolazione dell’attività dell’ONU sembra fondarsi apparentemente su una democrazia (che forse è impossibile da realizzare), ma è invece dominata da una pentarchia (U.S.A., Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) attraverso lo strumento del diritto di veto, che ha gravemente inciso sulla funzionalità e la credibilità delle Nazioni Unite.

A tali difficoltà va aggiunta la questione dell’essenza del diritto internazionale, ritenuta dai più in senso esclusivamente contrattuale, derivante cioè dal libero consenso degli Stati, attraverso la stipula degli accordi, alla cui applicazione, comunque, gli Stati stessi possono apporre particolari clausole restrittive.

Il diritto internazionale, in tal modo, si presenta con un’articolazione molto flessibile e fragile, basti pensare alla scarsa ed inefficace tutela dei diritti della persona umana, ivi compreso il diritto alla libertà religiosa ed all’impossibilità di infliggere serie sanzioni agli Stati inadempienti nei confronti delle disposizioni pattizie.

E’ assai opportuno, pertanto, accogliere l’invito di San Paolo VI il quale non riteneva la «Monarchia» di Dante un libro morto, che non diceva più nulla a nessuno, bensì contenente dei principi fondamentali per un diverso ordinamento internazionale o, più precisamente, sovranazionale.

Possiamo enucleare, dal trattato dantesco, almeno tre concetti. Il primo concerne la necessità di un governo universale che si riferisce ad un principio logico ed ontologico (archè), escludendo l’uso arbitrario e irrazionale del potere, con una potestà che non assorbe o estingue i vari principati, regni o repubbliche, che rimangono pienamente autonomi nel loro ambito, nei limiti del diritto naturale e della legittima subordinazione al governo universale.

Il secondo concetto che emerge dalla «Monarchia» di Dante è l’unità del genere umano che nessuna differenza etnica e culturale può distruggere, poiché l’intera umanità darà il meglio delle sue potenzialità, con la pax universalis. Per il mantenimento di quest’ultima occorre un’autorità monarchica mondiale che non derivi da un contratto, ma dalla natura stessa dell’unico consorzio umano.

Il terzo concetto è quello della risoluzione delle controversie, cioè il rispetto della giustizia e delle leggi sovranazionali. I regni e le città hanno in loro delle caratteristiche particolari, pertanto è bene che siano regolate da leggi diverse, ma il genere umano nella sua globalità deve avere delle norme comuni ed universali (Ius commune e Ius gentium).

La pace e l’ordinata vita del consorzio umano hanno anche bisogno di un’adeguata formazione educativa, ma il problema dell’esistenza di un diritto e di una potestà al di sopra delle nazioni è irrinunciabile. Le argomentazioni della «Monarchia» dantesca vengono da lontano ma, secondo me, vanno verso il futuro.




Considerazioni sull’opera grafica intitolata «Dante e la matematica»

di Francesco Romano • In una recente esposizione alla Galleria “Gadarte” di Firenze ha trovato risalto l’opera dell’artista Luciana Romano dal titolo “Dante e la matematica”, eseguita con la tecnica dell’incisione a punta secca su lastra di plexiglass, per rappresentare uno tra i numerosi riferimenti alla matematica presenti nella Divina Commedia. Nell’opera viene plasticamente raffigurato lo sfavillio dei cerchi e il coro delle voci che rivelano la presenza e il festeggiamento degli angeli. Il numero di scintille prodotte è straordinariamente elevato.

Dante oltre a essere un letterato possedeva a una vasta cultura generale, la conoscenza di nozioni scientifiche del tempo e della matematica. Nella Commedia molti sono gli spunti di collegamento con la matematica, sia direttamente proposti da Dante, sia indirettamente rintracciabili tra i suoi passi. Il Paradiso è la cantica più ricca in assoluto di riferimenti matematici.

L’artista ha eseguito la sua raffigurazione prendendo spunto da questi versi di Dante da lei riportati in calce alla incisione:

L’incendio suo seguiva ogni scintilla;

ed eran tante, che ‘l numero loro

più che ‘l doppiar de li scacchi s’inmilla” (Paradiso, XXVIII 91-93).

Dante e Beatrice si trovano nel cielo cristallino (o Primo Mobile), sede dei nove cori angelici. Beatrice ha appena spiegato a Dante la struttura e la dinamica dei cerchi concentrici fiammeggianti (che ospitano i cori) e ruotano intorno a quello che sembra essere il loro centro comune, un punto luminosissimo corrispondente a Dio.

Spesso i teologi si erano cimentati nel tentativo di rintracciare il reale numero di creature angeliche, senza riuscire ad andare al di là dei termini usati come “innumerevoli”, “in numero sterminato”, “incalcolabili”, e via elencando. Anche Dante vuole esprimere la sua visione in proposito dal momento che i canti XXVIII e XXIX del Paradiso sono dedicati alla dottrina degli angeli.

In essi Dante osserva le categorie angeliche che presiedono ai nove cieli del Paradiso, disposte secondo nove cerchi concentrici in perpetuo movimento. Da ognuno di essi, come da un crogiuolo di ferro incandescente, un numero strabiliante di scintille si stacca dal proprio cerchio, in modo che gli angeli si distinguano uno a uno, pur continuando a seguirne il movimento.

Ora, Dante vuole rendere l’immagine di un numero grandissimo tendente all’infinito, così alto che la classica numerazione romana (basata su I, V, X, L, C, D, M) è impossibilitata ad esprimerlo. Il concetto di passaggio al limite per “x” tendente all’infinito non era noto a quell’epoca. Così la fantasia dantesca, strettamente legata al potere visivo delle parole, fa ricorso a un famoso aneddoto sull’origine del gioco degli scacchi.

Il paragone scacchistico utilizzato da Dante è particolarmente significativo. Il numero cui fa riferimento Dante in questi versi è tratto dalla leggenda orientale secondo la quale l’inventore degli scacchi Sissa Nassir chiese al re di Persia, come premio della sua invenzione, un chicco di grano sulla prima casella della scacchiera, due sulla seconda, quattro sulla terza, e così via, raddoppiando sempre fino a originare un numero straordinariamente grande.

Nella Firenze di Dante gli scacchi godevano di grande favore tra i nobili e gli ecclesiastici. È appurato che Dante sapesse giocare a scacchi e in particolare che lo facesse con gli amici Cino da Pistoia e Guido Cavalcanti.

Tornando all’aneddoto, al re di Persia la richiesta apparve esageratamente modesta, da proporre invece a Sissa Nassir di potergli donare una provincia del suo impero, ma questi fu irremovibile. Allora il Re chiamò i suoi contabili ed ordinò loro di fare il calcolo e di dare al matematico i “chicchi di grano” che egli aveva chiesto.

Dopo due settimane di calcoli, i contabili furono ricevuti dall’imperatore che chiese loro se avessero terminato il calcolo; essi annuirono. Il re domandò “Bene, quanto grano ha chiesto Sissa Nassir? Ce n’è abbastanza nei granai reali per accontentarlo?”.

A questo punto il capo dei contabili rispose: “Mio signore, per dare a Sissa Nassir tutto il grano che ha chiesto, tu dovresti spianare tutte le montagne della Terra, tagliare tutte le foreste, colmare tutti i mari, prosciugare tutti i fiumi, radere al suolo tutte le città, e coltivare a grano l’intera superficie della Terra per 1500 anni consecutivi”.

Il Re restò di stucco: evidentemente non poteva avere idea di quanto sia vertiginosa la crescita di una funzione esponenziale. Il problema posto da Sissa Nassir ai contabili reali consisteva infatti nello stabilire la somma dei primi 64 termini di una progressione geometrica di ragione 2.

Dunque per risolvere il problema di Sissa Nassir bisogna trovare la somma dei termini di una progressione geometrica di ragione 2 il cui primo termine vale 1. Usando la formula si ha:

S64= 1 x (264 – 1) / (2 – 1) = 264– 1= 18.446.744.073.709.551.615.

Si tratta indiscutibilmente di un risultato estremamente grande, che nel nostro sistema di numerazione richiede 19 cifre per essere scritto.

È possibile che Dante non fosse ancora soddisfatto dell’iperbolico numero rappresentato dal “doppiar de li scacchi”, e così abbia pensato di sostituire alle potenze del due le potenze del mille. In altre parole, se sulla prima casella della scacchiera mettiamo un angelo, sulla seconda ne mettiamo non due ma mille, sulla terza mille per mille, cioè un milione, sulla quarta un milione per mille, cioè un miliardo, e così via fino alla sessaquattresima. In tal modo il numero degli angeli invece che raddoppiare “s’inmilla”! Dunque il problema di Sissa Nassir si trasforma in quello di Dante di trovare la somma dei primi 64 termini di una progressione geometrica il cui primo termine è 1 e la ragione vale non più 2 bensì 1000. La formula ci dà allora:

S64= 1 x (100064– 1) / (1000 – 1) = (10192– 1) / 999 = circa 1,001 x 10189.

Un numero decisamente al di là di ogni possibilità di conteggio, dato che la massa in grammi dell’universo oggi conosciuta arriva fino a 1058.

Il verbo “inmillare”, qui usato per indicare una progressione geometrica pari a “mille”, è stato coniato da Dante, creatore di parole e non solo di versi. Si può affermare che la Divina Commedia è la sintesi dell’intero scibile medievale, non solo dal punto di vista letterario, ma anche scientifico.




Le «banche dei poveri» e il vero sviluppo

 

di Leonardo Salutati · Lo scorso mese di agosto la stampa nazionale ha riportato la notizia della scomparsa, l’11 dello stesso mese a causa di complicanze dovute al Covid-19, di padre Giulio Berutti, 77 anni, sacerdote missionario del PIME a Dinajpur in Bangladesh, ricordato come «fondatore delle “banche dei poveri”, sull’esempio di Muhammad Yunus» (La Repubblica). Indubbiamente Muhammad Yunus, fondatore della Grameen Bank che dal 1976 ha diffuso il micro credito fra milioni di famiglie povere del Bangladesh, ha certamente meritato il Premio Nobel 2006 per la Pace, tuttavia il microcredito in Bangladesh lo hanno iniziato i missionari cattolici e protestanti agli inizi del Novecento, prima di Yunus e della Grameen Bank.

Le “banche dei poveri”, ovvero le “Credit Unions” di padre Berutti, sono di fatto Cooperative di Credito che offrono il proprio servizio prevalentemente, anche se non esclusivamente, alla diffidente popolazione tribale e, grazie a loro, molte persone sono riuscite ad avviare una piccola attività, comprare casa o pagare gli studi superiori ai figli, evitando di cadere nella rete dell’usura.

La somiglianza delle “Credit Unions” con la Grameen Bank di Yunus si esaurisce nel fatto che entrambe le iniziative operano nell’ambito del microcredito. Infatti le “Credit Unions” attingono piuttosto ispirazione nella realtà della cooperazione che, sbocciata a Rochedale in Inghilterra nel 1844 con i “Probi Pionieri”, si svilupperà poi decisamente nell’ambito di quel cattolicesimo sociale precursore della Rerum novarum, in Germania con Friedrich Wilhelm Raiffeisen (1818-1888), Francia e Italia, dando vita alle prime esperienze di Credito Cooperativo.

La prima Credit Union, la “Chotanagpur Catholic Mission Co-operative Credit Society”, nasce a Chotanagpur nel 1909, nella diocesi di Ranchi, nell’attuale stato del Bihar, nord India, attiva ancora oggi con migliaia di soci, grazie all’iniziativa del padre gesuita tedesco John-Baptist Hoffmann (1857-1928), che aveva avuto modo di approfondire la conoscenza dei meccanismi della cooperazione in occasione di un suo rientro in patria. In seguito il suo esempio fu seguito anche in quello che è oggi il Bangladesh fin dagli anni ‘30. In particolare il movimento delle “Credit Unions” si consolidò e sviluppò ulteriormente negli anni ‘50 nella diocesi di Dhaka per opera di padre Charles Young (1904-1988), missionario americano della Congregazione della S. Croce.

Nella diocesi di Dinajpur affidata al PIME, nel nord-ovest del Bangladesh, questo movimento prese piede negli anni ‘60, con successo tra i cristiani di etnia bengalese, ma con alterne vicende tra la comunità tribale. P. Berutti si inserisce nel solco di questa esperienza nel 1993, con la missione di rivolgersi prevalentemente al difficile ambiente tribale e con un approccio sostanzialmente diverso da quello di Grameen Bank e di più di un migliaio di ONG, che si sono buttate sul metodo del micro-credito come parola magica per attirare fondi dall’estero con l’intento di fare dello sviluppo e di risolvere, con distribuzione a tappeto di prestiti, il problema della povertà. Si tratta però di uno sviluppo quantitativo, che presume come causa primaria della povertà la mancanza di capitale e che ripete lo schema in cui c’è chi dà e chi riceve, i “poveri” sono i beneficiari e i “ricchi” pensano di essere attori o agenti dello sviluppo (p. Berutti).

Tra l’altro, lo scopo della Grameen Bank è di produrre profitto e distribuire dividendi ai soci, mentre quello delle “Credit Unions” è invece di aiutare i poveri stimolandoli a risparmiare e ad usare il loro risparmio per produrre altra ricchezza. Padre Giulio spiegava in un’intervista del 2009 a padre Gheddo che: «I piccoli prestiti che fanno le Credit Union vengono restituiti col modico interesse del 12% annuale, molto più basso di quello che fanno le banche (del 22-24%) e meno della metà di quello che fa la famosa Grameen Bank di Yunus, che arriva a pretendere il 28% annuo di interesse sui prestiti. Yunus in Bangladesh è criticato per l’eccessiva rigidità e durezza verso le famiglie che non sono in grado di restituire i prestiti a quell’altissimo tasso d’interesse (comunque inferiore a quello degli usurai!) e quindi gettando nella disperazione e degrado umano i poveri più incapaci. Però la Grameen Bank, nel quadro bengalese, ha molti meriti anche se è una banca di puro capitalismo».

Diversamente le “Credit Union” cristiane vogliono educare al risparmio la gente più povera. Infatti, in continuità con i valori tipici della cultura tribale, ma anche della tradizione cristiana, di solidarietà, uguaglianza fra tutti, pazienza, capacità di godere con poco, la modalità delle “Credit Unions” mira a rendere le stesse persone povere agenti del proprio sviluppo. I tribali sono accompagnati a prendere chiaramente coscienza della propria realtà, sono incoraggiati a gestire le proprie risorse aiutandosi a vicenda, garanti gli uni per gli altri, autogestendosi come gruppo. In particolare, sono guidati a risparmiare per crearsi un proprio capitale, per favorire l’affrancamento da ogni potere esterno e l’affermazione della propria dignità, per garantire la continuità nel tempo, nella qualità dei rapporti umani e nella quantità degli interventi finanziari. È indubbiamente una strada più lunga di quella offerta da molte ONG, ma è la più sicura, perché lo sviluppo è come la crescita naturale, che richiede tempo ed esperienza e non crea scompensi (p. Berutti).

Siamo sulla linea di quanto insegna San Paolo VI nella Populorum progressio, quando ricorda che il vero sviluppo è il passaggio da condizioni meno umane a condizioni più umane. «Meno umane: le carenze materiali di coloro che sono privati del minimo vitale, e le carenze morali di coloro che sono mutilati dall’egoismo. Meno umane: le strutture oppressive (…) Più umane: l’ascesa dalla miseria verso il possesso del necessario, la vittoria sui flagelli sociali, l’ampliamento delle conoscenze, l’acquisizione della cultura (…) l’accresciuta considerazione della dignità degli altri (…) la cooperazione al bene comune, la volontà di pace. Più umane, ancora: il riconoscimento da parte dell’uomo dei valori supremi, e di Dio che ne è la sorgente e il termine. Più umane, infine e soprattutto: la fede, dono di Dio accolto dalla buona volontà dell’uomo, e l’unità nella carità del Cristo» (PP 21).

 




Economia è cura

di Giovanni Campanella · Nel mese di aprile 2019, la casa editrice Altreconomia ha pubblicato, all’interno della collana “I saggi di Altreconomia”, un piccolo libro intitolato L’Economia è cura. Una vita buona per tutti: dall’economia delle merci alla società dei bisogni e delle relazioni, scritto da Ina Pretorius. Il libro originale è uscito per la prima volta in tedesco nella primavera del 2015 a Berlino ed il suo titolo è Wirtschaft ist Care oder: Die Wiederentdeckung des Selbstverständlichen. Poco dopo è stato tradotto in inglese con il titolo The care-centered economy e nel marzo del 2016 è stato pubblicato per la prima volta in italiano. L’edizione del 2019 è riveduta e pubblicata da un nuovo editore e corredata di contributi di altri pensatori. Presentazione, traduzione e curatela sono affidati ad Adriana Maestro. La prefazione è di Luisa Cavaliere mentre la postfazione è di Roberto Mancini (non il commissario tecnico della Nazionale Italiana di calcio campione d’Europa ma il professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Macerata, editorialista di Altreconomia con la rubrica mensile “Idee eretiche”, direttore delle collane “Orizzonte filosofico” e “Tessiture di laicità” per la Cittadella editrice di Assisi).

«Ina Praetorius, nata nel 1956 a Karlsruhe, in Germania, è una teologa ed economista svizzera di fede evangelica che si autodefinisce “una rompiscatole postpatriarcale”. Vive con la famiglia a Wattwil, nel Canton San Gallo. Dal 1987 è autrice di contributi che l’hanno portata a essere considerata una delle maggiori rappresentanti del femminismo teologico militante e “radicale”. Membro attivo dell’Afert, l’associazione delle teologhe europee, è nota grazie ad alcuni interventi su Concilium e a consistenti contributi su numerose riviste. I suoi temi principali sono l’etica femminista e lo stile di vita post-patriarcale. Ha guidato un movimento per salvare l’insegnamento dell’economia domestica nelle scuole svizzere e nel 2013, sempre in Svizzera, ha sostenuto la campagna per un reddito di base incondizionato.

(…).

Adriana Maestro è responsabile del Centro Studi Mediterraneo Sociale e dell’associazione Rita Atria-Giancarlo Siani, a Napoli. Dagli studi sul pensiero neokantiano e su Max Weber è passata negli ultimi anni a occuparsi del pensiero femminista connesso alla definizione di una nuova idea di cittadinanza e di lavoro. Ha studiato e vissuto tra Napoli e Düsseldorf, portando con sé passioni e rigore di due mondi e due culture» (p. 5).

Nonostante il piglio esageratamente netto con cui combatte l’ordine del presunto mondo maschilista, il libro offre alcuni buoni spunti su cui riflettere. Da parte mia, evidenzierei due elementi che ho trovato interessanti. Il primo consiste nella proposta di mettere al centro dell’economia tutta la dimensione della cura dei non autosufficienti e della casa, solitamente affidata alle donne e non riconosciuta nell’ambito dei calcoli economici, anche e soprattutto perché la maggior parte delle volte al di fuori di tutto ciò che è monetizzato. È in fondo il messaggio principale del libro, al di là della veemenza nei confronti del dualismo uomo-donna, razza bianca-altre razze o eterosessuali-non eterosessuali. Il secondo elemento, non strettamente legato all’argomento principale ma comunque al suo servizio, sta nella valorizzazione dei social media, normalmente stigmatizzati da altri intellettuali. Praetorius invece rileva che il social (al netto di varie inevitabili derive) accresce, arricchisce e vivifica grandemente utili dibattiti, dando la possibilità di esprimersi a tanti in tanti modi.

Sembra che ampi studi dimostrino che il lavoro di cura non pagato costituisca circa la metà del lavoro socialmente necessario.

«Non è di secondaria importanza, ad esempio, che la scienza moderna, che studia “in che modo i mezzi per la soddisfazione dei bisogni umani possano essere prodotti, distribuiti, usati e consumati nella maniera più sensata”, trascura abitualmente circa la metà di queste misure e mezzi. Oggi non vengono considerate per nulla o sono ritenute del tutto marginali dalla scienza economica, spesso presentate in maniera distorta quale semplice “consumo”, proprio quelle misure per la soddisfazione dei bisogni adottate nei ménage domestici (oikoi), senza le quali nessuno da bambino sarebbe sopravvissuto» (p. 24).

Chiaramente questo libro non è un trattato di economia. Però lancia un buon sasso nello stagno e fornisce anche un pertinente contorno simbolico e antropologico di sostegno alla proposta. Spetterà poi ai tecnici implementare l’idea.




Per un’ecclesiologia sinodale

di Alessandro Clemenzia · La continua ripresa di tematiche riguardanti l’identità della Chiesa, già largamente trattate, potrebbe far pensare che anche la teologia subisca in qualche modo l’influsso del pensiero contemporaneo, come se anch’essa seguisse la moda corrente. Per questa ragione, l’uscita recente di alcuni libri sul significato e sul valore della “sinodalità” potrebbe, da un lato, suscitare l’interesse di chi in qualche modo è già addetto ai lavori e ripone nella realizzazione di essa la sua piena fiducia; dall’altro, innestare un atteggiamento di chiusura a-priori.

Un dato però va dato come acquisito: «Le strutture nella Chiesa devono conservare una loro connaturale dinamicità e sono soggette a un inevitabile sviluppo, cambiamento e rimodulazione» (p. 10). Queste parole, tratte dal libro di Gianfranco Calabrese, intitolato Ecclesiologia sinodale. Punti fermi e questioni aperte (EDB 2021), mostrano come la dinamicità della riflessione ecclesiologica odierna non sia animata da una semplice “moda” da seguire o da diffondere, ma dall’oggetto dell’indagine: la Chiesa. È la sua natura processuale, infatti, a richiedere che le strutture si rivitalizzino costantemente, nella consapevolezza che la realtà è il luogo in cui Dio continua a svelarle la sua missione. Le strutture della Chiesa devono esprimere questa natura viva e processuale, sempre fedele a quel ritmo evangelizzatore che determina la vera vocazione ecclesiale; lo ha chiaramente espresso Papa Francesco in Evangelii gaudium: «Ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore; ugualmente le buone strutture servono quando c’è una vita che le anima, le sostiene e le giudica. Senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza “fedeltà della Chiesa alla propria vocazione”, qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo» (n. 26). Di fronte alle provocazioni di numerosi studi ecclesiologici, volti a proporre nuove strutture attraverso cui avviare i processi sinodali (concretizzando così quella “forma” desiderata di Chiesa), Calabrese opta per una riflessione capace di incarnare uno “stile sinodale” del pensare. «La sinodalità […] non può essere né compresa né ridotta semplicemente a una struttura o a un insieme di istituzioni, ma rimanda ad alcune dimensioni fondamentali, che caratterizzano la Chiesa nel suo mistero e nella sua missione e che declinano la sua realtà complessa e messianico-salvifica, la sua testimonianza, la sua liturgia e la stessa carità» (p. 21). E qui l’autore spiega chiaramente come sia necessario sensibilizzare i credenti a questa realtà, non con obiettivi strategici o moralistici, ma attraverso una motivazione teologica, per mostrare come la sinodalità abbia a che fare con la vocazione di tutto il popolo di Dio: sia personalmente, in virtù della dimensione profetica, regale e sacerdotale, sia comunitariamente, in quanto capace di risemantizzare, modellare e animare il rapporto comunionale tra carismi e ministeri. «Per questo è necessario sviluppare una sintassi della sinodalità a partire dalla teologia e dall’ecclesiologia che hanno come riferimento principe il mistero trinitario e il dono pasquale della comunione divina» (p. 78). La Trinità, ribadisce Calabrese, non rappresenta l’iperuranio o una mera astrazione spirituale, come qualcosa di opposto alla sinodalità, in quanto «dalla percezione che i credenti hanno del mistero di Dio e di Cristo dipende la concezione che essi hanno della salvezza cristiana e della stessa via per conoscerla, viverla, annunciarla e condividerla» (p. 79).

La sinodalità, dunque, non è una semplice prospettiva ecclesiologica, in quanto ha a che fare con la stessa natura della Ecclesia; per questo è necessario acquisire una rinnovata autocoscienza ecclesiale, capace di tradursi in una nuova prassi pastorale, senza accontentarsi di un discreto funzionamento delle strutture attuali: «Se questa recezione non avviene a livello teologico e magisteriale, ma soprattutto nella realtà e nella prassi pastorale, le strutture sinodali e di partecipazione del popolo di Dio, anche se create e istituite dopo il Concilio Vaticano II, non potranno avere quell’incidenza che di fatto dovevano avere a partire dalle intenzioni dei padri conciliari» (p. 96).

La sinodalità, che finora ha avuto una valenza soprattutto ecclesiologica, diventa per Calabrese una categoria fondamentale per rileggere la natura antropologica del battezzato, per cui, nel popolo di Dio, il cristiano ha già un’identità sinodale. Secondo l’autore, solo prendendo sul serio la sinodalità della Chiesa si può affermare che la comunione trinitaria si mostra, si dice e si dà nella Chiesa: «La “sinfonia” della comunione divina si manifesta nell’epifania della comunione ecclesiale, si concretizza nella “sintassi”, nella “logica”, nella “dialettica” e nella “grammatica” della comunione ecclesiale e si apre alla “politica” e alla profezia” della comunione universale e alla realtà escatologica del Regno di Dio» (p. 107).

Il presente libro è un tentativo ben riuscito di mostrare come la sfida che viene dalla realtà attuale e l’ontologia che scaturisce dal mistero di Dio non siano per la Chiesa qualcosa di contrapposto, ma un’esigenza del cuore, che trova nella sinodalità una sua feconda risposta.