Vivere come se Dio ci fosse in tempo di pandemia

261di Leonardo Salutati · Premesso che è indiscutibile usare prudenza e seguire protocolli sanitari al fine di contenere e disinnescare l’epidemia, come pure che dobbiamo obbedire ai vescovi e alle indicazioni date, condivisibili o meno; è comunque lecito e doveroso ragionare su quello che sta avvenendo, porsi delle domande e lasciarci interrogare dall’eccezionalità del momento che stiamo vivendo.

Come cristianità dovremmo chiederci quanto siamo orientati e capaci a mettere tutto il presente nelle mani di Dio e chiederne da lui la salvezza; a fondatamente sperare che, alla luce di una conversione personale unita alla conversione del popolo, Dio potrà donare salvezza alle anime e ai corpi in un tale contesto. Oppure riteniamo che solo l’intervento di medici e governatori ci potrà aiutare?

La politica, atea e irreligiosa da qualsiasi punto la si guardi, equipara di fatto i fenomeni religiosi a quelli culturali, ludici e sportivi. Una simile equazione tuttavia è inaccettabile. L’apporto della fede, cristiana in particolare, alla società specialmente in occasioni di catastrofi che superano l’abilità dell’intervento umano, è tutt’altra cosa, non solo perché è totalmente differente rispetto agli eventi culturali, ludici e sportivi, ma soprattutto perché si propone come fonte di sostegno per la società e per lo Stato stesso. Ciò è, di fatto, scritto nella coscienza della maggior parte degli italiani, nonostante la forte secolarizzazione del nostro Paese.

Da uno Stato autenticamente “laico” e, dunque, non “laicista”, ci saremmo aspettati che distinguesse gli eventi religiosi dagli altri e che, così come è stato fatto per altri ambiti, avesse stilato un protocollo che consentisse lo svolgimento della vita religiosa, a certe condizioni, in ottemperanza al contenimento dell’epidemia. Magari che invitasse la Chiesa, con la quale è legato dagli accordi concordatari, a pregare secondo i propri riti per propiziare il Signore e scongiurare il male.

Invece succede che il cristiano può ancora recarsi nelle chiese per la preghiera personale ma se, per assurdo, a un tratto iniziasse la celebrazione di una Messa, dovrebbe uscire. Illogico da ogni punto di vista. Dal punto di vista teologico, poi, provocante e tragico (M. Begato). La situazione che si è prodotta ci spinge pertanto a chiederci quale modello di convivenza Chiesa-Stato-società stiamo vivendo e se la Chiesa, all’indomani del Coronavirus, non rischi di presentarsi come una realtà inerme e passiva. Già da tempo, tra l’altro, ovunque in Europa dilagano forme di cristianofobia a vari livelli: culturale, educativo, liturgico, fino al puro e semplice vandalismo senza tutele e senza echi mediatici.

Il fatto è che la Chiesa non è del mondo, ma vive nel mondo e sta succedendo che la sua vita risenta, più di quanto non si voglia ammettere, dei processi più generali della società contemporanea, come ha documentato E. Hobsbawm nel suo lavoro di alta sintesi “Il secolo breve” e come più volte ha denunciato Benedetto XVI, il quale nella sua ultima conferenza pubblica prima d’essere eletto papa, a Subiaco il 1 aprile 2005, lanciava una proposta paradossale all’uomo e alla cultura contemporanea.

Egli ricordava che nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur, “anche nel caso che Dio non esistesse”. Infatti, nella contrapposizione delle confessioni cristiane e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità.Coronavirus: messa Ancona

A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili. Ma oggi non è più così. La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita. Neppure lo sforzo, davvero grandioso, di Kant è stato in grado di creare la necessaria certezza condivisa. Kant aveva negato che Dio possa essere conoscibile nell’ambito della pura ragione, ma nello stesso tempo aveva rappresentato Dio, la libertà e l’immortalità come postulati della ragione pratica, senza la quale, coerentemente, per lui non era possibile alcun agire morale.

La situazione odierna del mondo con il suo tentativo portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso. Dovremmo allora capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, “come se Dio ci fosse”.

Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti, ma che potremmo rilanciare oggi a tutti i non credenti e gli indifferenti. In tal modo nessuno verrebbe limitato nella sua libertà, ma tutto troverebbe quel sostegno e quel criterio di cui vi è urgente bisogno. Vi troverebbe sostegno anche l’intelligenza e l’attività di quei medici, ricercatori, politici, operatori sociali e addetti ai lavori, chiamati a fronteggiare una minaccia mortale che riguarda tanta parte di umanità contemporanea.