Draghi, Papa Francesco e il «capitale umano»

di Antonio Lovascio · E’ una “fotografia” che fa rabbrividire. Siamo ventisettesimi nel ranking mondiale della ricerca, anche se spesso scopriamo dai giornali che i nostri scienziati si fanno onore in varie parti del Pianeta. Investiamo meno di Sloveni e Cechi, addirittura preceduti da Corea e Taiwan, pur essendo ancora la settima potenza industriale. La quota che destiniamo al settore (meglio: al futuro dei nostri giovani) è solo dell’1,4 per cento del prodotto interno lordo, inferiore alla media europea(2%) ed a quella OCSE (2,4%). Ce lo ha ricordato nel suo discorso d’insediamento in Parlamento il neopremier Mario Draghi, che ha promesso un deciso “cambio di passo” nella valorizzazione del cosiddetto “capitale umano”. Oltre che le statistiche più aggiornate, all’ex presidente della Bce devono essere rimaste impresse le parole di Papa Francesco che pochi mesi fa lo ha chiamato a far parte della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. «Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società». Così Bergoglio nell’enciclica “Laudato sì “ e nei più recenti interventi ha espresso la propria preoccupazione per il ruolo del “capitale umano” nell’attuale sistema economico. Un modello che andrebbe rimodulato alla luce di un nuovo paradigma, che comprenda come la vera innovazione si giochi nel trovare un valore immateriale e di lungo periodo per tutti laddove comunemente si ricerca un valore materiale immediato. E per fare questo occorre uno sguardo maieutico antropologico. Cioè l’imprenditore e la società in generale sono veramente innovatori quando fanno risorgere la persona, il lavoratore, quando trovano un valore dove si supponeva che non ci fosse. Le aziende e le comunità che oggi crescono, infatti, sono quelle capaci di trasformare i problemi in opportunità, di far fiorire i talenti delle persone che così diventano un valore per l’intera comunità.

Ora il nuovo Governo è atteso alla prova dei fatti , a dare risposte concrete ed immediate dopo che i precedenti esecutivi hanno deluso per anni i nostri giovani, costringendoli – per trovare un lavoro – ad emigrare da un Paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato un’effettiva parità di genere. Purtroppo è vero. Il divario con l’Ue – lo ha analizzato sulle colonne del “Corriere della Sera” un commentatore attento come Ferruccio de Bortoli – vede l’Italia 3 punti sopra la media per abbandono scolastico e 14 punti sotto la media come percentuale di laureati nella fascia di età fino a 34 anni. Senza dimenticare gli oltre 320mila ragazzi e ragazze nella fascia 20-34 anni che hanno lasciato l’Italia tra il 2009 e il 2018. Preoccupa altresì la dinamica: erano 20mila l’anno all’inizio dell’ultimo decennio, sono diventati 40 mila nella seconda metà. Dati, questi, precedenti alla pandemia. La complessità del problema non consente rimedi immediati, ma la soluzione di una urgenza presente e per una scelta di prospettiva. Impellente è la necessità di riportare la Scuola alla normalità nel contesto di sicurezza richiesto dall’emergenza Covid. Su questo aspetto Draghi ha fornito un dato quantitativo”. Sui 1.696.300 studenti delle scuole secondarie di secondo grado nella prima settimana di febbraio solo il 61% ha avuto assicurato il servizio attraverso la didattica a distanza. Nelle già penalizzate regioni del Mezzogiorno si sono registrate le maggiori difficoltà. La scelta di prospettiva è di investire in una “transizione culturale… (per) disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, coniugando le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche del multilinguismo”.
Ma come ha ben sottolineato il neopremier la trasformazione del modello di sviluppo richiede sempre più competenze nell’area ecologica e ambientale e in quelle digitali. Non dimenticando che in Francia e in Germania un ruolo importante hanno anche gli istituti tecnici-professionali superiori che in Italia vanno potenziati. Qui si apre un capitolo italiano pieno di dualismi, tra i quali ne citiamo uno che fotografa l’Italia ben al di sotto della media europea per l’istruzione terziaria. Dei laureati fino a 34 anni s’è già detto. Ora va aggiunto che tra i 25 e i 64 anni, solo il 62% ha un diploma, contro una media europea di quasi il 79%. L’Italia è sotto di 17 punti. Il divario si riduce sul lavoro in base al titolo di studio perché la percentuale di occupazione dei laureati tra i 30 e i 34 anni in Italia è (solo) 9 punti sotto l’Europa. Quindi il livello di studi favorisce la possibilità di trovare un’occupazione in un Paese che, secondo l’Istat, dall’inizio del lockdown ha perso più di 600 mila posti di lavoro, per lo più da parte delle donne.

La sfida più impegnativa del programma di Draghi è sicuramente quella raccomandata dall’Europa: le priorità riguardanti la transizione ecologica, la trasformazione digitale, la protezione della salute. Per la sua complessità, l’innovazione è uno dei più difficili temi perché coinvolge la scienza di base e le applicazioni tecnologiche, le istituzioni e le imprese, le regole e i mercati, la società e l’economia. Il premier ne è consapevole. Ma la Politica lo supporterà ?