Il superamento della giustizia vendicativa e l’inaugurazione del giusto processo nelle tragedie di Eschilo

di Francesco Romano • A chi sia capitato di partecipare ad adunanze, consigli di facoltà o d’istituto, capitoli provinciali o generali di istituti religiosi o ad altro di simile per prendere decisioni collegiali attraverso il voto, si sarà accorto che non di rado la procedura che regola la votazione diventa oggetto di dubbio sul ruolo di colui che presiede, sul tipo di maggioranza da raggiungere e il suo conteggio in caso di numero dispari dei votanti, sulla modalità di espressione del voto da osservare in forma palese o segreta, sulla soluzione in caso di parità e molto altro di più.

A proposito di parità raggiunta in una votazione collegiale e sulla prerogativa che spetta a colui che presiede il collegium di dirimerla con il proprio voto, che va sotto il nome di calcolus Minervae, torna alla memoria la terza tragedia di Eschilo, le Eumenidi, l’unica della trilogia di cui si compone l’Orestea che ci è pervenuta e di cui facevano parte anche l’Agamennone e le Coefore. Il calcolus era il voto espresso mediante una pietra gettata, mentre Minerva è l’omologa latina della dea greca Pallade Atena figlia di Zeus, nata già adulta dalla sua testa, tra le figure protagoniste della tragedia di Eschilo.

L’Orestea è la narrazione tragica degli omicidi perpetrati nella casa degli Atridi, ma al tempo stesso, per il nostro interesse, del progresso della civiltà giuridica passando da una giustizia solo vendicativa alla pena irrogata dopo il giusto processo celebrato in tribunale.

Al centro della carneficina familiare vi sono Ifigenia, figlia di Agamennone da lui presentata alla dea Artemide per essere sacrificata; Clitennestra che, complice Egisto suo amante e usurpatore del trono, fa uccidere il marito Agamennone per vendicare il sacrificio della figlia; Oreste che, con l’aiuto del fedele Pilade, uccide la madre Clitennestra ed Egisto per vendicare l’uccisione di suo padre Agamennone.

L’ordine divino è stato stravolto da Oreste non tanto per l’uccisione di Egisto, ma per il matricidio, la violazione della sacra legge del “ghenos”, il vincolo tribale tra generazioni, che non tollera l’uccisione di un consanguineo e viene regolata con la sanguinaria vendetta privata.

La condanna per Oreste è di veder trascinare la sua esistenza “in un gorgo di atroci tormenti” come dirà Eschilo. Di questa giustizia vendicativa “garanti” sono le Erinni, mostruose divinità femminili, ancestrali portatrici dello spirito dell’uomo ucciso che insegue il reo sotto forma di serpente bramoso di vendetta, o in altro modo. Queste divinità legate a culti primitivi scatenano la loro ira quando viene commesso un delitto.

Oreste vaga di paese in paese mentre viene braccato dalle Erinni con visioni terrificanti senza riuscire a sottrarsi alla loro insaziabile vendetta.

Consultata Pizia, la sacerdotessa dell’oracolo di Apollo, Oreste si rivolge ad Atena per chiederle di giudicare il suo delitto e di liberarlo dalla persecuzione dei demoni materni in caso di giudizio favorevole. Atena interrompe la catena di vendette, ma di rilievo a questo punto è il tramonto della giustizia vendicativa attraverso la fondazione del tribunale dell’Areopago, il nuovo ordine fondato “su un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre”, come dirà Atena (Eumenidi, v. 484).

Troppo gravoso per Atena districarsi fra le due ragioni che hanno condotto Oreste al terribile delitto, il matricidio commesso per vendicare l’uccisione del padre Agamennone perpetrata dalla moglie Clitennestra con la complicità di Egisto suo drudo.

Atena si rifiuta di sostituirsi alle Erinni nel giudizio, ma anche di giudicare da sola un delitto così grave e complesso per come è stato commesso: “La questione è troppo grande, se un mortale pensa di giudicarla; ma neanche a me è lecito giudicare una causa di omicidio che suscita acute ire vendicatrici” (Eumenidi, v. 471).

Il rifiuto di Atena spiana la strada a un cambiamento di rotta dando impulso a un significativo passo per la crescita della civiltà giuridica. Il rifiuto di Atena non è negazione della giustizia, ma introduzione di una nuova forma di giudizio: “sceglierò comunque nella città persone irreprensibili, giudici dell’omicidio che abbiano rispetto dei giuramenti e creerò un istituto che rimarrà per sempre. Voi intanto presentate testimonianze e prove, giuramenti che aiutano la giustizia” (Eumenidi, vv. 480-485).

Atena interrompe la catena della vendetta e istituisce il tribunale degli uomini secondo la struttura dell’Areopago composta da un collegio di dodici giurati, scelti tra i migliori cittadini, presieduto dalla stessa dea della Sapienza.

Atena fornisce le cognizioni del processo: l’Areopago il luogo sacro della celebrazione del processo, l’accusa pubblica sostenuta dalle Erinni mosse dal furore di vendetta, Apollo il difensore dell’imputato Oreste, il collegio di giudici presieduto da Atena. Nasce il processo sul modello tipicamente accusatorio, molto differente da quello inquisitorio che invece si affermerà alla fine dell’impero romano e diventerà anche il modello processuale tipico dell’ordinamento canonico.

La giustizia vendicativa perseguita dalle Erinni è soppiantata dal processo davanti al tribunale, cioè il contraddittorio, il ragionamento, la forza della parola argomentatrice, l’esame delle circostanze che portano alla formazione della prova processuale. La forza della ragione personificata dalla dea Atena prevale sul cieco e spasmodico istinto di vendetta di cui sono espressione le Erinni, creature nauseabonde: “Davanti a quest’uomo una strana schiera di donne dorme sopra i sedili. No! non donne voglio dire, ma Gorgoni: no! neanche alla figura delle Gorgoni le posso assomigliare […] sono senz’ali a vedersi queste e nere, completamente nauseanti, russano con aliti che non si possono avvicinare e dagli occhi versano lacrime sgradevoli” (Eumenidi, vv. 48-54).

Il processo non è vendetta, ma azione guidata dalla ragione, azione dialogica che si intreccia tra l’accusa delle Erinni, la difesa di Apollo e il collegio giudicante presieduto da Atena, espressione del logos. Con le Eumenidi Eschilo ci introduce nel giusto processo in cui le parti sono poste in condizione di parità nel contraddittorio secondo il principio “audiatur et altera pars”. La “parola” passa dall’accusa mossa dalle Erinni: “è vostra la parola, dichiaro aperto il dibattito. L’accusatore parlando per primo fin dal principio può spiegare con esattezza il fatto” (Eumenidi, vv. 582-584), all’arringa difensiva pronunciata da Apollo cui viene premessa l’ammonizione di Atena. “bada a come difendi costui perché scampi alla condanna” (Eumenidi, v. 625).

La parola pronunciata dalle parti e dal collegio è ascoltata e accolta dal giudice che in questa attività fa sì che l’ascolto e la giustizia operino la fondamentale funzione realizzata attraverso una nuova forma di giudizio lasciandosi alle spalle la furiosa giustizia vendicatrice delle Erinni.

È significativo che sia proprio Atena, la dea della Ragione e non la dea della Giustizia a inaugurare questo nuovo “istituto di giustizia”. Compito del giudice è infatti di decidere rendendo appunto ragione attraverso argomentazioni logiche e convincenti. Il giudizio non è più prerogativa esclusiva di una dea o di più divinità, bensì, come dichiara Atena, “sceglierò comunque nella città persone irreprensibili, giudici dell’omicidio che abbiano rispetto dei giuramenti e creerò un istituto che rimarrà per sempre” (Eumenidi, v. 482). Atena inaugura il processo istituendo un tribunale collegiale di uomini scelti presieduto da lei, la dea della Regione, come a voler significare che compito del giudice è rendere ragione, ma anche che la funzione del giudicare è la più alta tra le attività umane che più si avvicina a quella divina. La sentenza emessa da “uomini irreprensibili”, guidati dalla dea della Ragione viene avvolta da un alone di sacralità per la profondità del giudizio e il destino dell’uomo messo sotto accusa riposto nelle loro mani.

Il collegio giudicante raggiunge la parità di voto, ma sarà Atena che lo presiede a dirimerla con il suo voto favorevole. La prerogativa di tradurre in maggioranza la parità raggiunta nella votazione collegiale viene inaugurata in questo processo narrato da Eschilo e verrà conosciuta nel diritto romano imperiale sotto il nome di calcolus Minervae. Ancora oggi nel Codice di Diritto Canonico la prerogativa di dirimere la parità da parte di colui che presiede il collegium, “praeses suo voto paritatem dirimere potest”, la troviamo sancita al can. 119, 2°.

Le Erinni, creature ancestrali furiose e assetate di vendetta, non perdono la loro cieca inclinazione, ma trovano nel processo il ruolo di pubblica accusa, mentre il loro nome viene significativamente mutato in “Eumenidi” di cui il prefisso greco “eu” contrasta con la loro natura. La loro visione del diritto e della giustizia considera la violazione della legge umana come infrazione di una legge fisica che arriva perfino ad alterare l’ordine cosmico.

Il processo codificato da Atena dona agli Ateniesi un nuovo ordine alla polis e alla comunità introducendo nel processo una dialettica alla quale le stesse Erinni/Eumenidi sono obbligate ad allinearsi abbandonando il linguaggio del furore e della maledizione bramosa di vendetta giustizialista.

Le Erinni constatano il fatto oggettivo commesso e la legge violata che fa loro gridare vendetta, sono solo capaci di condannare, non di assolvere, di non riuscire a vedere l’innocenza oltre il fatto oggettivo commesso, perché non sono capaci di giudizio, di esprimere il logos, di dare forza alla parola, di contesa dialettica, di ragionamenti argomentativi. Rimangono ferme nella loro prerogativa di accusatrici in modo irremovibile e cieco anche di fronte a evidenti circostanze attenuanti se non addirittura esimenti.

Di fronte all’oggettività del duplice delitto commesso neppure Oreste può negare l’evidenza che lo porta a doversi sottrarre al giuramento di innocenza per non incorrere nella punizione divina dovuta allo spergiuro. La spaccatura del collegio giudicante è netta, il risultato della votazione è pari tra coloro che riconoscono l’innocenza e coloro che lo reputano colpevole. Prevarrà la difesa di Apollo che non nega i fatti, ma spinge a comprendere le ragioni dell’accusato (Eumenidi, vv. 614-621). Il voto, il calcolus gettato da Atena, fa pendere l’ago della bilancia determinando il verdetto assolutorio di Oreste nonostante il delitto di cui si è macchiato. Il voto di Atena esprime ciò che lei è e rappresenta, innalzando il giudizio suffragato da una conoscenza più alta, la ragione. Atena con il suo voto dirime la parità e fa entrare nel processo il logos, la ragione, la forza argomentativa della dialettica. Si impongono e prevalgono le ragioni dell’accusato per il tradimento e l’uccisione del padre Agamennone commesso dalla moglie Clitennestra e l’istigazione di Apollo che aveva indotto Oreste a compiere la vendetta matricida fornendo poi nella difesa una lettura a lui favorevole dei fatti che gli sono addebitati.

La finalità dell’Orestea, in particolare delle Eumenidi, non è quella di dichiarare la non colpevolezza di Oreste, ma di vedere affermato un nuovo ordine che mette al centro la polis e il ruolo dell’Areopago, la nuova giustizia che diventa esperienza collettiva e non espressione monocratica di una divinità per quanto elevata come lo era Atena, il “giusto” processo dove le parti hanno diritto di essere ascoltate, la parola che argomenta e che realizza la verità processuale.

Questo è il processo con tutti i limiti e le virtù che Atena dona alla polis come strumento di salvezza. L’azione vendicativa delle Erinni viene domata e circoscritta nel processo in una presenza che ora diventa collaborativa e congruente con la sua economia quale confronto dialogico tra accusa e difesa.