Ancora su I Padrenostri di questi tempi

di Carlo Nardi · Ripropongo con alcune ulteriori considerazioni quanto ho già scritto sull’argomento I Padrenostri di questi tempi, in Il mantello della giustizia in rete, aprile 2021:

Su questo argomento molti hanno scritto e molto è stato scritto. Ecco una mia noterella.

Voglio offrire un pensiero che mi stuzzica la mente. Penso al vecchio Padre nostro con … e non c’indurre in tentazione, modificato adesso nel nuovo messale con … e non abbandonarci alla tentazione.

In verità, questa nuova traduzione non mi sconfinfera. Il salto di resa nelle due versioni è grande: in effetti quei due verbi ‘indurre’ e ‘abbandonare’ sono due cose diverse. Forse vicine, ma non mi sento di dire di più. A questo riguardo rimando al dotto libro di Alberto Maggi (Padre dei poveri: 2. Il Padrenostro. Traduzione commento dal Vangelo di Matteo, Cittadella Editrice – Assisi, terza ristampa, febbraio 2018), il quale presenta un condivisibile studio sui testi della preghiera (pp. 137-151). In particolare, egli traduce il versetto in questione (Matteo 6,13a) col verbo introdurre”, che rende il senso del greco eisférein, “portare/spingere verso”. Al contrario, non appare nel testo originale l’idea di un “abbandono”, per quanto essa possa sembrare a prima vista più consolante. Di fronte all’importanza di questa preghiera per il Cristianesimo, mi pare che si dovrebbe andare assai cauti, anche sulla scorta di Dei Verbum 10: “la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime”. D’altronde, rispetto a questo imbarazzo nei riguardi del Vangelo, mi viene da domandarmi: vogliamo forse essere più cristiani di Cristo?

Fin qui quello che ho scritto, sennonché mi sentivo di dire qualcosa di nuovo.

La nuova versione di quel punto del Padre nostro mi pare che non sia valida, perché si tratta di una parola del Signore, e in questo modo non lo è più.

E’ così che quando ho dovuto usare il nuovo Messale italiano (pag. 445), ho detto ai miei parrocchiani che il nuovo Padre nostro nel punto in questione è diverso dalla vecchia versione e anche dall’antico testo latino che è tuttora rimasto in uso, e meno male, grazie a Dio. Per questo, dopo aver pronunciato obtorto collo il nuovo testo, aggiungiamo il canto del Pater noster in latino, in modo che sia chiara la differenza in quel pezzettino. E d’altra parte la differenza fra i due pezzettini ha il pregio di stimolare la nostra riflessione sul mistero del male, del “cattivo”, con il quale siamo sempre in contesa, una contesa in cui ci affidiamo alla bontà del Signore.

Anche l’antica preghiera dell’Ave Maria ha subito una forzatura quando il fructus ventris tui è stato tradotto con frutto del tuo seno. Per quanto in greco il termine koilìa (seno) abbia un significato estensivo, risulta evidente che in specifica relazione con la maternità il termine venter (ventre) del latino è chiaramente e in tutti i sensi il più preciso e appropriato. A tal proposito mi ritorna alla mente una colorita espressione del dotto padre Ferdinando Batazzi: “O che i figlioli possano nascere dalle mammelle?” … dalle ciocce, dico io.

Tornando al Padrenostro, sarebbe quindi opportuno quanto meno un ulteriore sforzo per ricercare una espressione che volendo superare quella percezione di costrizione, che come osserva il nostro arcivescovo Giuseppe Betori cardinale (in Avvenire, intervista del 10 dicembre 2017) oggi ha assunto il termine introdurre nell’italiano corrente, risulti aderente e coerente appunto con portare o spingere verso.

E il Padreterno sorriderà bonariamente? Se Dio vuole, come dicevano i nostri vecchi.