Una virtù fraintesa e banalizzata: La castità

di Gianni Cioli · Il direttore di Il Mantello della giustizia mi ha invitato ad affrontare il tema della virtù della castità.

Si tratta, in verità, di un argomento non facile perché ci troviamo di fronte a una virtù fraintesa e fortemente banalizzata nel sentire comune. Infatti la castità è per lo più intesa come «la condizione di chi sceglie di astenersi dall’avere rapporti sessuali, per motivi etici, religiosi e/o filosofici» (vedi).

Certo, la castità, nell’orizzonte antropologico cristiano, comporterà anche la rinuncia all’esercizio della genitalità per coloro che, per scelta (come i consacrati e i preti cattolici) o anche per motivi indipendenti dalla propria volontà, non si sposeranno o non si sono ancora sposati. Tuttavia il senso pieno di questa virtù deve essere compreso non a partire dalla negazione dell’esercizio della sessualità, bensì proprio dall’affermazione del significato della sessualità e del valore del suo esercizio. È opportuno, a questo proposito, riprendere quanto affermava il filosofo Josef Pieper nella prima metà del secolo scorso, interpretando il pensiero di san Tommaso: «“Quanto più una cosa è necessaria, tanto più occorre rispettare nei suoi riguardi l’ordine di ragione” (II-II, 153, 3). Proprio perché è un bene così alto e necessario, l’istinto sessuale richiede l’ordinamento preservante e disciplinante della ragione. L’essenza della castità, della castità-virtù, è costituita esclusivamente da questo: la realizzazione dell’ordine razionale nel campo della generazione (II-II, 151, 1)» (J. Pieper, Sulla temperanza, Brescia 1965 (seconda edizione), p. 28). Piepier, fedele interprete dell’antropologia Tomista, identifica la castità come una parte della temperanza, rammentandoci che «temperanza e intemperanza si affrontano ovunque le forze di autoconservazione, autoaffermazione, autocompiacimento turbano l’intima struttura dell’uomo». Dunque «l’istinto naturale al godimento sensibile, nel piacere del cibo e della bevanda e nel piacere sessuale, non è altro che un’eco e il riflesso delle più potenti forze di conservazione dell’uomo. Tali impulsi primordiali dell’esistenza umana – diretti sia alla conservazione del singolo che della specie umana […] – sono congiunti alle originarie forme del godimento. E queste energie, proprio perché sono così strettamente congiunte al più radicale impulso dell’essere umano, quando degenerano egoisticamente, sopraffanno nella loro irruenza distruttrice tutte le altre forze dell’uomo. Ed è per questo che la temperanza ha qui il suo ambito più proprio: continenza e castità, incontinenza e lussuria sono le forme primarie di temperanza e d’intemperanza (II-II, 141, 4). Con questo però non sono ancora tracciati i confini del regno della temperanza» (J. Pieper, Sulla temperanza, p. 21).

Collocandosi nel solco della riflessione di Pieper si può forse giungere ad affermare che la castità ha un carattere analogico ed assume modalità differenti nei differenti stati di vita e nelle fasi dell’esistenza di una persona, o, per usare un concetto teologicamente caratterizzato, nei vissuti delle diverse vocazioni. Ma l’analogato principale a partire dal quale comprendere il senso e le articolazioni di questa virtù, non sarebbe tanto, come i più ritengono, quello della vocazione verginale ma piuttosto quello della vocazione coniugale.

A questo proposito mi permetto di riproporre una riflessione già a suo tempo esposta proprio attraverso le pagine questa rivista: «Il senso della vita nella visione cristiana è il dono di sé. La vocazione è il percepire la propria vita come una chiamata al dono sé. L’amore coniugale nella sua inscindibile unità dei suoi significati, unitivo e procreativo, è il caso serio in cui si afferma o si smentisce la verità della vita come dono di sé […]. Se non si è capaci di riconoscere il matrimonio e quindi la sessualità come vocazione al dono, ogni altra ipotesi di vocazione perde di senso. Lo stesso essere sessuato (e il piacere connesso con l’esercizio della sessualità) è la cifra, potremo dire, della vocazione dell’essere umano al dono di sé. Ma, se non si riconosce che l’esercizio della sessualità comporta una grandissima responsabilità perché connesso, oltre che al rispetto dei sentimenti delle persone, al dono della vita, lo stesso esercizio della sessualità (con il piacere connesso) anziché occasione ed espressione di dono può divenire occasione ed espressione di radicale egoismo.

Quanto il paradigma sponsale […] nel suo intrinseco legame con la fecondità sia centrale per l’antropologia cristiana, è confermato dalla Cristologia, o per meglio dire dalla riflessione sull’autocoscienza di Cristo, il quale si autodefinisce sovente come lo sposo (Mc 2,19-20; Mt 9,15; 22,2-14; 25,1-13; Lc 5,34-35; 12,35-48; cf. Gv 3,29) e, in quanto tale è indicato dalla lettera agli Efesini come modello di dono di sé agli sposi cristiani (Ef 5, 21-33)» (Crisi della vocazione come crisi della relazione. Riflessioni su aspetti antropologici e teologici della sessualità, in Mantello della giustizia, maggio 2021).

Parlare, con Pieper, di realizzazione dell’ordine razionale nel campo della sessualità significa fare appello alla possibilità di conoscere la forza dell’impulso sessuale, che interagisce con le dinamiche affettive, per imparare a gestirlo nel migliore dei modi nel concreto relazionarsi con il prossimo nell’avventura dell’esistenza. L’etica delle virtù ci ricorda che ogni impulso vitale, affinché non degeneri in vizio, deve trovare, appunto, la misura della virtù, ossia non deve “peccare” (nel senso di mancare il bersaglio) né per difetto, né per eccesso. La castità dunque non è insensibilità (che per Tommaso è letteralmente un vizio!), non è paura angosciata della sessualità e degli affetti; ma, tantomeno, neanche inconsapevolezza ingenua dei rischi che la forza dell’impulso sessuale fatalmente comporta se non viene responsabilmente educata attraverso il riconoscimento e l’attuazione di limiti invalicabili.

Il vizio della lussuria ovvero l’elusione della castità, ci ricorda ancora Pieper, comporta sempre anche un nocumento alla giustizia (J. Pieper, Sulla temperanza, pp. 33-35). Potrebbe essere questa una considerazione da cui partire per riflettere sullo strabismo della nostra cultura che, da una parte, si mostra sempre più sensibile al valore del rispetto della persona con la condanna di ogni genere di molestie nella sfera sessuale, dall’altra prova un crescente imbarazzo di fronte di fronte all’idea di possibili limiti invalicabili nell’esercizio della sessualità. Mi si potrebbe obiettare che il senso del limite è invece ben presente nella nostra cultura, nell’ambito dell’etica sessuale, nell’imperativo che si deve sempre rispettare il principio del consenso del partner. Ma, mi domando, è realistico aspettarsi facilità nel rispettare il limite del consenso altrui, nell’ambito di una cultura che non educa all’autocontrollo sotto tutti gli altri rispetti? Pensiamo al danno che inevitabilmente comporta il proliferare della pornografia su internet, accessibile con estrema facilità anche ai minori, nell’indifferenza generale. E quanta violazione di dignità e di consenso si può presumere che possa proliferare dietro la diffusione della pornografia in rete? Parlare di educazione alla castità a partire da questa prospettiva forse può risultare una cosa seria.