Un «mea culpa» per l’inosservanza delle leggi canoniche

di Andrea Drigani · San Giovanni Paolo II nella Costituzione Apostolica «Sacrae disciplinae leges», con la quale il 25 gennaio 1983 promulgava il nuovo «Codex iuris canonici», affermava che «le leggi canoniche, per la loro stessa natura, esigono l’osservanza» («canonicae leges suapte natura observantiam exigunt»).

La proclamazione di questo principio potrebbe apparire ovvia ed evidente, e certamente lo è da un punto di vista teorico, ma purtroppo non per la sua applicazione pratica.

Tale assioma viene poi ribadito al canone 212 § 1 del «Codex» laddove si dice che tutti i fedeli sono tenuti ad osservare con cristiana obbedienza quanto i sacri Pastori dispongono («statuunt») come capi della Chiesa («Ecclesiae rectores»). Il canone 392 § 1 precisa, poi, che il vescovo diocesano è tenuto ad urgere l’osservanza di tutte le leggi ecclesiastiche.

Le diverse indagini, anche se non di natura giudiziaria, che sono state eseguite, su incarico delle conferenze episcopali nazionali, in alcuni stati europei circa i delitti, non puniti, contro il sesto comandamento del Decalogo commessi da chierici con minori di diciotto anni, hanno fatto emergere, tra l’altro, che le norme penali della Chiesa sono state pressochè disattese e inosservate.

E’ bene ricordare, infatti, che già il «Codex iuris canonici» del 1917 al canone 2359 § 2 prevedeva espressamente il suddetto delitto, reiterato, poi, dal «Codex iuris canonici» del 1983 al canone 1398 § 1, 1°.

Anche a causa della inadempienza di queste leggi penali e processuali canoniche, San Giovanni Paolo II col Motu proprio «Sacramentorum sanctitatis tutela», emanato il 30 aprile 2001, riservò alla Santa Sede, segnatamente alla Congregazione per la Dottrina della Fede, il giudizio sui predetti delitti.

Quando, pure nella Chiesa, i processi penali non si celebrano si rischia di finire nel porto delle nebbie, alimentando confusioni e incertezze, e provocando altri tipi di processi: quelli mediatici.

I processi penali, ivi compresi quelli canonici, non si concludono sempre una sentenza di condanna, bensì di assoluzione, poiché il giudizio penale è per accertare la sussistenza o meno di un fatto delittuoso.

L’ordinamento giuridico della Chiesa prevede la fattispecie dei delitti ed una serie di precise disposizioni per esaminare tali questioni, anche in sede procedurale, disposizioni alle quali bisogna rigorosamente attenersi. Gli affari penali non possono essere trattati in maniera clandestina.

Viene fatto di domandarsi il perché di tale inosservanza delle legge penali canoniche, forse vi è ancora una certa antigiuridicità per la quale si ritiene che dinanzi ai delitti si debba agire soltanto con esortazioni e suggerimenti, favorendo, però, in tal modo una nefasta scissione tra la misericordia e la correzione, tra la carità e la sanzione, creando in molti casi scandalo tra i fedeli.

Papa Francesco nella Costituzione Apostolica «Pascite gregem Dei», pubblicata il 23 maggio 2021 (cfr. A. Drigani, Misericordia e correzione: un rapporto inscindibile, in Il mantello della giustizia, luglio 2021), ha dichiarato: «La carità richiede che i Pastori ricorrano al sistema penale tutte le volte che occorra, tenendo presenti i tre fini che lo rendono necessario nella comunità ecclesiale, e cioè il ripristino della giustizia, l’emendamento del reo e la riparazione degli scandali».

Le indagini di cui abbiamo riferito all’inizio dell’articolo hanno provocato diversi «mea culpa», l’ultimo dei quali da parte di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.

Il Devoto-Oli definisce il «mea culpa» come un modo di dire per chiedere venia o per esprimere rassegnazione di fronte alle conseguenze di un proprio errore.

Riguardo alle vicissitudini che abbiamo illustrato, un tipo di «mea culpa» si può sinceramente fare, cioè quello di non aver osservato le norme penali della Chiesa, e di emettere, quindi, il proposito, per l’avvenire, di osservarle.