Sulla filosofia della parola di M. Buber e le sue molteplici rilevanze. Alcuni spunti

buber1di Dario Chiapetti Una riflessione che merita attenzione è certo quella riferita al significato della nozione di parola, e nello specifico, còlta essa nel suo momento di darsi massimo: l’essere detta. Essa riveste importanza sotto più punti di vista.

Quello teologico. Occorre approfondire il significato dell’essere Parola del Figlio e del suo essere pronunciata dal Padre, in ordine ad una solida teo-ontologia relazionale che sviluppi una fondazione trinitaria del discorso, superando visioni in definitiva solipsistiche di Dio e dell’uomo. La Parola – che grammaticalmente ha funzione sostantivale – essendo costantemente rivolta-a, in sé e in alio, rivela di essere caratterizzata da un preciso dinamismo, maggiore anche di quello proprio di una forma verbale. La Parola è Parola-detta dal Padre, e perciò la manifestazione dell’intimo del Padre, che è, a sua volta, la relazione col Figlio nello Spirito Santo. La Parola è ciò che genera eternamente relazione tra Padre e Figlio; crea nella Creazione, stabilendo relazione tra Dio, detto nella Parola, e il Creato; ri-crea nell’Incarnazione, nella quale la Parola di Dio viene detta nella carne, permettendo a quest’ultima quel salto ontologico nel cammino verso la realizzazione della sua eterna finalizzazione.

A livello filosofico, il fenomeno della parola che viene detta esprime la connaturale inter-soggettività umana esprimentesi nell’innato movimento tensionale umano per il quale l’interiorità del singolo tende a dischiudersi per raggiungere l’interiorità dell’altro e in essa abitare.

Sociologicamente, il significato del dirsi della parola mostra come il dialogo non sia riducibile, nel suo statuto epistemologico, a coerenza logica, e, nel suo fine, a realizzazione di un accordo-convenzione, ma che esso sia via all’uomo per realizzare la sua identità.

Attorno a tale questione ha riflettuto il filosofo austriaco Martin Buber (1878-1965); egli, per l’influenza del chassidismo, possedeva quella comprensione della parola secondo la quale essa, prima che informativa, è performativa, opera ciò che dice, come il terzo relazionale tra i due interlocutori.

Io e Tu (1922) presenta i punti salienti della concezione circa il “principio dialogico”, inteso come principio dell’essere stesso. L’Io è un Io-Tu e un Io-Es. La relazione tra l’Io e il Tu avviene mediante il dire-Tu, quella tra l’Io e l’Es mediante il dire-Es. Tale dire è il movimento antropologico fondamentale e avviene al livello interiore prima che a quello esteriore, quando si riconosce l’altro come soggetto e non come oggetto.

Si può dire che il centro dell’Io non è più l’Io ma il tra, la relazione, l’Io-Tu; e quando l’altro (sia esso Tu o Es) è detto Tu, soggetto, la parola si risolve in silenzio, ascolto, attesa che l’altro, costituitosi anch’esso Io-Tu, dica l’Essere, ovvero Tu, e che, in definitiva, l’Essere si dica nel tra con l’altro. Il dialogo è quindi ascolto del dirsi dell’Essere: “le linee delle relazioni – infatti – nei loro prolungamenti, si intersecano nel Tu eterno”.

Buber deriva così alcuni aspetti dell’autentico dialogo: il rivolgersi a qualcuno è sempre un rivolgersi a un preciso Tu personale, il quale, perciò, “chiede di essere confermato nel suo essere tramite l’uomo e vuole acquistare una presenza nell’essere dell’altro”, assolvendo così, la parola, all’analoga funzione della parola creatrice di Dio che dà l’Essere. L’effetto dialogico, poi, è che dal reciproco dire Tu scaturisce il Noi: “solo uomini capaci di dirsi l’un l’altro Tu in modo autentico, possono dire in modo non meno autentico Noi l’uno con l’altro”.

In La parola che viene detta (pubblicata nel 1960 e rieditata da PFTS University Press, Cagliari 2015) la filosofia della parola di Buber giunge alla massima maturazione.

Il filosofo individua tre modalità essenziali del linguaggio: il patrimonio presente, l’insieme di ciò che è esprimibile in una situazione, il cui luogo è il rivolgersi degli interlocutori l’un l’altro; il possesso potenziale, l’insieme di ciò che è già stato espresso, il cui luogo è la totalità di ciò che è giunto alla parola; l’evento attuale, che consiste nel diventare parlata della parola, e così, rivolgendosi verso l’interlocutore, renderlo tale, anche se tacitamente, il cui luogo è proprio il “tra” gli interlocutori, ciò che fa la loro relazione.

La parola, l’epifania dell’interiorità, è perciò per Buber originariamente dialogica. L’ipotesi di uno stadio precomunicativo del linguaggio, come confermano studi di etnologia, non è sostenibile. Il monologo è solo l’interiorizzazione del parlare con l’altro, in quanto il presupposto ontologico del dialogo è “il momento della sorpresa”, ovvero, l’altro. La parola è dialogica perché la struttura ontologica dell’uomo è dialogica: egli è tale nel momento in cui dice-Tu.

Tale nesso fonda infine la responsabilità dell’uomo nei confronti del proprio dire, affinché questo sia veridico. E la verità non è la greca aletheia, disvelamento, ma la biblica fedeltà: in rapporto alla realtà, a colui alla quale la parola è rivolta e a colui che la pronuncia.

Fedeltà alla parola: siamo parola, immagine della Parola.