Crisi della vocazione come crisi della relazione. Riflessioni su aspetti antropologici e teologici della sessualità

di Gianni Cioli · Quando si parla di crisi della vocazione, si pensa ai seminari e ai conventi vuoti e ci si interroga per lo più sulla pastorale vocazionale, su come rinnovarla o rifondarla. A mio avviso il problema sta più a monte: quello che è in crisi e la percezione della vocazione umana e cristiana. Detto altrimenti è in crisi la percezione della vita come dono, compito, responsabilità e missione.

Il senso della vita nella visione cristiana è il dono di sé. La vocazione è il percepire la propria vita come una chiamata al dono sé. L’amore coniugale nella sua inscindibile unità dei suoi significati, unitivo e procreativo, è il caso serio in cui si afferma o si smentisce la verità della vita come dono di sé Cf. B. Petrà, Principi fondamentali di morale coniugale, in Vivens homo, 1[1990], 43-57; Paolo VI, Humanae vitae n.12). Se non si è capaci di riconoscere il matrimonio e quindi la sessualità come vocazione al dono, ogni altra ipotesi di vocazione perde di senso. Lo stesso essere sessuato (e il piacere connesso con l’esercizio della sessualità) è la cifra, potremo dire, della vocazione dell’essere umano al dono di sé. Ma, se non si riconosce che l’esercizio della sessualità comporta una grandissima responsabilità perché connesso, oltre che al rispetto dei sentimenti delle persone, al dono della vita, lo stesso esercizio della sessualità (con il piacere connesso) anziché occasione ed espressione di dono può divenire occasione ed espressione di radicale egoismo.

Quanto il paradigma sponsale, così caro al compianto don Giorgio Mazzanti (G. Mazzanti, Evangelium nuptiale. Il progetto di Dio per l’umanità, Effatà, Cantalupa 2011), nel suo intrinseco legame con la fecondità sia centrale per l’antropologia cristiana, è confermato dalla Cristologia, o per meglio dire dalla riflessione sull’autocoscienza di Cristo, il quale si autodefinisce sovente come lo sposo (Mc 2,19-20; Mt 9,15; 22,2-14; 25,1-13; Lc 5,34-35; 12,35-48; cf. Gv 3,29) e, in quanto tale è indicato dalla lettera agli Efesini come modello di dono di sé agli sposi cristiani (Ef 5, 21-33). Dalla considerazione che il vero paradigma della sponsalità feconda è Cristo, l’antropologia Cristiana ha derivato la convinzione che la verginità per il regno dei cieli non è necessariamente frustrazione della potenzialità relazionale insita nella sessualità dell’essere umano, bensì ampliamento della libertà d’amare, in una prospettiva ideale, che non sempre si realizza ma a cui è possibile e auspicabile tendere. Quindi l’istituto del celibato dei sacerdoti nella Chiesa latina, come ci ha ricordato Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis (nn. 29.50), deve essere ricondotto in ultima analisi alla verginità per il regno e deve essere prospettato non come un ostacolo al dono e alla fecondità e quindi alla gioia radicata nell’autenticità delle relazioni vissute, bensì come un’opportunità di donarsi liberamente per servire il Vangelo.

La condizione sessuata dell’essere umano è espressione e funzione del suo essere per la relazione. Questo essere per la relazione può realizzarsi attraverso la gioia e la fecondità dell’esercizio della sessualità vissuto nella vita di coppia, come pure nel celibato vissuto come verginità per il regno. Tuttavia dobbiamo essere avvertiti che sia l’esercizio della genitalità che l’astensione da tale esercizio possono anche celare, al di là delle apparenze, forme di elusione dell’amore, ovvero strategie di fuga dalla relazione.