Costruire la pace secondo la Dottrina sociale della Chiesa

di Leonardo Salutati · Nel 1961, in Mater et magistra, Giovanni XXIII trattava di un nuovo fenomeno che chiamò “socializzazione”, intendendo con questo termine l’intensificarsi delle relazioni e dell’interdipendenza tra gli esseri umani all’interno di uno stesso Stato ed a livello globale (nn. 45 ss.).

All’interno dello stesso Stato il Papa constatava, ad esempio, la quota crescente di spesa sociale alimentata dall’imposizione fiscale, che rende i membri di una società sempre più interdipendenti attraverso l’istruzione, l’assistenza sanitaria, i sistemi di sicurezza sociale e le varie altre forme che caratterizzano lo “Stato sociale”.

A livello internazionale, all’inizio degli anni ’60, riscontrava sviluppi analoghi nel moltiplicarsi degli Stati, precedentemente colonizzati, che avevano conquistato una nuova indipendenza e che chiedevano di partecipare alla gestione collettiva del mondo. Questi nuovi stati aderendo all’ONU avrebbero potuto cambiarne il volto, tuttavia l’esistenza di un Consiglio di sicurezza con un diritto di veto per i cinque suoi membri permanenti, limiterà seriamente le possibilità dei nuovi arrivati di influire sul funzionamento dell’Organizzazione.

Gli sforzi dell’umanità per una maggiore cooperazione e unità e le istituzioni che manifestano questo impegno sono considerati da Giovanni XXIII e dal magistero successivo “segni dei tempi” per la Chiesa, in quanto «ciò che di buono si trova nel dinamismo sociale odierno» in termini di movimento verso l’unità, di progresso della sana socializzazione e della solidarietà civile ed economica, corrisponde alla sua intima missione, perché la Chiesa è «“in Cristo quasi un sacramento (…) di intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”». Per questo motivo la Chiesa considera con grande rispetto tutto ciò che di vero, di buono e di giusto si trova nelle istituzioni che l’umanità si è data e vuole aiutarne il successo (cf. Gaudium et Spes 42).

Ciò che Giovanni XXIII chiamava “socializzazione”, intravedendo i prodromi della globalizzazione nei suoi aspetti positivi, in seguito è scomparso come termine dalla Dottrina sociale della Chiesa, anche se non è scomparsa la realtà della crescente interdipendenza/

A questo fine, a cominciare da Giovanni XXIII, la Chiesa ha sempre insistito sulla necessità di una unione degli Stati sovrani che desse vita a una vera Autorità pubblica universale, «riconosciuta da tutti, dotata di potere effettivo in grado di assicurare a tutti la sicurezza, il rispetto della giustizia e la garanzia dei diritti» (Gaudium et Spes 82) che, secondo il principio di sussidiarietà, non limiti né sostituisca gli Stati nella propria sfera di competenza, ma contribuisca alla creazione nel mondo di un ambiente nel quale ogni singola comunità politica con i rispettivi cittadini, possa adempiere i propri doveri ed esercitare i propri diritti con tutta sicurezza (Pacem in terris 74). Per questo, per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, tale autorità dovrebbe essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, articolata su più livelli che collaborino reciprocamente, al fine di non ledere la libertà di alcuno ma anche di risultare concretamente efficace (Caritas in veritate 57) nel perseguire l’unica sua ragione di essere che è il bene comune della famiglia umana (Pacem in terris 51-55; Sollicitudo rei socialis 43), «al servizio dei diritti umani, della libertà e della pace» (Giovanni Paolo II, 2003).

È inevitabile constatare che le difficoltà riscontrate, l’indecisione, o la cattiva volontà, della Comunità internazionale nell’intraprendere con fermezza la via per dare vita ad un tale organismo, ha favorito l’attuale interdipendenza globale caratterizzata dalla centralità del capitale e dell’economia, dalla follia dell’incuria di un ambiente sempre più degradato, dal moltiplicarsi delle pandemie, dalla distruzione delle culture, dalla chiusura ai migranti da paesi poveri a fronte della facile mobilità dei popoli più ricchi, da populismi identitari, persino da accenni di de-globalizzazione attraverso il protezionismo economico, dalla crescente competizione per il predominio che, quando esasperata, può sfociare nella conflittualità militare, aspetto peraltro già lucidamente descritto, senza essere preso in seria considerazione, da Quadragesimo anno nel 1931 (cf. n 108).

Alla luce di tutto questo e del grave pericolo di un conflitto nucleare che l’umanità sta oggi correndo, è di assoluta urgenza accogliere l’ennesimo richiamo del Magistero della Chiesa, che per bocca di Papa Francesco esorta a considerare che: «Di fronte al disegno di una globalizzazione immaginata come “sferica”, che livella le differenze e soffoca la localizzazione, è facile che riemergano sia i nazionalismi, sia gli imperialismi egemonici. Affinché la globalizzazione possa essere di beneficio per tutti, si deve pensare ad attuarne una forma “poliedrica”, sostenendo una sana lotta per il mutuo riconoscimento fra l’identità collettiva di ciascun popolo e nazione e la globalizzazione stessa». Allo stesso tempo «Lo Stato nazionale non può essere considerato come un assoluto, come un’isola rispetto al contesto circostante. Nell’attuale situazione di globalizzazione … lo Stato nazionale non è più in grado di procurare da solo il bene comune alle sue popolazioni. Il bene comune è diventato mondiale e le nazioni devono associarsi per il proprio beneficio. Quando un bene comune sopranazionale è chiaramente identificato, occorre un’apposita autorità legalmente e concordemente costituita capace di agevolare la sua attuazione» (Francesco, 2019).