L’affermazione del laicato con l’impegno nelle realtà temporali ed ecclesiali
di Francesco Romano • La Costituzione apostolica “Praedicate Evangelium sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa e al mondo”, pubblicata il 19 marzo 2022, mette in risalto l’ormai imprescindibile ruolo dei laici nella vita e nella missione della Chiesa: “Il Papa, i Vescovi e gli altri ministri ordinati non sono gli unici evangelizzatori nella Chiesa. […] Ogni cristiano, in virtù del Battesimo, è un discepolo-missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù. Non si può non tenerne conto nell’aggiornamento della Curia, la cui riforma, pertanto, deve prevedere il coinvolgimento di laiche e laici, anche in ruoli di governo e di responsabilità”.
Si tratta del punto di arrivo di un lungo percorso, ma sempre in itinere, che mi offre lo spunto per una riflessione sull’affermazione del laicato nel suo impegno nelle realtà temporali ed ecclesiali.
La nozione di “società” applicata alla Chiesa risale già alla scolastica medievale. Il dualismo insegnato da Gelasio I nel sec. V andrà imponendosi nei secoli successivi. Nel sec. XVI il protestantesimo parlerà di una Chiesa puramente spirituale alla quale viene contrapposta una idea di Chiesa cattolica visibile, sociale e giuridica. È questo l’alveo in cui si forma il concetto di societas iuridice perfecta. Successivamente, la canonistica se ne servirà per indicare la relazione tra la società ecclesiale e quella civile
Il modello di Chiesa al tempo della controriforma è concepito come societas iuridice perfecta, cioè società sovrana come lo Stato, non sottoposta a nessun’altro ente sovrano, originaria e indipendente. Dopo il Concilio di Trento essa viene spiegata attraverso le scienze filosofiche e sociali evidenziando tutti gli elementi che ne rilevano la natura sociale. Bellarmino dà questa definizione: “La Chiesa è la comunità di tutti i fedeli, uniti dalla professione della medesima fede, dalla partecipazione ai medesimi sacramenti, sotto l’autorità dei legittimi pastori, specialmente del Romano Pontefice, Vicario di Gesù Cristo in terra”.
La Chiesa per poter difendere la sua libertà completerà il concetto di “società” elaborando la nozione di diritto pubblico ecclesiastico di “società giuridicamente perfetta” a partire dal sec. XVII per difendersi dalle teorie giurisdizionaliste del febronianesimo e giuseppinismo e nel sec. XIX contro le teorie che le davano un riconoscimento come istituzione pedagogica e morale di utilità circoscritta all’ambito temporale. Secondo questa visione di Chiesa, essa è una società giuridica poiché vi è un unico sovrano che determina il vincolo tra i membri. È una società perfetta, cioè pienamente autonoma e sovrana nel suo ordinamento originario perseguendo un bene completo, avendo un suo fine e disponendo dei mezzi per conseguirlo. La Chiesa di quel momento, quindi, definisce la sua collocazione nell’ambito dell’ordinamento pubblico ricorrendo alla stessa nozione che si può applicare allo Stato e ponendo l’accento sugli elementi visibili a scapito delle considerazioni teologiche e della grazia.
Questo modello di Chiesa societas iuridice perfecta nel suo passaggio attraverso il Concilio Tridentino e il Vaticano I, ha ispirato il Codice di Diritto Canonico del 1917. Tale struttura viene individuata nell’ideale di Chiesa perfettamente unita al suo interno come un corpo sociale accentrato attorno alla figura del Papa, ma sostanzialmente separata dal mondo visto come un nemico da fronteggiare. Il progetto di rifondazione cristiana della società nell’arco temporale incluso tra i pontificati di Pio IX e Pio XII si esprime nella formula della restauratio christiana.
Con l’enciclica Immortale Dei del 1° novembre 1885, Leone XIII invita i fedeli a partecipare alla vita pubblica, anche in ragione dei loro principi cattolici per i quali “sono più che mai obbligati di recare nel maneggio degli affari integrità e zelo”, anche se in qualche caso con chiaro riferimento alla situazione politica italiana, “non sia espediente di partecipare agli affari dello Stato, né di ricevere uffizi politici”.
La nuova figura rappresentata dal laicato emerge in funzione di questa opera di “restaurazione cristiana” partendo da un’azione sostitutiva della gerarchia ecclesiastica, ma non indipendente da essa, nel pieno coinvolgimento delle attività temporali dove la libertà della Chiesa è a rischio per i processi di secolarizzazione rappresentati dalle ideologie liberali, materialiste e totalitarie.
Sotto il pontificato di Pio XII il laicato militante trova un significativo riconoscimento nel 1946 con l’approvazione degli statuti delle organizzazioni nazionali di Azione Cattolica e, nel 1947, delle società clericali o laicali, dette Istituti Secolari, in cui i laici, ma anche i chierici, si consacrano senza professare voti pubblici e solenni per esercitare nel secolo il loro apostolato.
Con più netta e progressiva delineazione del ruolo del laicato, la Chiesa si sta avviando concretamente verso la novità introdotta dal Vaticano II che ha il suo epicentro nel concetto di Chiesa popolo di Dio, comunità sacramentale e società gerarchica. Già intorno agli anni trenta in Francia e in Germania si stanno affermando all’interno di correnti teologiche, scuole di pensiero che mirano al superamento della concezione di Chiesa vista come societas iuridice perfecta, nata sulla base di considerazioni giuridico-sociologiche.
L’ecclesiologia elaborata dal Vaticano I trova il completamento nel Vaticano II facendo leva sugli studi prodotti dal rinnovamento biblico, liturgico ed ecumenico che lo hanno preceduto. Il Vaticano II opera una sintesi tra il binomio Trento-Vaticano I e l’enciclica Mystici corporis di Pio XII, individuando la nuova immagine della Chiesa nella categoria biblica del “Popolo di Dio”, comunità sacramentale e società gerarchica.
Venuto meno al Codex del 1917 il suo paradigma ecclesiologico modulato sui vecchi schemi del jus publicum ecclesiasticum fondato sulle proposizioni del Sillabo e sull’ecclesiologia del Vaticano I, espresso nella costituzione apostolica Pastor aeternus, e sull’enciclica Immortale Dei di Leone XIII, si impone la necessità di una reformatio iuris vista come una naturale emanazione dei principi del Vaticano II.
La profonda novità introdotta dal Concilio Vaticano II richiede molto più che una semplice selezione di elementi obsoleti da espungere, bensì una profonda revisione del Codice consistente nel completo rinnovamento della sua disposizione sistematica.
Il Vaticano II segna una svolta rispetto a due capisaldi del diritto pubblico ecclesiastico, ovvero la Chiesa come societas iuridice perfecta di disuguali, e la teoria formulata da Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei delle due potestà, ciascuna suprema nel suo ordine.
Infatti, la Gaudium et Spes, pur ribadendo che “la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo”, al tempo stesso esclude il reciproco disinteresse in quanto entrambi “a titolo diverso sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti, in maniera tanto più efficace quanto meglio coltiveranno una sana collaborazione tra di loro” (GS 76, 3).
Non più, pertanto, due ordini in contrapposizione, ma un rapporto nuovo tra sacro e profano dove ai fedeli laici è riconosciuta la dignità e l’idoneità di tendere alla santificazione del mondo, “spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena […] a procurare l’animazione del mondo con lo spirito cristiano […] a essere testimoni di Cristo in mezzo a tutti, e cioè pure in mezzo alla società umana” (GS, 43, 2 e 4).
Il can. 129 §2 usa non a caso il termine “cooperazione” in quanto la Chiesa per volontà del suo Fondatore è una “società costituita gerarchicamente” nella quale l’autorità deriva direttamente da Cristo ed è esercitata dai successori degli Apostoli nella triplice funzione di insegnare, santificare e governare. Un esempio più evidente lo si è avuto da alcuni decenni con la cooptazione di giudici laici nei tribunali collegiali, ma senza facoltà di presidenza.
L’allargamento ai laici nell’esercizio della potestà di governo come “cooperazione” ha rimodulato la limitazione che “solo i chierici possono ottenere uffici il cui esercizio richiede la potestà di ordine o la potestà di governo ecclesiastico” (can. 274 §1), ovviamente non per quegli uffici che esigono la potestà di ordine e che sono riservati ex natura rei ai chierici, cioè quegli uffici intrinsecamente gerarchici la cui capacità è legata alla ricezione del sacramento dell’Ordine.
Un ulteriore passo viene compiuto dalla recente promulgazione della Costituzione Apostolica “Predicate Evangelium” che riforma la Curia Romana. I laici in virtù del battesimo sono coinvolti nella potestà di governo attraverso la missione canonica. A loro possono essere conferiti incarichi di governo, prevalentemente di natura esecutiva-amministrativa, fino a oggi di esclusiva pertinenza del clero o in particolare dei Vescovi, a meno che non si tratti di uffici il cui esercizio della potestà di governo deriva dal sacramento dell’Ordine.
Questo graduale progresso ha la sua radice nel Vaticano II che supera i limiti della vecchia impostazione ecclesiologica come societas inequalis passando a una visione di Chiesa come comunità di credenti, da un’ecclesiologia piramidale e societaria a un’ecclesiologia di comunione.
La figura del laico si inserisce nella complessa articolazione delle componenti all’interno del popolo di Dio dove le differenziazioni personali e funzionali interagiscono tra loro e concorrono nel rendere “pastorale” tutta l’esistenza cristiana: “il dovere di esercitare l’apostolato è comune a tutti i fedeli, sia chierici sia laici, e che anche i laici hanno compiti propri nell’edificazione della Chiesa. Perciò lavorino fraternamente con i laici nella Chiesa e per la Chiesa, e abbiano una cura speciale dei laici nel loro lavoro apostolico” (Apostolicam actuositatem 2, 25).