L’apparente contraddizione della povertà

di Alessandro Clemenzia · «Quando io mi occupo dei poveri, dicono di me che sono un santo; ma quando mi domando e domando: “Perché tanta povertà?”, mi dicono “comunista”». Nel saluto rivolto ai membri del collegio cardinalizio e della curia romana per la presentazione degli auguri natalizi, il Papa ha colto l’occasione per ribadire un tema a lui molto caro: l’importanza dei poveri come primi destinatari del Vangelo di Cristo. Nella frase citata, attribuita a un vescovo brasiliano, Francesco mette in luce un duplice atteggiamento: il farsi poveri con i poveri e il domandarsi in modo critico le ragioni di una tale “violenta” povertà. Quest’ultima, dunque, assume un duplice e assai diverso significato: da un lato, è il modo attraverso cui si può realmente entrare in contatto con le fragilità della vita altrui, dall’altro, rappresenta ciò da cui è necessario liberare l’uomo per restituirgli un’umanizzazione piena. Sia nella sua accezione positiva che in quella negativa, la povertà è l’occasione che il Vangelo rivolge alla Chiesa per lasciarsi costantemente provocare dalle circostanze della realtà in cui è inserita e per ripensarsi ogni giorno in relazione, tanto a Cristo, quanto ai bisogni dell’uomo di oggi.

Tale provocazione evangelica chiede a ogni cristiano di non ridurre la povertà a uno dei tanti temi della dottrina sociale della Chiesa, come se la centralità di essa fosse riconosciuta soltanto da coloro che hanno una maggiore sensibilità su questo argomento: ciò, infatti, porterebbe, in un senso o nell’altro, a una sua idealizzazione, se non, addirittura, a una sua ideologizzazione. Nella povertà è racchiuso il senso più profondo del mistero cristiano.

Per evitare di cadere in discorsi generali e astratti, Papa Francesco, più che di povertà, preferisce parlare di poveri, riportando così l’attenzione sulla concretezza delle persone.

È recentemente uscito un volume dell’Arcivescovo di Modena, Erio Castellucci, intitolato Benedetta povertà? Provocazioni su chiesa e denaro (EMI 2020); in esso l’autore si domanda espressamente: «Sembra però che ci sia una contraddizione. La povertà va amata o va piuttosto soccorsa? Va scelta e ricercata o invece alleviata e combattuta?» (p. 10). A partire dall’insegnamento magisteriale – e qui Castellucci menziona i diversi interventi dei Papi da Paolo VI in poi – si può rintracciare una povertà da scegliere, una da combattere e un’altra da riscattare; esse possono essere legate rispettivamente al triplice mistero di Cristo, l’incarnazione, la morte e la resurrezione: «La testimonianza dei discepoli di Gesù è tanto più credibile quanto più assumono la povertà come stile di vita; quanto più lottano contro le ingiustizie che generano povertà; quanto più condividono le ricchezze da fratelli e riscattano la situazione dei poveri» (p. 15).

La prima è la povertà da scegliere. L’ha scelta Dio per primo in quello “svuotamento” del Figlio nell’evento dell’incarnazione: la predilezione dei poveri (qualunque fosse la loro mancanza) passa attraverso il suo stesso farsi povero, come possibilità concreta per avvicinarsi a ogni uomo. Non solo: per il cristiano l’affamato, l’assetato, il forestiero, il nudo, il malato, il carcerato sono l’occasione per incontrare Cristo stesso (cf. Mt 25,31-46). Riprendendo le parole di Paolo VI, si può affermare che il povero è “sacramento di Cristo”. Il cristiano, seguendo i passi del suo Maestro, può realmente incontrare il povero nel farsi egli stesso povero, non come condizione di disprezzo della ricchezza, ma come forma di vita all’insegna della sobrietà, cioè radicata sull’essenziale.

«Basta però scegliere la povertà, ossia l’essenzialità e la sobrietà, per vivere da discepoli del Signore Gesù? Certamente no: è condizione necessaria ma non sufficiente. Gesù chiede di distaccarsi dai beni per alleviare la situazione dei poveri» (p. 38). E qui Castellucci introduce la povertà da combattere, quella causata dall’iniquità del sistema economico-sociale. È da questa tensione verso i poveri per liberarli dalla loro condizione di oppressione che Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, ha scritto che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata» (n. 120). Tale affermazione, che peraltro fa parte della dottrina sociale della Chiesa, ha fortemente provocato l’opinione pubblica, tanto da rivolgere al Papa l’epiteto “comunista” o “marxista”. Eppure il Vangelo è chiaro su ciò che verrà chiesto a ciascuno nel giorno del giudizio: non tanto se abbiamo pregato per i poveri o se abbiamo nutrito buoni sentimenti verso di loro, ma se abbiamo condiviso i nostri beni: «la condivisione del cibo con chi ha fame, dell’acqua con chi ha sete, della casa con chi è straniero, del vestito con chi è nudo, della cura con chi è malato, del tempo con chi è carcerato» (p. 51).

E qui Castellucci introduce la povertà da riscattare. La sequela che Gesù ha chiesto ai suoi discepoli è un tipo di povertà che non consiste nel buttare via i beni, ma nel distribuirli ai poveri; essa, dunque, consiste nella condivisione fraterna/koinonia. Senza quest’ultima, «la testimonianza del Signore risorto rimane astratta e poco credibile» (p. 73). Attraverso la comunione dei beni si rende manifesto il regno di Dio, come efficace possibilità offerta a tutti di riscatto e di rovesciamento della propria e altrui condizione attuale: «Se chi soffre mancanza di beni incontra chi, avendoli, li condivide, comincia già da ora a prendere piede la logica del regno di Dio: da una parte il povero che riceve è beato, e dall’altra il ricco che condivide è benedetto» (p. 80).

Farsi povero, dunque, per incontrare il povero e renderlo protagonista all’interno della condivisione fraterna è il metodo dell’esperienza di Cristo.