Il sacrificio di Cristo. Cristo si dona, Cristo si consegna

di Francesco Vermigli · «Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,13): di fronte a queste parole, come è possibile parlare della salvezza di Gesù come sacrificio? A questa domanda vorrei provare a rispondere; sulla scia dell’approssimarsi del Triduo, momento capitale del nostro anno liturgico.

Per comprendere la legittimità dell’applicazione a Gesù della categoria del sacrificio è necessario presentare in breve il significato di questo termine. Come noto, il termine risulta dalla composizione di sacrum e facere, cioè “rendere sacro” qualcosa che sacro di per sé non è. Diventa sacro l’animale che viene immolato sull’altare per la riconciliazione dell’uomo con il divino; talvolta, più in particolare, per placare l’ira divina nei confronti dell’uomo medesimo. A ben vedere il sacrificio, prima ancora che si attui ritualmente, presuppone però un elemento che dovremo attentamente riconsiderare quando parleremo di Cristo, sebbene opportunamente rimodulato: il fatto, cioè, che il sacrificio implichi che si rinuncia a qualcosa, si dona qualcosa per un bene religioso. Vi è un mezzo (la vittima e il rituale connesso), pensato per un fine (religioso): genericamente la riconciliazione con il divino, come già accennato. Del resto, la stessa parola religio non v’è chi non sappia come rechi con sé l’idea del legame da ristabilire con il divino; legame che si è interrotto, è stato spezzato o almeno deve essere rinnovato, perché allentato o perché nei cicli della vita e delle stagioni ha sempre bisogno di esser confermato.

Questa rappresentazione del sacrificio religioso deve essere attentamente ricalibrata, dinnanzi a Gesù. In verità, per far questo è necessario prima ancora ricalibrare l’immagine di Dio che sta dietro al sacrificio religioso in senso generico. Se il Dio che riceve il sacrificio, è colui che attende la vittima per placarsi e riconciliarsi con l’uomo, questo ci restituirebbe un’immagine distorta del Dio cristiano. Il Padre verrebbe ad essere un Dio sanguinario che attende il sangue sparso sulla croce dal Figlio per poter ridare all’uomo un’altra occasione.

Ma la realtà della vita di Gesù va in un senso esattamente opposto a quella di un Dio che guarda da lontano il Figlio suo e aspetta che il sacrificio cruento si compia. Il Dio dei Vangeli è piuttosto un Dio che consegna il Figlio suo Unigenito, perché ha tanto amato il mondo da non tenerlo a sé (cf. Gv 3,16). Eppure, il Dio dei Vangeli è un Dio che è sempre con il Figlio: il cibo del Figlio è fare la volontà del Padre (cf. Gv 4,34), il Figlio è sempre nel Padre e il Padre è sempre nel Figlio (cf. Gv 17,21). In altri termini, ci sono due cose che impediscono di accogliere l’idea del sacrificio come applicabile alla missione di Gesù: la reciproca immanenza del Figlio nel Padre e del Padre nel Figlio – mentre è del sacrificio religioso la distanza tra il mondo da cui si sacrifica e il divino a cui si sacrifica – e il fatto che il Padre consegna il Figlio per amore del mondo: mentre del sacrificio religioso è l’attesa di un atto che possa placare Dio e farselo amico, qui l’amore del Padre per il mondo precede ogni atto umano, che sia rituale o meno.

Poste queste considerazioni, è ancora legittimo parlare della salvezza che porta Cristo come un sacrificio? Accennavamo sopra che alcune categorie connesse con il sacrificio dovrebbero essere riconsiderate, perché paiono in grado di aprire nuovi orizzonti sul punto. “Rendere sacro” qualcosa implica innanzitutto – nel senso genericamente inteso – rinunciare a quel qualcosa e donarlo. Questo, però, viene a toccare qualcosa di decisivo della vita di Gesù, qualcosa che va nel più intimo della sua missione salvifica. Sebbene Cristo non debba essere reso sacro, la sua vita è una vita fatta di consegna, di dono, di oblazione. Gesù è il Figlio donato dal Padre per il mondo (ancora cf. Gv 3,16). Gesù è il vero chicco di grano che muore per portare frutto (cf. Gv 12,24). Aveva ben donde l’autore della Lettera agli Ebrei, dunque, a vedere di quale pasta fosse il sacrificio di Cristo: un sacrificio esistenziale che compie quelli antichi e che anzi rivela quella verità, spesso ottenebrata dall’ipocrisia e dalla falsa e vana sicurezza che sta dietro il rito. Il sacrificio di Cristo è l’unico che da veri frutti spirituali, perché nasce dall’amore del Padre per il mondo e dall’accoglienza interiore del Figlio che accoglie e fa suo quello stesso amore del Padre per il mondo.

Non pare opportuno abbandonare il linguaggio del sacrificio, quando lo si applica in contesto cristiano. Esso ha bisogno di quella “conversione” del suo significato di fronte alla vita e al messaggio di Cristo, cui sollecitava un grande teologo recentemente scomparso, il padre Bernard Sesboüé. Il sacrificio riconvertito cristianamente si pone entro il linguaggio dell’amore divino che combatte contro il male, che non si arrende, che non retrocede. È il sacrificio che si dona e si consegna: prima interiormente, con un atto di accoglienza di fronte al dramma della vita; quindi, ma solo dopo, con atti esterni, coerenti con quella accoglienza interiore.