Cosa possiamo imparare dal fallimento del Trattato di Versailles?

1di Mario Alexis Portella Quest’anno ricorre il 100° anniversario del Trattato di Versailles quando, a Parigi i leader alleati, dopo la fine della 1° Guerra Mondiale, si riunirono promettendo ai loro popoli un mondo migliore con la creazione della Società delle Nazioni. Questo fu sostenuto anche dal papa Benedetto XV nella sua Enciclica Pacem Dei Munus Pulcherrimum (1920): <<Ristabilite così le cose secondo l’ordine voluto dalla giustizia e dalla carità, e riconciliate tra di loro le genti, sarebbe veramente desiderabile…che tutti gli Stati, rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o, meglio, quasi in una famiglia di popoli, sia per assicurare a ciascuno la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio>>. Quello che è invece successo sembra che si sta ripetendo nel mondo odierno con l’America First del presidente Donald Trump: una politica nazionalista e un disprezzo del multilateralismo. Non è che Trump si sia dichiarato così, però il suo quadro filosofico generale—qualcosa di evidente nei suoi discorsi e nella sua politica che esclude la difesa dei diritti umani e l’insultante arroganza verso i suoi alleati europei—ha influenzato il piano politico globale simile a quello che ha spinto il protagonista della suddetta Società, il presidente statunitense Woodrow Wilson. Tutti e due hanno sostenuto ai leader autoritari che sfidano le norme internazionali, il ritiro dalle organizzazioni internazionali e dai trattati ed il guadagno economico.

La Società delle Nazioni—istituita nell’ambito della Conferenza di Pace a Parigi (1919) sulla base dei Quattordici punti proposti da Wilson—aveva come scopo la fondazione di un sistema di sicurezza collettiva in quanto gli Stati membri dovevano rinunciare alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti, accettare il ricorso all’arbitrato e la soppressione, per quanto possibile, di tutte le barriere economiche ed eguaglianza di trattamento in materia commerciale per tutte le nazioni che consentono alla pace. Ma come ha recentemente affermato Margaret MacMillian della Oxford University nei suoi libri Paris 1919 (Parigi 1919) and The War That Ended Peace (La guerra che finì la pace), per mancanza di un’autentica e forte leadership ed anche di saldi princìpi etici nei capi di Stati, la politica di Wilson che non volle informare il Congresso statunitense e coinvolgerlo nelle decisioni di Versailles, le promesse del 1919 si trasformarono presto in disillusione, perché ne risultarono una tendenza egemonizzante di Gran Bretagna e Francia, la divisione dell’Europa e la politica fascista e nazista degli anni ’30.

La società europea prima della guerra dipendeva su una economia che era basata su una classe lavoratrice che produceva ricchezza e si accontentava di un’alimentazione e di una vita povere o comunque ben modeste, mentre la classe capitalistica assorbiva le ricchezze prodotte, più per accumularle che per creare nuove attività, posti di lavoro e un benessere più diffuso. Aiutavano questo orientamento la facilità e la sicurezza delle comunicazioni e delle importazioni da tutte le parti del mondo, ed il capitale privato cercava dappertutto nuovi investimenti e nuove fonti di produzione. La 1° guerra mondiale aveva danneggiato o distrutto le antiche strutture economiche, politiche e sociali, in particolare in Francia, in Belgio e nell’Europa centrale, lasciando andare le popolazioni precedentemente stabili e prospere alla deriva, ad una ricerca disperata di qualcuno o qualche movimento politico che ripristinasse il loro status e l’ordine. Inevitabilmente cominciarono ad emergere vecchie e nuove rivalità fra vari Stati e contestualmente i leader di Versailles manovravano per promuovere gli interessi delle loro nazioni.

La maggior parte dei popoli europei sentiva che qualcuno doveva essere costretto a pagare i danni di guerra, a parte il fatto che gli inglesi avevano prestato immensi somme ai loro alleati (i loro debiti russi erano oltre ogni speranza di recupero), avevano preso in prestito miliardi di dollari dagli americani e volevano una ricompensa — gli americani, Wilson incluso, rifiutarono di annullare il loro debito. E così gli alleati hanno elaborato un disegno di legge sulle riparazioni che sapevano essere più di quanto la Germania sconfitta potesse mai pagare. L’Austria e l’Ungheria erano residui impoveriti dell’Impero Asburgo, la Bulgaria era in bancarotta e l’Impero ottomano era sull’orlo della disgregazione. Questo ha lasciato solo la Germania in grado di soddisfare il risarcimento facendo grandi sacrifici.

Il Trattato di Versailles, pubblicato nella primavera del 1919, fu uno shock per il popolo tedesco. La Germania fu obbligata ad abolire la coscrizione obbligatoria e a limitare il numero dei militari—quasi un disarmo—perdere dei territori e provvedere ai risarcimenti per i danni di guerra. Il risentimento si manifestava in particolare contro l’articolo 231 del Trattato, scritto dal giovane avvocato americano e futuro Segretario di Stato John Foster Dulles, con cui la Germania accettava di assumersi la responsabilità di aver iniziato la guerra, per fornire una base legale alla richiesta dei risarcimenti. I tedeschi mal tolleravano la clausola della “colpevolezza di guerra”. Di fatto, gli Stati Uniti, cercando di creare il prima possibile un sistema internazionale per determinare una pace permanente—secondo alcuni storici Wilson faceva finta di questo—hanno favorito la soppressione all’antica società, creando contestualmente un patto con l’Inghilterra e la Francia, così avvantaggiandosi politicamente ed economicamente sulle sfortune dei paesi deboli.

Sebbene non fossero più uno stato isolazionista, gli Usa tornarono a concentrarsi sui problemi di politica interna. Il Congresso, dopo che il presidente Wilson ebbe provato ad imporre in modo minaccioso i suoi Quattordici Punti, sui quali non era mai stato da lui neppure consultato nel corso delle trattative di Parigi, non approvò il Trattato e, per estensione, l’adesione alla Società delle Nazioni.World Political Leaders after Signing Treaty of Versailles

Un secolo dopo il fallimento di Versailles, il nazionalismo etnico, l’erosione delle norme e della cooperazione internazionale e lo sciovinismo vendicativo continuano a dare il via libera al potere di leader autoritari. Il passato è un insegnante imperfetto, i suoi messaggi sono spesso oscuri o ambigui, ma offre sia una guida che un avvertimento. Per esempio, mentre il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin parla di una cooperazione pacifico-globale, lui ha già violato più volte le norme internazionali, in particolare in Crimea, ed altri, come il presidente della Turchia Recep Erdogan o il presidente cinese Xi Jinping, sembrano voler seguirne le orme. E mentre Trump, pur potendo ancora influenzare la comunità internazionale, cioè orientandola al bene comune, sta abdicando le sue responsabilità verso il mondo manifestando simpatie ai suddetti leader — in modo simile a quello che fece Woodrow Wilson con l’Inghilterra e la Francia. Di conseguenza le potenze più piccole abbandonano le loro speranze in un prossimo ordine pacifico internazionale, sottomettendosi alla dittatura di spregiudicati populisti che nel caos e nel malcontento trovano terreno fertile per radicarsi.

Gli Stati Uniti furono concretamente intesi come un fattore importante di pace e libertà. Benedetto XV, nella stessa Pacem Dei Munus, disse che <<la carità cristiana non si limita a non odiare i nemici o ad amarli come fratelli, ma vuole anche che facciamo loro del bene>>. Per quello servirebbe a Trump di fare come l’America ha fatto al culmine del suo potere (dopo la 2° Guerra Mondiale), quando avrebbe potuto fare qualsiasi cosa avesse voluto. Essa rifiutò l’isolamento e la realpolitik e scelse di vivere in un mondo come riflesso da quello che il presidente Franklin D. Roosevelt aveva detto prima di morire: <<Abbiamo imparato che non possiamo vivere da soli, in pace; il nostro benessere dipende dal benessere di altre nazioni lontane. Abbiamo imparato che dobbiamo vivere come uomini, non come struzzi, né come cani nella mangiatoia. Abbiamo imparato ad essere cittadini del mondo, membri della comunità umana. Abbiamo appreso la semplice verità, che, come diceva il filosofo e scrittore Ralph Waldo Emerson, “l’unico modo per avere un amico è di essere uno”>>.