Il ritorno di un vecchio amico: l’etico-politico in una prolusione di Vincenzo Paglia
Il ritorno di un vecchio amico: l’etico-politico in una prolusione di Vincenzo Paglia
«una questione politica, relativa al potere di legittimazione comunitaria dell’eros dell’intelligenza artificiale, che non va confuso con il potere di distribuzione dei suoi vantaggi individuali e astrattamente funzionali. In altre parole, non basta limitarsi all’educazione a un consumo individuale critico o all’educazione di chi pensa e progetta algoritmi, affidandoci a essa. Occorre invece occuparsi di corpi sociali che assicurino la rappresentanza della sensibilità etica della comunità che rappresentano, in ogni fase del processo […] Si tratta quindi di non affidare un ruolo dirigistico né al totalitarismo politico né al liberismo tecnocratico. Stiamo vedendo lo sviluppo di una nuova disciplina del pensiero degli algoritmi, l’algoretica. Rimane aperto il come raggiungere tale obiettivo».
In effetti, Paglia ha utilizzato «etica» in accezioni differenti, di qui un’ambiguità del discorso che va risolta. Da una parte, etica è nel suo senso più proprio la riflessione sull’individuo, in quanto portatore di bisogni, allo scopo di rispondere alle questioni sulla sua condotta e sulle relazioni tra di esso e il mondo. Poi questa accezione non basta più:
«Non basta sul piano etico circoscrivere l’attenzione al controllo dei singoli dispositivi, una visione ristretta e parziale ci porterebbe a un richiamo astratto e generico diritti e della dignità della persona».
Etica diventa qualcosa di molto simile alla politica. Una riflessione sui bisogni della comunità alla ricerca di soluzioni, in direzione di un orizzonte, di un mondo mentale nuovi rispetto a quelli diffusi, da offrire al senso comune. Nell’auspicabile coloritura data da Paglia, in direzione dell’inclusione, del pluralismo, della difesa delle minoranze, della priorità ai deboli e ai poveri.
«Ma il mondo contemporaneo ci chiede uno scatto creativo, un’interpretazione che sia abbastanza precisa e dall’altra parte possa essere incisiva nella concretezza delle situazioni: cosa vogliamo concretamente potere? E tutto quello che vogliamo è possibile e dobbiamo farlo? Prima di tutto la libertà delle persone».
Paglia ha evidenziato come la gestione attuale degli algoritmi, i dispositivi su cui si innesta il digitale così come lo conosciamo, salti il momento decisionale dell’individuo, e come il digitale stesso plasmi l’utente come degno e libero di farne uso. Siamo davanti a una forma sottile e evanescente di sofisticazione sociale, che assoggetta e determina chi la utilizza. La legittimazione ideologica proviene dalla proclamazione liberistica, Paglia dice neoliberale, della libertà di autodeterminazione. Paglia ha colto come questa pretesa, condivisibile nel principio, in realtà non tenga conto delle differenze sociali, etniche, di classe, cui il sistema digitale fa riferimento solo per la propria ottimizzazione. Ecco giungere Paglia, dalla riflessione “difensiva” dell’umano da cui era partito, e, da sola, in definitiva, da considerare perdente o quantomeno di retroguardia, a una vertiginosamente propositiva. Per l’arcivescovo, «è indispensabile garantire che sia il soggetto umano a mantenere il controllo sulla macchina, dando al processo la propria impronta di significato», senza delegare questo ruolo indiscriminatamente alla tecnologia e ai pochi che ne supervisionano la gestione. Questo obiettivo si trasforma operativamente in «vere e proprie forme di controllo e orientamento delle abitudini mentali e relazionali, e non solo di potenziamento delle funzioni collettive e operative» da parte delle comunità che al contempo ne sono utenti.
L’esigenza di una formazione etica è giunta anche dagli stessi Ingegneri senza frontiere, con l’idea di creare anche nelle università percorsi culturali ampi, che permettano di comprendere le implicazioni degli artefatti tecnici nella sfera relazionale e politico-culturale. Accogliendo favorevolmente questa richiesta, Paglia ha ribadito come però non basti: difendendo la libertà individuale, di fatto va garantito lo spazio d’intervento perché i soggetti comunitari possano determinare essi stessi gli effetti collettivi di una automazione che sia autogestita dei prodotti, delle funzioni e dei servizi. In conclusione, se non si rimane nell’ambito concreto delle differenze che ci sono nella realtà tra gruppi, «si rischia di relegare la riflessione etica e politica a una pericolosa astrattezza».
Paglia ha tratto, come esito del suo ragionamento, l’ammissione che la chiesa è ad ora assente da questa dimensione, perché la teologia non ha parole da usare non avendo ancora un linguaggio di riferimento. Nel suo sviluppo, non si potrà concedere di appiattirsi sul livello tecnico operativo e funzionale, che pure tende a prendere il sopravvento: bisognerà mantenere viva un’elaborazione antropologica e umanistica che faccia valere il richiamo alla dignità umana in quanto dignità trascendente. La riflessione teologica potrà contribuire a una riflessione sul limite e sulla passività, non solo come ostacoli da abbattere ma anche come elementi costitutivi della dimensione interpersonale. Su questi temi, ha concluso Paglia, sarà necessario un accordo internazionale comune, come sul nucleare e come sull’ambiente, altrimenti il rischio sarà una nuova forma di oppressione distorsiva dell’umano.
Poche considerazioni in merito. Paglia ha sottoposto un orizzonte pienamente politico, proponendo una vera e propria redistribuzione del potere digitale a favore delle comunità reali. A fronte di questo, risalta ancora di più la sproporzione tra l’uso del lessico legato all’etica e quello legato alla politica. Sicuramente questo è dovuto alla prospettiva dell’arcivescovo, di moralizzazione del politico nel tentativo di renderlo accogliente e inclusivo. La domanda è se altra concausa non sia l’esitazione a lanciarsi in un agone che inevitabilmente porta a uno schierarsi, a un farsi partito, e quindi a dover almeno in parte abbandonare quell’immagine super partes che la gerarchia ecclesiastica ha assunto in altri tempi storici, e che, per motivi psicologici e culturali, può far fatica ad abbandonare. In effetti siamo davanti a un ritorno di un vecchio amico: l’etico-politico, il metodo di riflessione per il quale i due universi della scelta individuale e della scelta collettiva non sono separati e pienamente autonomi. Nei totalitarismi ha generato lo stato etico, nel mondo liberale ha generato la democrazia, il fenomeno progressivo di immissione di grandi numeri nella gestione e nel dibattito pubblico. Le forme di gestione comunitaria disegnate da Paglia sono state, in Italia, tipiche di frange avanzate del pensiero democratico, riconducibili alle galassie del socialismo e del socialismo liberale.
Alla domanda posta sul tavolo da Paglia, di quali strade siano da adottarsi per il raggiungimento di obiettivi di questo tipo, chi scrive non può che riprendere le parole di Filippo Turati al Congresso di Livorno:
«il vile riformismo, il marcio riformismo, per alcuni, il socialismo vero per altri, immortale, invincibile, inesorabile, che può essere minoranza oggi, maggioranza domani, ma che salva […] che non fa miracoli, che non si culla nelle illusioni delle cose precipitate, che crea oggi una cooperativa, domani fa un sindacato di resistenza, posdomani si occupa della cultura operaia, senza della quale non usciremo mai da questi dolorosi anfratti, che si impossessa dei Comuni, del Parlamento, di tutti gli organi, a poco a poco, giorno per giorno, che crea lentamente ma sicuramente la maturità delle cose e degli animi, crea lo Stato di domani e gli uomini capaci di manovrare il timone.»
Una domanda infine però vuole porla chi scrive: davanti alla realizzazione degli obiettivi luminosi proposti, della libertà dell’individuo, dell’autonomia del soggetto, della gestione comunitaria del potere, la Chiesa, che non è democratica, si fa detentrice della Verità e si propone di guidare pastoralmente il gregge, saprà rispettarne la storicità imprevedibile degli esiti?