Chi preghiamo, quando preghiamo?

preghiera3di Francesco Vermigli • Si potrebbe dire che la risposta alla domanda che compare nel titolo, l’ha già data Gesù. E si direbbe bene, se ci si intende riferire a questi versetti: «pregando non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro…» (Mt 6,7-9). Alcuni elementi emergono: l’invito a non moltiplicare le nostre parole, per non cadere nella presunzione dei pagani (come pregare); il fatto che possiamo limitare le nostre parole solo perché Colui a cui rivolgiamo la nostra preghiera, è un Padre che conosce già i bisogni dei suoi figli (chi pregare). Se accostiamo il brano di Matteo con quello parallelo di Luca, il passaggio dal come pregare al chi pregare è ancora più evidente: «uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “quando pregate, dite: Padre…”» (Lc 11,1-2). I discepoli chiedono che venga loro insegnato a pregare; ma Gesù – prima di spiegare il modo della preghiera – indica che essa deve essere rivolta al Padre. In breve, Gesù mostra che per pregare autenticamente si deve entrare all’interno del mistero trinitario che lui stesso vive, e partecipare alle relazioni che stringono le persone divine in un’unica essenza.

Su un’altra linea si è posta una parte significativa del pensiero occidentale. È celebre la frase di Goethe che dichiarava di non aver visto nella propria vita «cosa potesse giovarmi che Uno è Tre e Tre è Uno». Così Kant non riusciva a scorgere l’utilità pratica della fede nella Trinità; tanto più, considerando il fatto – nella sua prospettiva insostenibile – che la fede nella pluralità di persone nell’unica sostanza divina sorpassa la capacità razionale dell’uomo. Karl Rahner – rivolgendo il proprio sguardo alla lunga storia della teologia e della spiritualità occidentali – concludeva che i cristiani, nonostante la corretta professione trinitaria, hanno vissuto e continuano a vivere da monoteisti; tanto che – aggiungeva – se cadesse la dottrina trinitaria, gran parte della letteratura ecclesiastica potrebbe reggersi senza grandi difficoltà. Eppure c’è un ambito in cui il mondo cristiano – anche quello occidentale – ha preservato nei secoli in maniera limpida e asciutta il proprio imprescindibile profilo trinitario: la liturgia.

La liturgia è azione di grazie, è rito, è preghiera che la comunità rivolge a Dio. Ma per capire come la liturgia si rapporti al mistero della Trinità non basta dire questo: si dovrà andare oltre, risalire ai suoi testi e cogliere in essi proprio questo riferimento trinitario. Si pensi alle grandi e avvolgenti preghiere dei prefazi o alle solenni eppure sobrie collette che chiudono i riti di introduzione della messa: esse ordinariamente si rivolgono al Padre per mezzo del Figlio incarnato nello Spirito santo. Secondo l’antico adagio in base al quale lex orandi è anche lex credendi, si dovrà dire che la liturgia – cioè la preghiera che è innalzata al cielo dal popolo di Dio – ci insegna che dobbiamo rivolgere le nostre richieste e la nostra lode al Padre perché è fonte e origine di ogni grazia, che l’accesso al Padre ci è reso possibile in virtù di Gesù Cristo Mediatore, che tale accesso avviene nello Spirito. Si direbbe: a causa del Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito.

Soffermiamoci sugli ultimi due sintagmi. Cosa significa che quando preghiamo, preghiamo per mezzo del Figlio e nello Spirito? Il Vangelo secondo Luca – quando presenta l’episodio in cui Gesù insegna la preghiera che sarà detta per antonomasia “del Signore” – ci dice che i discepoli rivolgono a Gesù la domanda dopo che egli stesso aveva pregato (Lc 11,1). Si capisce che questa notazione con cui inizia il cap. 11 del Vangelo non può essere considerata occasionale. In ultima istanza, i discepoli chiedono non un modo di pregare, ma il modo stesso di Gesù; quel Gesù che avevano visto in orazione, rimanendone ammirati. Gesù stesso è il come della preghiera autentica; quella preghiera che si rivolge a quel chi, che è il Padre.

Manca da spiegare il riferimento allo Spirito. Forse la glossa migliore alla formula della preghiera nello Spirito si trova nella Lettera ai Romani, laddove Paolo dice che lo Spirito nella preghiera intercede per noi con gemiti inesprimibili (Rm 8,26). Quando la preghiera è autentica – cioè, quella rivolta al Padre e che è possibile in virtù di Cristo e dovrà essere alla maniera di Cristo – è lo stesso Spirito a compierla nel cuore dell’uomo. Per riprendere la domanda che compare nel titolo di questo articolo, chi preghiamo, dunque, quando preghiamo? Preghiamo il Padre, in forza di Cristo e come Cristo. Ma in definitiva chi prega nel nostro cuore il Padre in forza di Cristo e come Cristo, quando la preghiera è vera e autentica? È lo stesso Spirito a pregare in noi il Padre alla maniera di Cristo: questo, mi pare, significa pregare nello Spirito.